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Da anni cheFare lavora al fianco delle organizzazioni della cultura dal basso, degli enti di ricerca, dei produttori culturali e dei policy makers per tracciare nuovi percorsi di trasformazione culturale.

Ed è per questo che abbiamo realizzato laGuida, il Festival Itinerante dei nuovi centri culturali:

perché i nuovi centri culturali sono gli spazi del possibile, i luoghi che connettono ed attivano le energie di trasformazione dei territori, costruendo ponti tra la memoria di quello che è stato, le multiforme del presente e le infinite possibilità del futuro.

Dal 22 giugno all’1 luglio si è svolto ilCamp della prima tappa de laGuida. Ogni tappa de laGuida è pensata per ruotare in modo flessibile attorno a tre momenti: ilCamp (un momento di formazione seminariale per almeno 50 operatori dei nuovi centri culturali locali, tra conferenze, laboratori e tavole rotonde); laPiazza (il momento di networking tra comunità culturali, pubblici e stakeholder del territorio per creare nuovi canali di dialogo e supporto); ​laFesta (musica e festa per tutte e tutti, perché non si vive di solo pane). Ad ottobre 2020 si terranno laPiazza e laFesta. Incrociamo tutti le dita per farli dal vivo.

Perché avremmo voluto fare tutto in presenza, ma il Coronavirus non ce l’ha permesso.

Abbiamo quindi dovuto inventarci dei modi di far funzionare un festival a distanza, con tutte le sue indeterminazioni, i suoi momenti taciti, le sue articolazioni ibride. Per 10 giorni si sono alternati sugli schermi seminari, conferenze e tavoli di lavoro durante i quali abbiamo lavorato sul rapporto tra nuovi centri culturali e forme della Partecipazione.

Una scelta obbligata, ma anche un esperimento sulle potenzialità della collaborazione a distanza in un progetto complesso al quale hanno preso parte attiva i rappresentanti di 67 nuovi centri culturali della Liguria, del Piemonte e della Valle d’Aosta.

Ogni tappa de laGuida ha un tema, una parola chiave che possa servire da bussola – e, perché no, pretesto – per esplorare l’infinità complessità prismatica dei nuovi centri culturali. Il tema di questa prima tappa è stato, abbastanza naturalmente, Partecipazione.

Prima di tutto perché in Italia le migliaia di organizzazioni reti che si incontrano nei nuovi centri culturali lo fanno proprio portando avanti pratiche culturali collaborative basate sulla partecipazione e sull’attivismo. E poi perché in questa prima, terribile, metà del 2020 i nuovi centri culturali di tutta Italia sono stato uno dei centri nevralgici nei quali si sono organizzate le risposte del volontariato e del civismo di base, tra brigate volontarie e organizzazioni di mutuo soccorso.

I tre relatori dei momenti a porte aperte hanno approfondito in modo verticale aspetti diversi e complementari della partecipazione, per un pubblico complessivo di oltre 600 spettatori on line.

Filippo Tantillo ha tratto dalla sua esperienza più che ventennale le sue “Lezioni sulla

Partecipazione dalle Aree Interne”. Uno sguardo pragmatico sulla passione per il cambiamento che anima le reti sui territori, sul come costruire obiettivi condivisi e identificare le priorità, su quali siano i percorsi praticabili perché la partecipazione possa trasformarsi in coinvolgimento strategico dei cittadini nelle scelte. E su quali politiche vale la pena impegnarsi.

Tatiana Bazzichelli ha passato in rassegna le molte declinazioni del concetto e della pratica di Partecipazione nel suo percorso di ricerca e di attivismo, dal networking come forma d’arte nell’hacktivismo al lavoro di rappresentanza degli spazi ibridi con il Comune di Berlino, passando per il lavoro d’avanguardia del Disruption Research Lab all’intersezione tra politiche, tecnologia e società.

Stefano Maffei ha esplorato il tema della partecipazione con uno sguardo trasversale tra design dei servizi e design for policy. Una visione “a volo d’uccello” per provare, oltre le retoriche, a comprendere come mettere gli strumenti al servizio delle necessità.

Ma il grosso delle oltre 15 ore de ilCamp si sono svolte a porte chiuse, tra formazioni e laboratori.

Una serie di interventi di formazione a cura di cheFare (con Matteo Brambilla, Giacomo Giossi, Marilù Manta e Federica Vittori) hanno guardato agli aspetti pratici e teorici di alcuni dei principali problemi che caratterizzano il rapporto tra partecipazione e nuovi centri culturali.

Come – ad esempio – quali sono i molti modi costruire partecipazione, e quali sono i costi – espliciti e nascosti – che si portano dietro. O quali sono gli equilibri possibili tra relazioni e conflitto, e come si

può situare il lavoratore culturale in questa prospettiva e quale senso possono avere da questo punto di vista le comunità che li attraversano. O – ancora – quali pratiche sono state messe in atto durante il lockdown dai nuovi centri culturali italiani per rispondere con la partecipazione attiva nel corso della più grande crisi della storia recente.

Durante i 7 tavoli a porte chiuse abbiamo riflettuto e discusso sul senso e le dinamiche delle pratiche partecipative dei nuovi centri culturali. Per alcuni, la partecipazione è un elemento costitutivo, che si situa alla base stessa della propria esistenza; per altri è invece uno strumento, una “tecnica”

impiegata per raggiungere altri obiettivi.

In alcuni casi è una necessità, l’unico modo concepibile per costruire percorsi economicamente e socialmente sostenibili grazie al sostegno di chi li supporta. Per altri è invece un desiderio, qualcosa a cui tendere, una pulsione che li proietta verso il futuro.

In alcuni casi è soprattutto una dinamica interna che riguarda i soci, i collaboratori e gli avventori.

In altri è invece un modo per relazionarsi con l’esterno, con altri spazi e organizzazioni, in Italia e all’estero.

Per tutti, è sempre e comunque un orizzonte sociale, culturale e civile.

Certo, non basta invocare la Partecipazione come una parola magica perché tutto si risolva. È chiaro a tutti che i tempi dell’ottimismo forzato sono finiti e che solo un‘analisi impietosa delle criticità potrà aiutare a fare dei passi in avanti.

E la lista delle difficoltà emerse nei tavoli è decisamente puntuale.

Innanzitutto, nonostante la grande attenzione dedicata nell’ultimo decennio ai processi di audience developement, molti nuovi centri culturali faticano a trovare risorse e strumenti per coinvolgere nuovi pubblici. Questo sia perché le competenze sono distribuite in mondo molto più disomogeneo di quanto non tendano a pensare gli addetti ai lavori, sia perché molti nuovi centri culturali hanno economie puramente di sussistenza e senza affidarsi a dinamiche collettive non possono

semplicemente permettersi di pensarci.

In secondo luogo, soprattutto quando attorno a un nuovo centro culturale si confrontano generazioni diverse, le trasformazioni della governance interna possono essere complicate: basti pensare alle situazioni associative nate nel Secondo Dopoguerra, oggi ancora attivissime ma che nell’arco di 60 o 70 anni hanno visto avvicendarsi decine di gruppi dirigenti diversi.

Su un altro piano del discorso, come accade in molti altri settori legati alla cultura ed al sociale, c’è una diffusa difficoltà nel comunicare il valore profondo e di sistema degli spazi agli interlocutori locali: troppo spesso riescono a farsi percepire solamente come luoghi associativi o fornitori di servizi specifici, mentre il loro valore va ben oltre. Questa incomunicabilità rischia di innescare meccanismi di disaffezione nei confronti delle amministrazioni, dei territori e di altri potenziali alleati.

Ed è in questo senso, infatti, che su molti territori rischiano di innescarsi dinamiche di eccessiva competizione per risorse locali percepite come sempre troppo scarse, soprattutto dove le distinzioni tra profit e non-profit non sono sufficientemente chiare: se un nuovo centro culturale viene pensato come un puro luogo di consumo (di leisure, di cibo, di bevande, di beni o servizi) allora rischia di diventare solo un “problema” che compete in modo “sleale” con quelle aziende che sul territorio abitano gli stessi mercati.

Un ulteriore elemento di criticità è costituito da quello che è noto, nell’ambito degli studi sul terzo

settore, come il “ciclo di affamamento”: una dinamica per la quale le erogazioni pubbliche (o

filantropiche) vengono eccessivamente vincolate alla realizzazioni di nuovi progetti e non, invece, al consolidamento di struttura. Quello che è emerso chiaramente dai tavoli è che non si tratta solo di un problema del terzo settore sociale; al contrario, riguarda anche i mondo della cultura che attraversano i nuovi centri culturali: quando la logica di progetto spinge all’iper-produzione, si vive con difficoltà il consolidamento delle produzioni culturali , di conseguenza, si fatica a costruire proposte pluriennali orientate alla sostenibilità di lungo periodo.

Un’ultima questione delicata, infine, riguarda la natura stessa delle dinamiche partecipative. Dai tavoli è emerso un bisogno estremo di imparare a imparare a modulare la richiesta di tempo ai partecipanti ed evitarne inutilmente l’iper-responsabilizzazione: la partecipazione costa molto, moltissimo, e se non si affronta consapevolmente rischia di produrre delusioni e riprodurre disuguaglianze. È una questione ben nota in molti ambiti, dalla progettazione partecipata all’arte relazionale, ed urbanisti e sociologi si sono trovati a doverla a affrontare moltissime volte negli ultimi decenni. Guardando alle pratiche dei nuovi centri culturali, però, assume dimensioni completamente nuove.

Eppure, le potenzialità che emergono dall’incontro tra nuovi centri culturali, forme di Partecipazione e reti sono enormi e la forza dell’impatto che hanno sui territori in cui operano è ancora tutta da indagare.

Uno dei punti di forza sui quali possono contare è sicuramente la costituzione di gruppi di mutuo aiuto, sia all’interno dei singoli luoghi che in un’ottica di filiera, più o meno lunga: l’unione fa la forza, magari è scontato, ma in un contesto globale nel quale la capacità di attivare competenze diverse e complementari in tempi brevi può fare la differenza (come nel caso delle risposte locali alla crisi sociale del Coronavirus) i risultati sono tutt’altro che scontati.

Così come non scontata è l’intuizione di costituire nuovi centri servizi per necessità specifiche, o ancora costruire nuove relazioni intersettoriali con le strutture già esistenti del terzo settore e della pubblica amministratore.

C’è un ampio margine, inoltre, per la costruzione di percorsi dedicati di formazione e capacitazione su molti temi: comunicazione e storytelling, progettazione, fundraising, community management, cultura collaborativa, aspetti giuridici e fiscali.

Alcuni partecipanti ai tavoli hanno anche iniziato a riflettere sulla possibilità di attivare misure ad-hoc e linee progettuali specifiche per la circuitazione di opere, iniziative e progetti in territori diversi, redistribuendo così il valore che viene prodotto localmente in un’ottica di sistema.

Più di tutto, però, è emersa chiarissima la necessità di costruire appuntamenti periodici di conoscenza e confronto con i policy makers a tutti i livelli, soprattutto negli anni difficili che verranno.

Ed è anche per questo che dopo la pausa estiva ricomincerà il percorso de laGuida. Ad ottobre realizzeremo laPiazza e laFesta, gli altri due momenti della prima tappa. Nel frattempo,

continueremo la pubblicazione di articoli, estratti selezionati, reportage e interviste sul sito di cheFare.

Ci prepariamo a quell’appuntamento portando in libreria, a fine agosto, BAGLIORE, il libro realizzato da cheFare con Il Saggiatore tramite 6 residenze per scrittrici e scrittori under 35 in altrettanti nuovi centri culturali, prodotto con il sostegno di MIBACT e SIAE. Un’occasione per raccontare questi mondi a nuovi pubblici, ben oltre le retoriche delle “cose da ragazzi”.

Nel frattempo, continuiamo l’attività de laCall to Action, la mappatura nazionale dei nuovi centri culturali iniziata a febbraio, alla quale hanno partecipato finora oltre 680 organizzazioni, operatrici, operatori e pubblici della cultura.

E, ultima cosa ma non per importanza, stiamo lavorando per portare laGuida in tutta Italia, approfondendo in ogni tappa una tematica diversa e aiutando reti, organizzazioni e territori a connettersi.

Sono stati con noi:

Ricetto per l’Arte – Agorà della Val Susa (Cumalè), Lo Spazio di Mezzo (atelier mobile), a.titolo, Arci Piemonte, Arci Canaletto, Associazione Amici di Paganini, Arteco, ArteSera, Babelica, Bocciofila Vanchiglietta, Teatro Cabiria, Cafè Neruda, Cap10100, Casa Gavoglio, CCCTO – Ex Birrificio Metzger, Cascina Govean, Centro di Incontro Mascagni, Centro di Incontri Chiusa di Pesio, Centro Ricreativo Culturale Luceto, Circolo Barabini di Trasta, Cinema Vekkio, Circolo Combattenti e Reduci Montegrappa, Con-diviso, Centro del Protagonismo Giovanile di Torino, Cripta747,

ExMattatoio – Cittadella del Volontariato, Ex Ospedale Psichiatrico di Quarto, Iperspazio, L’Arteficio, La Claque – Teatro della Tosse, La Fortezza (E20), La Rocca – Fratellanza Contadini e Operai,

Magazzino sul Po, Mastronauto, NESXT, Nòva, Officina residenza teatrale per le nuove generazion, Officine CAOS, Officine Solimano, Palazzo del Tribunale (Baba Jaga), Pandan, Portmanteau, Print Club Torino, Rifugio Paraloup, Sintra Onlus, SOMS (Progetto Cantoregi), Spazio Bac, Spazio Ferramenta, Spazio Hydro, Spazio Kor, Tastè Bistrot, Teatro della Juta, Teatro Marchesa (Choròs), Terzo Paradiso (le Radici e le Ali), Teatro Laboratorio Creativo, viadellafucina16 Condominio-Museo, Villa Filanda, ZAC! Zone Attive di Cittadinanza, Zero Gravità (Villa Cernigliaro), Oratorio Finalpia.

Ci hanno accompagnati: Arci Italia, Ateatro, Fondazione Piemonte dal Vivo, L’Orgia, Labsus, Legambiente e progetto ECCO, Lo Stato dei Luoghi, NESXT, Riusiamo l’Italia, URBACT, Polo del

‘900, La Triennale di Milano, Dipartimento di Sociologia e Ricerca dell’Università degli studi di Milano – Bicocca, Università IUAV di Venezia e Master U-RISE Rigenerazione Urbana e Innovazione Sociale, Centro Internazionale di Studi Umanistici “Umberto Eco” – Scuola Superiore di Studi Umanistici (SSSUB) – Università di Bologna, Iperborea.

Con il supporto di Fondazione Compagnia di San Paolo ed il sostegno di Fondazione Unipolis.

Riabitare l’Italia oltre le sue fragilità: dai

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