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Cammina Italia è il reportage lento tra le rughe del paese

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Academic year: 2022

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‘Cammina Italia’ è il reportage lento tra le

‘rughe’ del paese

Leggi l’articolo completo pubblicato su Rai News.

Sono le zone in cui è più difficile vivere, perché lontane dalle comodità, ma anche quelle più ricercate da chi fugge dal caos di una vita apparente comoda. Parliamo delle cosiddette “aree interne” del nostro Paese, delle quali ci occupiamo in questa nuova puntata di “Cammina Italia”.

L’economista Fabrizio Barca, in cammino con noi, le definisce aree “rugose”, perché tra le loro pieghe nascondono tesori e risorse umane e culturali. Ma per valorizzarle, sarà necessario risolvere i tanti problemi e ridurre i disagi di chi sceglie di rimanere o tornare in queste zone. Noi le

attraverseremo percorrendo la Via Vandelli, realizzata nel 1700 per collegare Modena e Massa e oggi riscoperta come sentiero escursionistico, grazie al lavoro di ricerca di Giulio Ferrari.

I nuovi centri culturali sono un ponte tra mondi diversi, ora devono unirsi tra loro

Dal 2012 a cheFare ci occupiamo di costruire ponti tra mondi diversi, prima finanziando e poi raccontando i mondi della cultura collaborativa, spesso co-progettando percorsi assieme a organizzazioni dal basso, istituzioni, policy makers e centri di ricerca.

laGuida è il punto di arrivo di anni di lavoro nei quali abbiamo cercato di aiutare l’emersione di queste realtà. È un festival itinerante dei nuovi centri culturali perché nel tempo abbiamo realizzato che proprio in questi spazi ibridi trovano casa molte di quelle forme che rendono viva e vitale la cultura in Italia. È un modo diffuso capillarmente eppure ancora relativamente poco conosciuto.

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Ogni episodio de laGuida si compone di tre momenti: ilCamp, laPiazza e laFesta. Avrebbero dovuto realizzarsi in tre giorni consecutivi, ma le limitazioni imposte dal Coronavirus ci hanno obbligati a separarli e diluirli.

Così dal 22 giugno all’1 luglio si è svolto ilCamp della prima tappa de laGuida, grazie al contributo di Compagnia di San Paolo, al quale hanno partecipato otre 50 operatori dei nuovi centri culturali locali di Liguria, Piemonte e Valle D’Aosta e centinaia di persone da tutta Italia tra conferenze, laboratori e tavole rotonde.

laPiazza è il secondo momento de laGuida, e si svolgerà il 13 e 14 di ottobre. laPiazza è la

costruzione di una piattaforma di traduzione tra i mondi dei nuovi centri culturali e quelli delle politiche.

Se visti come facenti parte di una tendenza più ampia di portata nazionale e

internazionale, i singoli nuovi centri culturali sono molto di più di sperimentazioni locali:

sono connettori di relazioni, pratiche, linguaggi e produzioni che costruiscono senso.

Spesso chi entra in relazione con un nuovo centro culturale – come frequentatore, come organizzazione che collabora, ma anche in quanto finanziatore o policy maker – tende a

considerare la specifica realtà come un unicum, una bizzarra eccezione che per i motivi più diversi è capitata proprio lì.

E quindi, di volta in volta, i quadri di riferiremo dei nuovi centri culturali si sono legati a settori delle politiche più disparate, a seconda di quali sono stati i primi punti di contatto, delle motivazioni politiche, della buona volontà di singoli dirigenti: dalle attività commerciali allo

spettacolo dal vivo, passando per il welfare, la rigenerazione urbana, l’innovazione sociale e quella culturale.

Questa iper-localizzazione vincola lo sviluppo dei singoli spazi in direzioni che ne limitano le potenzialità generative di impatti territoriali ad ampio spettro, producendo quello che tra gli addetti ai lavori viene definito “effetto Frankenstein”: la giustapposizione convulsa di elementi progettuali causata dalla rincorsa di bandi e finanziamenti che porta, nel tempo, a costruire organizzazioni dall’identità debole e dall’efficacia limitata.

Inoltre, individualizza il rischio che operazioni sperimentali come i nuovi centri culturali necessariamente comportano, addossandolo alle sole organizzazioni promotrici e, eventualmente, al singolo dirigente o referente politico che le ha facilitate. Questo meccanismo rende, da un lato, instabili e precarie le condizioni di lavoro in cui operano i nuovi centri culturali e costituisce, dall’altro, un costante e imperdonabile spreco di occasioni di apprendimento istituzionale per i policy maker che si relazionano con loro.

Vieni a laPiazza, la nostra 2-giorni di eventi online con i nuovi centri culturali per conoscere nuovi stakeholder e costruire nuove politiche.

Quello che abbiamo capito negli anni a cheFare – invece – è che se visti come facenti parte di una tendenza più ampia di portata nazionale e internazionale, i singoli nuovi centri culturali sono molto di più di sperimentazioni locali: sono connettori di relazioni, pratiche, linguaggi e produzioni che costruiscono senso. Quel senso del quale siamo costantemente alla ricerca,

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soprattutto in un momento difficile come il 2020.

Perché è nella risposta puntuale alla crisi portata dal Coronavirus che in molte parti d’Italia i nuovi centri culturali hanno fatto da base operativa alle forme di solidarietà di base che si sono organizzate per portare una risposta ai gruppi sociali più colpiti. Non solo solidarietà materiale – costituendo punti logistici per la raccolta e la distribuzione – ma anche supporto e sviluppo di progetti di cultura di prossimità. Ed è proprio alla cultura di prossimità che dobbiamo guardare in questi mesi: il dispiegamento sui territori – nei centri come nelle periferie, nelle metropoli come nelle aree interne – di pratiche culturali accessibili, distribuite, capillari.

Per noi, la traduzione tra mondi diversi che vivono gli stessi territori è una delle operazioni più delicate e complesse in assoluto. Sappiamo che ci si trova costantemente a utilizzare le stesse parole per indicare cose diverse, mentre altre restano in confortevoli nubi d’indeterminatezza.

Quello che non vogliamo fare è parlare per conto di altri: sempre più spesso i nuovi centri culturali danno vita a reti di secondo livello o entrano a far parte, cambiandone in parte i connotati, di associazioni storiche; sono i nostri partner di rete, che in questi mesi stanno diventando sempre più forti, pur tra le mille avversità del periodo. Al contrario, vogliamo fare quello che pensare di saper fare meglio: aiutare a incontrarsi, costruire relazioni, connessioni e nuovi modi di comprendersi e di cooperare.

Leggi la recensione di AgCult di BAGLIORE, la nostra biografia dei nuovi centri culturali

Su AgCult dibattito aperto per BAGLIORE, sei scrittori raccontano i nuovi centri culturali (il Saggiatore, a cura di cheFare).

Federica Andreoni, Pierluigi Bizzini, Marco De Vidi, Giulia Gregnanin, Alessandro Monaci e Matteo Trevisani hanno trascorso due settimane in residenza, rispettivamente ai Cantieri Culturali della Zisa a Palermo, all’Ex Fadda di San Vito dei Normanni, alle Officine Culturali di Catania, ai Bagni Pubblici di via Agliè in Barriera Milano a Torino, a Pollinaria sul Gan Sasso in Abruzzo e a Borca di Cadore dentro il cuore pulsante del laboratorio di Dolomiti Contemporanee.

Dai loro diari di viaggio emergono le atmosfere e i vissuti di chi frequenta i luoghi della

contaminazione culturale, urbani e rurali, metropolitani o nelle aree interne. In queste narrazioni c’è tutta la curiosità dell’incontro con i protagonisti del cambiamento locale, che hanno sperimentato varie forme di welfare culturale a partire dalle caratteristiche e vocazioni proprie e del territorio abitato/agito.

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Difficile descrivere i racconti, più agevole riassumere in una sequenza di diadi o triadi lo sviluppo del percorso, dallo splendore della Zisa al paesaggio metafisico del monte Antelao, il bus del diau.

Leggi la recensione completa qui.

Cosa c’è nel nuovo numero di Pandora Rivista: percorsi possibili al tempo del Coronavirus

Il mondo nel Covid-19: questo è il titolo del numero 2/2020 di Pandora Rivista. Riflettere sul mondo

“nel” cambiamento innescato dalla crisi sanitaria significa al tempo stesso ipotizzare uno o diversi

“dopo” possibili, ma anche ripensare il “prima”.

Il “mondo di ieri” era a sua volta segnato da profonde trasformazioni, che realtà come cheFare e Pandora Rivista hanno provato a descrivere. Di fronte a questo nuovo passaggio dobbiamo innanzitutto leggere questa nuova crisi nelle sue differenze rispetto a quella del 2008, momento generatore di molti dei cambiamenti che abbiamo vissuto in seguito.

Un nuovo numero di PandoraRivista: Il mondo nel Covid-19

Tra i possibili percorsi proposti nel numero, realizzato in collaborazione con Fondazione Unipolis, c’è un tentativo di mettere alla prova alcune elaborazioni e programmi di ricerca e azione sviluppati negli ultimi anni, sulla base di concetti come sostenibilità, generatività, giustizia sociale,

innovazione, interrogandosi su come “reggano” alla prova della crisi e consentano di pensare il cambiamento in corso.

Si può partire allora dall’intervista a Enrico Giovannini che apre il numero, che sottolinea come «il primo shock» che abbiamo vissuto sia stato «di natura culturale», investendo «le nostre stesse categorie relative alla controllabilità dei fenomeni», mettendo in discussione l’idea «molto occidentale […] di essere in grado, attraverso politiche e comportamenti adeguati, di risolvere i problemi». L’incertezza è stata infatti la cifra che ha caratterizzato tutta la prima fase in cui abbiamo affrontato la pandemia e il periodo del lockdown. Un’incertezza che si è accompagnata a quel vissuto che Mauro Magatti descrive come «angoscia», tratteggiando i contorni di quella temporanea rottura

«apocalittica» dell’ordine sociale che abbiamo sperimentato.

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Questa situazione straordinaria ha generato però anche un’inedita apertura a diverse possibilità.

Secondo un’idea che emerge in tanti dei contributi del numero la crisi è un bivio, una diramazione che apre ad esiti diversi. Si può fare riferimento, ad esempio, ai tre scenari che Fabrizio Barca e Patrizia Luongo tratteggiano per il “dopo” nel loro articolo: Normalità e Progresso, Sicurezza e Identità e Un futuro più giusto.

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Ad aprire ad esiti diversi è la complessità stessa della crisi, che secondo Mariana Mazzucato è

«triplice», unendo crisi sanitaria, economica e ambientale. Mentre nel 2008 tutto si giocava sul piano economico-finanziario e da lì gli effetti si sono poi irradiati nella società e nella politica, oggi la crisi coinvolge immediatamente molteplici aspetti: il ruolo di tecnologia, big data e intelligenza artificiale (su cui si soffermano nel numero Francesca Bria, Francesca Rossi e Renzo Avesani), l’evoluzione della situazione internazionale (analizzata da Paolo Magri e da Vittorio Emanuele Parsi), il cambiamento delle città, dell’abitare e del rapporto tra centri e periferie (Stefano Boeri, e Matteo Bolocan), le trasformazioni dei sistemi politici (Nadia Urbinati), la riorganizzazione delle filiere produttive e industriali (Giuseppe Berta, Alessandro Aresu, Giuseppe Surdi, Vincenzo Colla e Patrizio Bianchi), il ruolo dello Stato (approfondito nell’intervista al Ministro Provenzano), delle imprese, della cooperazione e del terzo settore (Maria Luisa Parmigiani, Paolo Venturi e Flaviano Zandonai), nonché dei diversi livelli di governo (Gilles Gressani), la dimensione europea (Brando Benifei), il ruolo dell’innovazione (Ivana Pais) e della finanza sostenibile (Francesco Bicciato), la questione ambientale (Rossella Muroni, Grammenos Mastrojeni, Stefano Ciafani), il problema delle aree interne (Franco Arminio, Antonio De Rossi, Filippo Tantillo, Daniela Luisi e Giovanni Carrosio), l’aumento dell’incidenza dea povertà (Chiara Saraceno e Matilde Callari Galli), il rapporto tra generazioni (Alessandro Rosina), l’evoluzione del welfare (Elena Granaglia, Andrea Ciarini) e delle fragilità della società (Giacomo Costa e Annamaria Fantauzzi).

È un elenco di temi che, da solo, basta a dare un’idea della multiformità del passaggio che stiamo vivendo. È un passaggio che ognuno di noi sta affrontando con fatica. La crisi in corso mette a nudo fragilità già presenti nella nostra società e accelera in maniera drammatica processi già in corso.

Come sottolinea Provenzano dell’intervista, insistere sull’equivalenza ingenua tra «crisi» e

«opportunità» suggerita dall’ideogramma cinese è stato un errore degli ultimi anni, non solo per il carico di sofferenza che passaggi epocali come questi portano inevitabilmente con sé. Se c’è un’opportunità nella situazione che stiamo vivendo, andrà faticosamente ricercata e costruita.

L’insegnamento forse più importante che possiamo trarre dalla situazione attuale è che non esistono automatismi né meccanismi che si autoregolano. Se pensiamo che la “normalità” precedente fosse il problema e se vogliamo che questa crisi abbia un esito virtuoso dobbiamo riuscire a mettere in campo un enorme sforzo di progettualità condivisa. Disegnando alleanze inedite e coinvolgendo soggetti diversi – istituzioni, società, lavoro, imprese, terzo settore, cooperazione – solo partendo dall’intelligenza collettiva e coniugando ricerca nella complessità e partecipazione possiamo pensare di ridare senso alla parola democrazia.

Non c’è soluzione senza conflitto, la storia

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dello sgombero di BiosLab

Ho frequentato per molto tempo gli spazi sociali occupati. Non lo dico per strizzare l’occhio agli attuali frequentatori, ma come dichiarazione di parte: un atto di onestà verso chi legge. Perché nelle prossime righe, per parlare di innovazione sociale e politiche pubbliche, userò la vicenda del

BiosLab, uno spazio occupato all’interno di uno stabile di proprietà dell’INPS, in un quartiere storico della città di Padova, sgomberato lo scorso 18 agosto.

Per quanto pessima, mi sembra l’occasione giusta per fare alcune riflessioni sulla distanza che ancora divide le pratiche di innovazione sociale da un loro possibile dispiegamento diffuso. È una sorta di alert, un bagno di realtà che ci dice quanto il passaggio dal ghetto della sperimentazione a un più ampio ecosistema pubblico orientato all’innovazione, sia un percorso ancora faticoso e problematico.

Per affrontare il discorso mi sembra importante ricostruire una breve genealogia degli spazi sociali occupati e autogestiti, di cui fa parte anche BiosLab. Perché fuori da ogni visione stereotipata e ideologica, il patrimonio che consegnano alla letteratura e alla ricerca sull’innovazione sociale è tutt’altro che secondario.

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Restituirne la complessità non è certo un’operazione semplice. Non è un caso che Claudio Calia, nel suo piccolo atlante storico geografico a fumetti, scelga di raccontare i centri sociali a partire dalle sue traiettorie personali. L’immagine che ne esce è interpretabile, caotica, densa di connessioni e legami con le grandi trasformazioni del nostro tempo.

Un universo frastagliato e continuamente in divenire, difficile da codificare se non a partire dall’esperienza soggettiva. Per trovare le prime tracce di occupazioni in Italia bisogna andare a ritroso fino alle pratiche di riappropriazione collettiva degli anni settanta.

A quelle temporanee di scuole e fabbriche che hanno accompagnato le lotte studentesche e operaie, sono seguite le prime sporadiche occupazioni di stabili abbandonati, soprattutto in risposta a bisogni abitativi. È tra la fine degli anni ottanta e la prima metà degli anni novanta che gli spazi occupati hanno iniziato a diversificare le loro attività. È in quel periodo che i centri sociali sono diventati una realtà diffusa e consolidata in tutta la penisola grazie alla sperimentazione di nuove forme di

autogestione e auto-produzione di pratiche collettive. A questa fase rigogliosa degli spazi occupati va dato il merito di aver restituito a un’intera generazione la gioia dell’impegno politico, confinato per molto tempo ai margini del discorso pubblico dalla scia repressiva che aveva segnato gli anni

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precedenti.

Questa riscoperta di senso collettivo, coagulatasi intorno ai centri sociali e nutrita anche dal periodo fervido e frizzante dei movimenti studenteschi della “pantera”, si è caratterizzata per l’indiscutibile

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centralità della produzione culturale indipendente – non solo musicale – e per la nascita di nuovi soggetti politici, più eterogenei e spuri di quelli conosciuti in passato.

Con l’avvicinarsi del nuovo millennio e l’esplosione dei movimenti no-global, l’arcipelago degli spazi sociali occupati ha iniziato invece a popolarsi di esperienze che, nel rivitalizzare aree in disuso, tanto metropolitane quanto rurali, hanno dichiarato più esplicitamente la loro vocazione iperlocale,

connessa alle grandi questioni globali, ma radicata profondamente nella dimensione territoriale (il quartiere, gli abitanti, le relazioni di prossimità).

Il panorama si è quindi arricchito di una varietà di luoghi polifonici, dall’identità fluida, attraversati da soggettività dall’appartenenza multipla e dinamica.

Questa generazione di spazi sociali si è posta diversamente il problema della sostenibilità,

diversificando le sue forme: non solo eventi, ma gestione di progetti, accesso a contributi, avvio di esperienza imprenditoriali. Alla produzione culturale e di pensiero, quindi, si sono affiancati la co- gestione di servizi di welfare e una mescolanza eterogena di attività.

Gli spazi sociali, accessibili ormai durante tutto l’arco della giornata, sono diventati così atelier e librerie, co-working e ciclo-officine, mense e palestre e sono stati animati da sportelli di segretariato sociale, da corsi di lingua, da laboratori di ricerca, da sperimentazioni tecnologiche e da mercati di prodotti locali, fino a diventare incubatori di vere e proprie esperienze di imprenditoria sociale.

In tutta onestà va detto che, complici la scarsità di risorse, un’agenda talvolta eccessivamente precaria e un rapporto problematico tra dimensione identitaria e porosità relazionale, non tutte queste realtà hanno saputo uscire da una retorica meramente evocativa e tradurre le loro

suggestioni in progetti veri e propri. Ma è interessante rilevare che queste esperienze, a onor del vero innescate anche in contesti non occupati (spazi in affitto, assegnazioni a canone concordato, concessioni gratuite, etc.), proprio perché attraversate da un’eccezionale densità relazionale e da una vitalità vissuta sul crinale di un bene comune costruito in maniera aperta e problematica, presentano alcune caratteristiche che possiamo riconoscere in uno dei dispositivi di maggior interesse nel dibattito attuale su innovazione sociale e dimensione di luogo: i cosiddetti community hub.

Mi pare quindi significativo sottolineare che lo sgombero del BiosLab – e questo è un primo aspetto rilevante se parliamo di contesto – è avvenuto proprio in un momento in cui cresce

esponenzialmente l’interesse di fondazioni, agenzie e istituzioni di diverso livello verso i community hub, oggetto di bandi, erogazioni e programmi di capacity building. Si tratta di spazi la cui natura è stata efficacemente trattata anche dalle pagine di questo sito.

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Dei community hub non esiste tuttavia una definizione univoca e neppure un unico modello, ma certamente se ne possono individuare alcuni tratti distintivi. Elisabetta Nava, nel documento

Community hub, i luoghi puri impazziscono, li sintetizza come spazi ibridi, aperti e informali, capaci di accogliere impulsi differenti e di produrre valore sociale. Luoghi che assumono la rigenerazione urbana come occasione costitutiva del loro percorso, spazi di ricerca e azione verso nuove forme di socialità, che nascono da terreni fertili, da forti crisi o da istanze impellenti, grazie a una

programmazione urbana innovativa.

L’interesse che suscitano, quindi, va ben oltre la connessione tra lo spazio che occupano e il singolo intervento per cui si caratterizzano, ma ha a che fare con la loro capacità connettiva. Abitano la dimensione di luogo senza limitarla al perimetro dello spazio fisico. Agiscono sempre in relazione ad altri, con cui ridefiniscono continuamente territorio e missione intorno alla soluzione di problemi e a traiettorie condivise, più che a categorie frammentate di bisogni. Questo loro carattere fluido ma denso di relazione, non può che renderli riottosi e per questo, luoghi privilegiati in cui sperimentare

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lo sconfinamento dei servizi di welfare, per mettere in gioco una nuova alleanza tra capacità tecnica e conoscenza diffusa, in cui gli “utenti” sono parte della soluzione, non il problema. Non è difficile, quindi, spiegare l’interesse che suscitano. I loro margini aperti e questa loro possibilità di essere nuovi centri di gravità per la produzione di servizi condivisi, li candidano al ruolo di vere e proprie infrastrutture di welfare e inclusione, fondate sul valore delle relazioni sociali.

Anche per questa attenzione crescente verso gli spazi di aggregazione e cooperazione orizzontale, lo sgombero del BiosLab, connesso a doppio filo con quartiere e università, impegnato nella

costruzione di un archivio storico, in uno sportello per richiedenti asilo e rifugiati, sede di dibattiti e seminari sul rapporto tra diritto e società, interroga inevitabilmente il contesto e la sua capacità di abilitare e non disciplinare le pratiche innovative. Certo, sarebbe un errore ricondurre i community hub unicamente agli spazi sociali occupati, così come sarebbe riduttivo fare il contrario, anche se talvolta gli uni e gli altri si sovrappongono. Quello che mi preme sottolineare, invece, è la

collocazione “fuori dal tempo” di questo sgombero, avvenuto mentre, nel discorso pubblico, un numero sempre maggiore di interlocutori riconosce la centralità delle “pratiche dal basso” per la trasformazione sostenibile, etica e inclusiva del nostro modo di vivere.

Questa considerazione ci porta a un secondo aspetto significativo su cui è bene soffermarsi. C’è infatti un’idea di partecipazione rappresentata come morbida e armoniosa, che rischia di creare un vero e proprio equivoco. Al contrario, quello tra pratiche sociali e dinamiche istituzionali si presenta più concretamente come un rapporto sempre carico di conflitti più o meno latenti, di cui

l’occupazione di uno spazio è solo una delle forme più esplicite. Per questo, il modo di affrontarlo dice molto sulla capacità di rapportarsi all’innovazione sociale. Non sarà passato inosservato come uno dei cliché più utilizzati per liquidare velocemente il problema sia quello che antepone il

ritornello della legalità a qualsiasi discussione sull’impatto sociale prodotto. Questa modalità nasconde in realtà una certa riluttanza ad affrontare il nodo del conflitto, riconoscendo dignità e autonomia alle pratiche sociali.

Queste, prima ancora di essere esercitate, dovrebbero invece essere ricondotte a procedure amministrative immutabili, in quanto già intrinsecamente democratiche e per questo,

paradossalmente, non discutibili. Secondo questa logica, la possibilità di accedere a un luogo pubblico per dare concretezza a un progetto di interesse comune dovrebbe realizzarsi solo a posteriori, solo dopo aver attraversato il vaglio di un iter che ne verifica l’idoneità e l’opportunità (ammesso che ne sia previso uno). Come se la competenza a decidere sul bene della comunità fosse una capacità tecnica disgiunta dalla comunità stessa e vi potessero essere progetti trasformativi (ancorché itineranti) disconnessi dalla dimensione del luogo in cui si propongono di agire.

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Da questo punto di vista, il fatto che il processo avviato dagli attivisti di BiosLab per regolarizzare la situazione dello stabile si sia arenato tacitamente, nonostante le disponibilità dichiarate da tutte le parti in causa, sembra una conferma più che un incidente di percorso (anche se la mappa su questo versante è piuttosto ricca di esempi).

In ogni caso, fuori da ogni logica autarchica o autocelebrativa, è bene tener presente che ogni pratica di innovazione sociale, per essere tale, deve misurarsi anche con la sua capacità di

trasformare le regole del gioco, intaccando i processi amministrativi. Una volta sgombrato il campo da ogni mistificazione e dall’idea che si voglia affermare una sorta di primato degli spazi occupati su ogni forma di innovazione – che si innesca invece ovunque si riesca a guardare i problemi da

prospettive diverse – è possibile, al contrario, identificare nel rapporto con gli spazi sociali occupati un indicatore piuttosto interessante per chiunque voglia confrontarsi con le pratiche sociali

innovative.

Ecco perché la sfida più spigolosa, a mio avviso, chiama in causa proprio chi guarda con favore i processi di decentramento del potere verso i cittadini. Perché tanto quanto un’occupazione, anche la vitalità di un community hub, così come un processo di co-progettazione o un percorso per

l’adozione di un regolamento per la gestione dei beni comuni (l’amministrazione di Padova ne ha avviato uno) sono campi di interazione problematici e conflittuali. A fare la differenza è il modo di affrontarli.

Perché un cambiamento non diventi solo un’occasione buona per riprodurre l’esistente e sappia farsi istituto comune, patrimonio pubblico e condiviso, serve la capacità di riconoscere che i conflitti non sono ingombri da evitare. La partecipazione e le pratiche di co-progettazione delle città non

producono sintesi unitarie, ma moltiplicano le possibilità. Non appiattiscono le differenze, le fanno emergere. Non sono quindi strumentazioni buone per depotenziare i conflitti, ma anzi, modi per

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indagare gli interstizi in cui si annidano possibilità rivelatrici. Con questa prospettiva, i conflitti non vanno semplicemente ascoltati, ma vanno attraversati e portati a galla, perché sono proprio loro ad essere produttivi di nuove possibili soluzioni.

Ecco perché la qualità dei percorsi di innovazione e il loro impatto, non sono determinati da goffe liturgie partecipative o da improbabili simulacri della rappresentanza (che quando parliamo di spazi finiscono per tradursi in lottizzazioni riduttive invece che in proliferazioni moltiplicatrici). Ma

dipendono da quanto è autentica la relazione che coinvolge gli attori in campo. Sono direttamente proporzionali alla capacità di assumersi i rischi di chi parte senza conoscere già la meta ed è disponibile ad affrontare un percorso pieno di intoppi, decidendo insieme, lungo la strada, la

destinazione finale. Perché “per innovare, per essere creativi, bisogna stabilire condizioni di fiducia reciproca”. Ed è su questo terreno, pragmatico e ruvido, ma anche entusiasmante, che si misura la maturità delle politiche pubbliche.

Un ultimo punto di interesse mi porta a guardare il contesto cercando di ampliare lo sguardo.

Troppo spesso, infatti, per misurare il valore di un’iniziativa, di un progetto, di un servizio (o di uno spazio occupato), si omette ciò che gli sta intorno, ma che inevitabilmente interagisce e ne

condiziona impatto e destino. Non conosco l’esperienza del BiosLab tanto da saper mappare con precisione la quantità e la qualità delle sue connessioni.

Mi preme invece identificare un problema. Perché, al di là della questione specifica, ciò che sta intorno, il contesto generale di cui parla questa vicenda, è quello in cui qualsiasi sforzo di

un’amministrazione locale per la ricognizione di spazi da mettere a disposizione della cittadinanza (è il caso di Padova), non può che impallidire di fronte alla dimensione del patrimonio oggetto di

speculazioni, presente in misura maggiore nei gradi poli metropolitani, ma che interessa anche le aree interne. Quello dell’INPS, proprietario dei locali sgomberati e già messi all’asta dopo poche ore,

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si attesta su circa 30.000 unità immobiliari “da reddito”, al netto di due grandi operazioni di cartolarizzazione condotte negli ultimi vent’anni. Ma è solo una parte minima di un più ampio patrimonio immobiliare inutilizzato e messo a rendita da parte di fondazioni, banche e aziende partecipate, che si distende lungo tutta la penisola.

Non si tratta per niente di una questione irrilevante o retorica. Perché l’emergenza sanitaria che sta segnando il nostro tempo, sta anche ridefinendo un nuovo valore e una nuova dimensione dello spazio, diventato prezioso, distanziato, variabile e tutto da reinventare intorno a parametri fino a prima sconosciuti. E’ un’architettura che va liberata urgentemente, per essere riconvertita alla soluzione di problemi nuovi, intorno a prospettive (sanitarie e non) del tutto inedite.

La formazione, l’abitare, la ripresa economica, l’ambiente, hanno infatti bisogno di questo spazio sottratto per poter innescare il potenziale innovativo che serve a trasformarli. Pensiamo ad esempio all’impatto che la disponibilità di questo patrimonio potrebbe avere sul piano dell’abitare e

dell’attivazione di nuovi programmi di social housing. Anche per questo lo sgombero di Padova racconta molto di più della vicenda di uno spazio occupato. Perché riaccentra un problema generale che riguarda tanto le amministrazioni locali quanto gli “innovatori”: non solo quello di dare risposte a domande inevase, ma quello di colmare la distanza che divide le pratiche di innovazione sociale da un ecosistema che sappia favorirle, che sappia farne cultura condivisa.

Non è certo un percorso privo di ostacoli. Ma, in fondo, parafrasando, quando parliamo di un possibile contesto abilitante dovremmo sapere che l’innovazione “non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza”. Dobbiamo invece imparare ad ampliare lo sguardo per uscire dal perimetro di ciò che è concesso e

scommettere sul conflitto che genera, anche oltre l’iter già scritto.

Come si fa cultura dopo (e durante) l’emergenza? Una tavola rotonda a Con.divisione Residenza 2020

Con.divisione è una residenza artistica per autori provenienti da diverse aree dell’Italia e dell’estero nata nel 2012 a Mola di Bari ed inaugura la sua edizione 2020 proprio questa settimana con una tavola rotonda al Castello Angioino di Mola di Bari. Insieme a 6 organizzazioni culturali e con la moderazione di Federico Nejrotti, responsabile della comunicazione di cheFare, si discuterà il significato di produzione culturale in un momento post-emergenza (apparente) come quello che stiamo vivendo in questi mesi. L’evento si terrà giovedì 3 settembre a partire dalle 20.30 al Castello Angioino di Mola di Bari, per prenotare il proprio posto basta seguire le indicazioni fornite dagli

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organizzatori.

Dall’esperienza del trauma collettivo fino all’esigenza di ridisegnare non soltanto le modalità della progettazione culturale, ma anche il senso della stessa, la discussione vuole “prendere il polso” di un gruppo di importanti protagonisti della cultura contemporanea: Anomalie Urbane in Transito, associazione attiva dal 2012 sul territorio di Conversano per promuovere il protagonismo giovanile locale e la riattivazione del tessuto sociale; Bari International Gender Film Festival, un festival che collega cinema, musica, performance, intrattenimento culturale e stimola la riflessione sulle tematiche di genere; Eterotopia, un gruppo di ricerca e pratica territoriale nato nel 2016 da un gruppo eterogeneo di architette e architetti italiani; Fòcare, un progetto di residenza artistica interdisciplinare che interagisce con le comunità delle aree interne del Cilento; McZee, associazione culturale con sede a Macerata che promuove arte e cultura attraverso la creatività emergente, la ricerca storico-artistica e la realizzazione di eventi di mediazione e didattica del patrimonio; e La Scuola Open Source, società cooperativa ed ecsistema solidale di ricerca e immgainazione sociale, culturale e tecnologica.

Scopri l’evento su Facebook.

La storia di ‘Riusiamo l’Italia’ racconta la resilienza dei luoghi rigenerati

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Rivista Impresa Sociale.

“Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start up culturali e sociali” fu nel 2014 un libro, un “road book”

che raccontava una ricerca sulle buone pratiche di riuso creativo degli spazi. Questo tipo di pratiche può rappresentare un elemento per il rilancio del nostro paese in quanto l’Italia è “piena di spazi vuoti” e riuscire a riusarne anche solo una minima parte, facendovi nascere iniziative culturali e sociali, può diventare una leva a basso costo per favorire l’occupazione e in particolare l’occupabilità giovanile. Per questo dall’esperienza nata con il libro è nata nel 2019 la fondazione Riusiamo l’Italia che si propone appunto di promuovere la “cultura e dell’approccio alla rigenerazione urbana ed al riuso di spazi dismessi, ai fini di creare nuova occupabilità in particolare giovanile, privilegiando interventi nelle periferie e nelle aree interne del Paese.” La fondazione recentemente ha anche messo online una pagina web per favorire l’incrocio tra l’offerta di spazi e la “mappa dei desideri” di soggetti interessati a intraprendere nuove attività e in cerca di uno spazio per realizzarle.

Giovanni Campagnoli, presidente della Fondazione ha inoltre completato uno studio sulla resilienza dei luoghi rigenerati, analizzando il campione di 120 spazi mappati da Riusiamo l’Italia nel 2014, andando a verificare cosa è successo sei anni dopo. L’indice di mortalità è basso (22%), nettamente

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più basso del 55% che caratterizza le imprese ed è dovuto principalmente a fattori interni ai gruppi di lavoro – la fine del ciclo motivazionale che aveva ispirato l’iniziativa – che la ricerca analizza in modo approfondito.

Per sostenere gli spazi culturali dobbiamo riguardare i luoghi a cui appartengono: il caso del museo MULA+ di Latronico

Quando il MULA+ Museo di Latronico non era ancora il MULA+ (sarebbero trascorsi molti decenni prima che ciò avvenisse), ed eravamo agli inizi degli anni ‘30 del Novecento, nella frazione di

Latronico chiamata Calda per la temperatura delle sue acque minerali, d’estate accadeva qualcosa di speciale. Ma neppure tanto speciale, a pensarci bene, perché quel posto, da sempre o da tanto, aveva svolto un ruolo centrale nella comunicazione e negli scambi tra Jonio e Tirreno.

Latronico e la Valle del Sinni già in tempi remoti fungevano da tramite, da cerniera tra diverse culture. A testimoniarlo le ceramiche ritrovate nelle grotte di Calda, le cui lavorazioni mostravano chiaramente i segni dello scambio e della reciproca influenza.

Nel secolo scorso, quando il primo stabilimento termale cominciò a funzionare e a richiamare gente, specialmente dai paesi limitrofi per curare varie malattie, Calda si affermò sempre più come luogo di incontro, socializzazione, scambio. I “Bagni”, come venivano chiamati dai locali, erano spazi interni ed esterni dove si faceva esperienza di accoglienza, di incontro con la diversità (anche solo una diversità di paesi di provenienza, ma stiamo parlando di un periodo in cui le minime distanze

significavano ancora qualcosa). Nello stabilimento termale, e intorno a esso, si costruivano momenti di comunità.

Non stiamo raccontando qualcosa di unico o raro ma ci piace pensare, e questo pensiero si fonda su basi abbastanza solide, che Calda abbia sempre praticato la dimensione della socialità e

dell’accoglienza e che, chi è arrivato, abbia trovato qualcosa che appartiene profondamente al genere umano.

Pensiamo a questa “sopravvivenza” del passato come a un’eredità che l’associazione ArtePollino ha voluto raccogliere e rileggere in chiave contemporanea, intorno alla quale ha voluto costruire un modo di stare insieme che ha chiamato “Bellezza mia!”, realizzato grazie al sostegno di politiche pubbliche mirate.

La funzione che quel luogo ha avuto in passato nel territorio è stata ripresa e reinterpretata con lo

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stesso obiettivo di favorire e incrementare l’incontro tra persone, storie, saperi, ambienti, a ogni livello. Gli stessi organizzatori, per realizzare il programma culturale, hanno dovuto interagire con persone, luoghi, esperienze, creando una fitta rete di relazioni.

Il programma “Bellezza mia!”, pensato per ri-generare e ri-animare quest’area marginale di una regione a sua volta marginale, come la Basilicata, aveva e ha come obiettivo l’arricchimento culturale e umano non solo di chi, più o meno intenzionalmente, si trova a passare da queste parti, ma soprattutto di chi vive qui. E al contempo far sì che chi vi risiede possa incontrare chi è di passaggio.

Siamo abituati a pensare e programmare le attività culturali durante l’estate, quando nei nostri piccoli centri arrivano i “turisti” e riteniamo necessario fare bella mostra di noi stessi, mettendo in scena qualcosa che, invece, durante l’anno, accade sporadicamente o quasi mai.

ArtePollino ha voluto mettere al centro chi è rimasto, chi è tornato, chi vive qui dodici mesi all’anno, in particolar modo durante i duri e lunghi mesi invernali, senza per questo dimenticare i graditi visitatori. Per tutti è stato costruito un programma culturale capace di contenere linguaggi artistici differenti, teatro, musica, letteratura, arti visive, e di offrire momenti in cui potersi “raccogliere in maniera poetica”1F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori, p. 25, sperimentare in prima persona, momenti di dialogo, approfondimento e di conoscenza.

“Giardino degli dei”, Parco Nazionale del Pollino, è possibile ammirare il Pino Loricato

Per molte persone, questi momenti si sono caricati di un significato particolare, sono stati attesi di volta in volta, anche se in maniera diversa, e apprezzati. La partecipazione costante di persone provenienti da tanti paesi ne è stata la prova.

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Le aree interne sono luoghi che perdono popolazione, invecchiano, diventano povere, perdono servizi e occupati. Sono luoghi bui, come dice Lidia Decandia2 L. Decandia, C. Cannaos, L. Lutzoni, I territori marginali e la quarta rivoluzione urbana, Guerini e Associati, 2017, p. 167, di fronte ai quali dobbiamo sostare per vedere che qualcosa si muove e scintilla, qualcosa che può nutrire il nostro presente.

È difficile e faticoso fermarsi e riuscire a vedere questa scintilla, oggi più che mai, soprattutto se in un’area interna ci vivi e non ci vai in vacanza o per partecipare all’ennesimo convegno sulle periferie come relatore, come studioso o come pubblico. Ritrovarsi in piazza e contarsi, vedere ripetutamente attività lavorative chiudere dopo qualche anno, il numero dei bambini iscritti alla classe prima affievolirsi costantemente, avere l’impressione di essere sempre all’anno zero e che non ci sia continuità in quasi nessun settore, è scoraggiante. Il rischio demotivazione è sempre dietro l’angolo.

Ma, dopo anni, lo sguardo si è affinato. Abbiamo iniziato a “riguardare i luoghi” a sentire addosso l’obbligo che abbiamo verso di essi, ad averne cura. Questi luoghi, con la loro natura pervasiva, i tanti vuoti che li caratterizzano, specialmente per la bassissima densità abitativa, le poche nascite e per la nuova stagione di emigrazione, abbiamo imparato ad amarli. Ad amarli non a mitizzarli, quindi ad accettarne anche le ombre, le contraddizioni, i limiti, le ferite, i conflitti. Perché avere cura dei luoghi vuol dire anche “farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti

vorremmo tacere […], cura è saper fare i conti con il dolore”.

Non ci piace raccontare questa terra attraverso un’immagine fiabesca, banale, secondo la quale in questi paesi hai ancora la possibilità di avvicinarti a un mondo rurale, che richiama nostalgicamente un tempo che non esiste più, ma che forse non mai è esistito, dove tutto era bello. Non è così, non per noi.

Questo luogo non è il migliore del mondo ma è il luogo dove ancora si può scegliere di vivere, o di tornare, come è accaduto a otto persone, quasi tutte giovani, che abbiamo intervistato durante il laboratorio di storia/storie di vita e che ci hanno raccontato la loro esperienza. Persone attive, con un elevato titolo di studio, che in alcuni casi hanno avviato un’attività innovativa e, in altri, hanno proseguito nell’impresa di famiglia ma in una logica di cambiamento e innovazione.

Restanti, li chiamerebbe Vito Teti, o ritornanti direbbe qualcun altro. In queste persone abbiamo trovato quella “volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie.” Abbiamo trovato persone che non si sentono vittime e neppure eroi ma che semplicemente vivono laddove hanno scelto di farlo, per “riscoprire la bellezza della sosta, della lentezza, del silenzio, di un complesso e faticoso raccoglimento” sebbene restare sia anche “legato all’esperienza dell’essere sempre fuori luogo, proprio nel posto in cui si è nati e si vive.”

Oltre a viverla per quello che è, di questa terra ci piace raccontare la storia e, al contempo, osare immaginarne il futuro in un momento in cui questa operazione potrebbe sembrare azzardata e folle.

Ci abbiamo provato, ad esempio, insieme a una quarantina di persone, durante il Re-birth Forum, in collaborazione con Cittadellarte Fondazione Pistoletto.

In questo “altrove” marginale rispetto ai flussi economici e culturali, vissuto oramai dai residenti come luogo scartato dalla modernità, abbiamo provato a mettere a punto un congegno capace di ri- attivare il desiderio di incontro, di scambio, di contatto umano e condivisione di bellezza. Quel desiderio che pare si stia affievolendo, anche laddove i rapporti umani sarebbero favoriti dalla prossimità.

È stato probabilmente questo desiderio a spingere moltissime persone a partecipare ai laboratori, ai

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concerti, agli spettacoli, agli incontri con gli autori, ai workshop e convegni, al gruppo di lettura.

Al MULA+, in quello che negli ultimi tre anni, è diventato uno spazio polifunzionale, di

sperimentazione, di studio, di creazione artistica, abbiamo accolto, di volta in volta, un pubblico appassionato e curioso. E, contrariamente alle previsioni, abbiamo visto arrivare molte persone, moltissime tornare e stringerci le mani, ringraziandoci.

“La conferma che si può produrre lietezza anche con il lavoro culturale”.

Quella lietezza è anche nostra e siamo noi a dover ringraziare tutti per aver permesso che ciò accadesse: dagli enti che hanno sostenuto e condiviso il progetto al pubblico presente, dagli artisti, relatori, scrittori, fino agli instancabili e resistenti soci di ArtePollino.

In questo momento così particolare una domanda si impone. Ci stiamo interrogando sul futuro dei piccoli spazi culturali, come il nostro, nelle aree remote dell’Italia, dopo la fine dell’emergenza coronavirus. Lo scenario non è dei migliori e probabilmente questo virus agirà a lungo sulle famiglie e sulle loro future priorità. Quante di loro avranno la possibilità di poter destinare parte del bilancio alla cultura, per partecipare a uno spettacolo, un concerto, una mostra?

E allora ci chiediamo: quali saranno, se ci saranno, le strategie e le priorità che il governo e le regioni metteranno in campo per sostenere gli spazi culturali, in particolare nelle aree interne? Ci sarà la capacità e la volontà di sostenere le “aree marginali” e quelle attività, che già normalmente vengono definite “accessorie” perché mettono al centro temi come l’arte e la cultura, in territori in cui sempre più spesso vengono a mancare i servizi di base?

L’auspicio è che nella condivisione si possa trovare la strada per superare anche questo ostacolo e ripartire con nuove energie e nuove economie, più sostenibili. Superata l’emergenza, sarà necessario salvaguardare la biodiversità culturale delle aree marginali e far sì che diventi modello per una nuova ripartenza.

In copertina: “Earth Cinema”, lavoro dell’artista Anish Kapoor

Partecipazione, mutualismo e collaborazione

nei nuovi centri culturali: come sta andando

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laGuida di cheFare

Da anni cheFare lavora al fianco delle organizzazioni della cultura dal basso, degli enti di ricerca, dei produttori culturali e dei policy makers per tracciare nuovi percorsi di trasformazione culturale.

Ed è per questo che abbiamo realizzato laGuida, il Festival Itinerante dei nuovi centri culturali:

perché i nuovi centri culturali sono gli spazi del possibile, i luoghi che connettono ed attivano le energie di trasformazione dei territori, costruendo ponti tra la memoria di quello che è stato, le multiforme del presente e le infinite possibilità del futuro.

Dal 22 giugno all’1 luglio si è svolto ilCamp della prima tappa de laGuida. Ogni tappa de laGuida è pensata per ruotare in modo flessibile attorno a tre momenti: ilCamp (un momento di formazione seminariale per almeno 50 operatori dei nuovi centri culturali locali, tra conferenze, laboratori e tavole rotonde); laPiazza (il momento di networking tra comunità culturali, pubblici e stakeholder del territorio per creare nuovi canali di dialogo e supporto); ​laFesta (musica e festa per tutte e tutti, perché non si vive di solo pane). Ad ottobre 2020 si terranno laPiazza e laFesta. Incrociamo tutti le dita per farli dal vivo.

Perché avremmo voluto fare tutto in presenza, ma il Coronavirus non ce l’ha permesso.

Abbiamo quindi dovuto inventarci dei modi di far funzionare un festival a distanza, con tutte le sue indeterminazioni, i suoi momenti taciti, le sue articolazioni ibride. Per 10 giorni si sono alternati sugli schermi seminari, conferenze e tavoli di lavoro durante i quali abbiamo lavorato sul rapporto tra nuovi centri culturali e forme della Partecipazione.

Una scelta obbligata, ma anche un esperimento sulle potenzialità della collaborazione a distanza in un progetto complesso al quale hanno preso parte attiva i rappresentanti di 67 nuovi centri culturali della Liguria, del Piemonte e della Valle d’Aosta.

Ogni tappa de laGuida ha un tema, una parola chiave che possa servire da bussola – e, perché no, pretesto – per esplorare l’infinità complessità prismatica dei nuovi centri culturali. Il tema di questa prima tappa è stato, abbastanza naturalmente, Partecipazione.

Prima di tutto perché in Italia le migliaia di organizzazioni reti che si incontrano nei nuovi centri culturali lo fanno proprio portando avanti pratiche culturali collaborative basate sulla partecipazione e sull’attivismo. E poi perché in questa prima, terribile, metà del 2020 i nuovi centri culturali di tutta Italia sono stato uno dei centri nevralgici nei quali si sono organizzate le risposte del volontariato e del civismo di base, tra brigate volontarie e organizzazioni di mutuo soccorso.

I tre relatori dei momenti a porte aperte hanno approfondito in modo verticale aspetti diversi e complementari della partecipazione, per un pubblico complessivo di oltre 600 spettatori on line.

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Filippo Tantillo ha tratto dalla sua esperienza più che ventennale le sue “Lezioni sulla

Partecipazione dalle Aree Interne”. Uno sguardo pragmatico sulla passione per il cambiamento che anima le reti sui territori, sul come costruire obiettivi condivisi e identificare le priorità, su quali siano i percorsi praticabili perché la partecipazione possa trasformarsi in coinvolgimento strategico dei cittadini nelle scelte. E su quali politiche vale la pena impegnarsi.

Tatiana Bazzichelli ha passato in rassegna le molte declinazioni del concetto e della pratica di Partecipazione nel suo percorso di ricerca e di attivismo, dal networking come forma d’arte nell’hacktivismo al lavoro di rappresentanza degli spazi ibridi con il Comune di Berlino, passando per il lavoro d’avanguardia del Disruption Research Lab all’intersezione tra politiche, tecnologia e società.

Stefano Maffei ha esplorato il tema della partecipazione con uno sguardo trasversale tra design dei servizi e design for policy. Una visione “a volo d’uccello” per provare, oltre le retoriche, a comprendere come mettere gli strumenti al servizio delle necessità.

Ma il grosso delle oltre 15 ore de ilCamp si sono svolte a porte chiuse, tra formazioni e laboratori.

Una serie di interventi di formazione a cura di cheFare (con Matteo Brambilla, Giacomo Giossi, Marilù Manta e Federica Vittori) hanno guardato agli aspetti pratici e teorici di alcuni dei principali problemi che caratterizzano il rapporto tra partecipazione e nuovi centri culturali.

Come – ad esempio – quali sono i molti modi costruire partecipazione, e quali sono i costi – espliciti e nascosti – che si portano dietro. O quali sono gli equilibri possibili tra relazioni e conflitto, e come si

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può situare il lavoratore culturale in questa prospettiva e quale senso possono avere da questo punto di vista le comunità che li attraversano. O – ancora – quali pratiche sono state messe in atto durante il lockdown dai nuovi centri culturali italiani per rispondere con la partecipazione attiva nel corso della più grande crisi della storia recente.

Durante i 7 tavoli a porte chiuse abbiamo riflettuto e discusso sul senso e le dinamiche delle pratiche partecipative dei nuovi centri culturali. Per alcuni, la partecipazione è un elemento costitutivo, che si situa alla base stessa della propria esistenza; per altri è invece uno strumento, una “tecnica”

impiegata per raggiungere altri obiettivi.

In alcuni casi è una necessità, l’unico modo concepibile per costruire percorsi economicamente e socialmente sostenibili grazie al sostegno di chi li supporta. Per altri è invece un desiderio, qualcosa a cui tendere, una pulsione che li proietta verso il futuro.

In alcuni casi è soprattutto una dinamica interna che riguarda i soci, i collaboratori e gli avventori.

In altri è invece un modo per relazionarsi con l’esterno, con altri spazi e organizzazioni, in Italia e all’estero.

Per tutti, è sempre e comunque un orizzonte sociale, culturale e civile.

Certo, non basta invocare la Partecipazione come una parola magica perché tutto si risolva. È chiaro a tutti che i tempi dell’ottimismo forzato sono finiti e che solo un‘analisi impietosa delle criticità potrà aiutare a fare dei passi in avanti.

E la lista delle difficoltà emerse nei tavoli è decisamente puntuale.

Innanzitutto, nonostante la grande attenzione dedicata nell’ultimo decennio ai processi di audience developement, molti nuovi centri culturali faticano a trovare risorse e strumenti per coinvolgere nuovi pubblici. Questo sia perché le competenze sono distribuite in mondo molto più disomogeneo di quanto non tendano a pensare gli addetti ai lavori, sia perché molti nuovi centri culturali hanno economie puramente di sussistenza e senza affidarsi a dinamiche collettive non possono

semplicemente permettersi di pensarci.

In secondo luogo, soprattutto quando attorno a un nuovo centro culturale si confrontano generazioni diverse, le trasformazioni della governance interna possono essere complicate: basti pensare alle situazioni associative nate nel Secondo Dopoguerra, oggi ancora attivissime ma che nell’arco di 60 o 70 anni hanno visto avvicendarsi decine di gruppi dirigenti diversi.

Su un altro piano del discorso, come accade in molti altri settori legati alla cultura ed al sociale, c’è una diffusa difficoltà nel comunicare il valore profondo e di sistema degli spazi agli interlocutori locali: troppo spesso riescono a farsi percepire solamente come luoghi associativi o fornitori di servizi specifici, mentre il loro valore va ben oltre. Questa incomunicabilità rischia di innescare meccanismi di disaffezione nei confronti delle amministrazioni, dei territori e di altri potenziali alleati.

Ed è in questo senso, infatti, che su molti territori rischiano di innescarsi dinamiche di eccessiva competizione per risorse locali percepite come sempre troppo scarse, soprattutto dove le distinzioni tra profit e non-profit non sono sufficientemente chiare: se un nuovo centro culturale viene pensato come un puro luogo di consumo (di leisure, di cibo, di bevande, di beni o servizi) allora rischia di diventare solo un “problema” che compete in modo “sleale” con quelle aziende che sul territorio abitano gli stessi mercati.

Un ulteriore elemento di criticità è costituito da quello che è noto, nell’ambito degli studi sul terzo

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settore, come il “ciclo di affamamento”: una dinamica per la quale le erogazioni pubbliche (o

filantropiche) vengono eccessivamente vincolate alla realizzazioni di nuovi progetti e non, invece, al consolidamento di struttura. Quello che è emerso chiaramente dai tavoli è che non si tratta solo di un problema del terzo settore sociale; al contrario, riguarda anche i mondo della cultura che attraversano i nuovi centri culturali: quando la logica di progetto spinge all’iper-produzione, si vive con difficoltà il consolidamento delle produzioni culturali , di conseguenza, si fatica a costruire proposte pluriennali orientate alla sostenibilità di lungo periodo.

Un’ultima questione delicata, infine, riguarda la natura stessa delle dinamiche partecipative. Dai tavoli è emerso un bisogno estremo di imparare a imparare a modulare la richiesta di tempo ai partecipanti ed evitarne inutilmente l’iper-responsabilizzazione: la partecipazione costa molto, moltissimo, e se non si affronta consapevolmente rischia di produrre delusioni e riprodurre disuguaglianze. È una questione ben nota in molti ambiti, dalla progettazione partecipata all’arte relazionale, ed urbanisti e sociologi si sono trovati a doverla a affrontare moltissime volte negli ultimi decenni. Guardando alle pratiche dei nuovi centri culturali, però, assume dimensioni completamente nuove.

Eppure, le potenzialità che emergono dall’incontro tra nuovi centri culturali, forme di Partecipazione e reti sono enormi e la forza dell’impatto che hanno sui territori in cui operano è ancora tutta da indagare.

Uno dei punti di forza sui quali possono contare è sicuramente la costituzione di gruppi di mutuo aiuto, sia all’interno dei singoli luoghi che in un’ottica di filiera, più o meno lunga: l’unione fa la forza, magari è scontato, ma in un contesto globale nel quale la capacità di attivare competenze diverse e complementari in tempi brevi può fare la differenza (come nel caso delle risposte locali alla crisi sociale del Coronavirus) i risultati sono tutt’altro che scontati.

Così come non scontata è l’intuizione di costituire nuovi centri servizi per necessità specifiche, o ancora costruire nuove relazioni intersettoriali con le strutture già esistenti del terzo settore e della pubblica amministratore.

C’è un ampio margine, inoltre, per la costruzione di percorsi dedicati di formazione e capacitazione su molti temi: comunicazione e storytelling, progettazione, fundraising, community management, cultura collaborativa, aspetti giuridici e fiscali.

Alcuni partecipanti ai tavoli hanno anche iniziato a riflettere sulla possibilità di attivare misure ad- hoc e linee progettuali specifiche per la circuitazione di opere, iniziative e progetti in territori diversi, redistribuendo così il valore che viene prodotto localmente in un’ottica di sistema.

Più di tutto, però, è emersa chiarissima la necessità di costruire appuntamenti periodici di conoscenza e confronto con i policy makers a tutti i livelli, soprattutto negli anni difficili che verranno.

Ed è anche per questo che dopo la pausa estiva ricomincerà il percorso de laGuida. Ad ottobre realizzeremo laPiazza e laFesta, gli altri due momenti della prima tappa. Nel frattempo,

continueremo la pubblicazione di articoli, estratti selezionati, reportage e interviste sul sito di cheFare.

Ci prepariamo a quell’appuntamento portando in libreria, a fine agosto, BAGLIORE, il libro realizzato da cheFare con Il Saggiatore tramite 6 residenze per scrittrici e scrittori under 35 in altrettanti nuovi centri culturali, prodotto con il sostegno di MIBACT e SIAE. Un’occasione per raccontare questi mondi a nuovi pubblici, ben oltre le retoriche delle “cose da ragazzi”.

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Nel frattempo, continuiamo l’attività de laCall to Action, la mappatura nazionale dei nuovi centri culturali iniziata a febbraio, alla quale hanno partecipato finora oltre 680 organizzazioni, operatrici, operatori e pubblici della cultura.

E, ultima cosa ma non per importanza, stiamo lavorando per portare laGuida in tutta Italia, approfondendo in ogni tappa una tematica diversa e aiutando reti, organizzazioni e territori a connettersi.

Sono stati con noi:

Ricetto per l’Arte – Agorà della Val Susa (Cumalè), Lo Spazio di Mezzo (atelier mobile), a.titolo, Arci Piemonte, Arci Canaletto, Associazione Amici di Paganini, Arteco, ArteSera, Babelica, Bocciofila Vanchiglietta, Teatro Cabiria, Cafè Neruda, Cap10100, Casa Gavoglio, CCCTO – Ex Birrificio Metzger, Cascina Govean, Centro di Incontro Mascagni, Centro di Incontri Chiusa di Pesio, Centro Ricreativo Culturale Luceto, Circolo Barabini di Trasta, Cinema Vekkio, Circolo Combattenti e Reduci Montegrappa, Con-diviso, Centro del Protagonismo Giovanile di Torino, Cripta747,

ExMattatoio – Cittadella del Volontariato, Ex Ospedale Psichiatrico di Quarto, Iperspazio, L’Arteficio, La Claque – Teatro della Tosse, La Fortezza (E20), La Rocca – Fratellanza Contadini e Operai,

Magazzino sul Po, Mastronauto, NESXT, Nòva, Officina residenza teatrale per le nuove generazion, Officine CAOS, Officine Solimano, Palazzo del Tribunale (Baba Jaga), Pandan, Portmanteau, Print Club Torino, Rifugio Paraloup, Sintra Onlus, SOMS (Progetto Cantoregi), Spazio Bac, Spazio Ferramenta, Spazio Hydro, Spazio Kor, Tastè Bistrot, Teatro della Juta, Teatro Marchesa (Choròs), Terzo Paradiso (le Radici e le Ali), Teatro Laboratorio Creativo, viadellafucina16 Condominio-Museo, Villa Filanda, ZAC! Zone Attive di Cittadinanza, Zero Gravità (Villa Cernigliaro), Oratorio Finalpia.

Ci hanno accompagnati: Arci Italia, Ateatro, Fondazione Piemonte dal Vivo, L’Orgia, Labsus, Legambiente e progetto ECCO, Lo Stato dei Luoghi, NESXT, Riusiamo l’Italia, URBACT, Polo del

‘900, La Triennale di Milano, Dipartimento di Sociologia e Ricerca dell’Università degli studi di Milano – Bicocca, Università IUAV di Venezia e Master U-RISE Rigenerazione Urbana e Innovazione Sociale, Centro Internazionale di Studi Umanistici “Umberto Eco” – Scuola Superiore di Studi Umanistici (SSSUB) – Università di Bologna, Iperborea.

Con il supporto di Fondazione Compagnia di San Paolo ed il sostegno di Fondazione Unipolis.

Riabitare l’Italia oltre le sue fragilità: dai nuovi centri culturali alle politiche di Barca

Sono passati ormai quasi trent’anni da quando veniva prodotto e messo in onda – in quello che era il

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terzo canale Rai diretto allora da Angelo Gugliemi – Strada provinciale delle anime, il bellissimo documentario di Gianni Celati: un viaggio sul delta del Po con l’amico e fotografo Luigi Ghirri.

Celati e Ghirri sono stati tra i primi ad avvistare quella crisi territoriale che avrebbe portato poi sempre più l’Italia a perdere una propria identità o meglio ancora a rendersi incapace di

riconoscersi. La provincia veniva abbandonata prima ancora che dai suoi abitanti dall’immaginario, sempre più velata e ridotta ad un’idea conforme quasi mai reale, ma più spesso sminuente.

La provincia che era stata la nervatura dell’identità culturale del paese sia in letteratura che al cinema, veniva respinta ai margini del discorso proprio mentre le grandi città faticavano sempre più a tracciare una direzione, ad imporre una visione che invece si faceva sempre più autoreferenziale.

L’Italia si identificava con le grandi città o almeno questa era la retorica figlia in buona parte della televisione e dei grandi mezzi d’informazione allora all’ultimo sussulto del secolo prima di un crollo che prosegue ancora oggi. Nel frattempo il paese si svuotava e si lacerava sotto i colpi della politica che esaltava Milano contro Roma e di una generale classe dirigente sia politica che economica ridotta alla subalternità dalla propria evidente inadeguatezza.

La provincia diventava il luogo retorico della fabbrichetta e del bar di paese e nulla più. Non esisteva più la connessione virtuosa – pure evidente in un paese densamente popolato – fatta di scambi

continui tra grandi centri e piccoli centri. Piano piano il nulla e poi il vuoto prendeva il sopravvento soprattutto in quelle zone poi definite come aree interne incapaci di partecipare ad una logica produttiva e culturale che veniva a definire confini e abitudini senza alcuna considerazione del preesistente, anzi negandolo e quindi azzerandolo.

Oggi l’urgenza è sotto gli occhi di chiunque, buona parte del territorio è in stato di abbandono e le città sono incapaci di generare una visione se non quella falsamente risolutrice di improbabili città internazionali indipendenti e autonome dagli Stati. Se certamente in parte questa suggestione può risultare seducente all’atto pratico evidenzia nella migliore delle ipotesi tutta la sua ingenuità e una sostanziale incapacità di offrire reale cittadinanza ai suoi abitanti.

Molto si è fatto per restituire al territorio la sua forma a partire dal lavoro del gruppo guidato da Fabrizio Barca sulle aree interne che molte azioni virtuose ha negli anni generato direttamente e indirettamente sia sul fronte delle politiche nazionali sia nelle opportunità di studio e di innovazione sociale.

L’urgenza è sotto gli occhi di chiunque, buona parte del territorio è in stato di abbandono e le città sono incapaci di generare una visione

Una delle conseguenze di quelle azioni sono sicuramente i Nuovi Centri Culturali a cui cheFare ha dedicato laGuida e che saranno al centro di molti nostri interventi e azioni future. Luoghi in cui immaginare nuove possibili interlocuzioni tra le specificità del territorio e le esigenze lavorative e culturali insieme. Luoghi di innovazione che sono ad oggi l’avanguardia di un movimento di recupero e reinterpretazione culturale e sociale che sta dando a molti opportunità inedite anche solo fino a pochi anni fa e che offrirà sicuramente i suoi migliori frutti nei prossimi anni.

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Tuttavia ora l’urgenza – anche per sostenere questi movimenti e queste politiche – sta nella

possibilità non solo di recuperare i luoghi, ma anche riabitarli, o meglio di tornare a riabitare l’Italia attraverso una visione globale e al tempo stesso concreta del sistema paese.

“La crisi di egemonia è lo specchio di una più generale criticità del

modello di sviluppo lineare e progressivo di cui si era nutrito il Novecento.

Cresce la forbice delle disuguaglianze, che si presentano sempre di più come asimmetrie di opportunità, e sempre più si legano alle

disarticolazioni dei territori.”

Questo è uno degli elementi critici che apre il Manifesto per riabitare l’Italia a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli, un tentativo di proporre uno sguardo sull’intero paese oggi

attraversato da continue frammentazioni che riducono di molto le qualità e le specificità dei territori e che riassumono la loro crisi nel declino demografico che ogni anno sembra sempre più accelerare la sua china.

Il Manifesto per riabitare l’Italia prova così a raccogliere le esperienze positive degli ultimi anni e a rilanciare attraverso una sorta di cassetta degli attrezzi quanto è possibile organizzare e strutturare, ma anche come partecipare (parola guida insieme a riabitare) e incidere attraverso gli strumenti e gli spazi già a disposizione.

“L’obiettivo è la conquista di strumenti, modalità, politiche per mettere in rete le Italie fragili, facendole interagire tra di loro e con il più generale contesto del paese. Si tratta di effettuare una lettura intelligente che fornisca ai soggetti collettivi, allo Stato, al pubblico confronto gli

strumenti per valutare le opportunità del futuro e se possibile costruire una nuova visione. Si tratta di disegnare le mappe, di raccogliere i dati sul patrimonio esistente, sulle persone, sulle idee, sulle competenze e sulla forza aggregativa che possono diventare i presidi di un progetto di riconquista delle aree marginalizzate.”

Andare in sostanza oltre al retorica anche positiva della ricucitura per restituire una forma di

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movimento tra i territori che diventi essa stessa elemento coesivo, di rigenerazione quasi implicita e naturale. Non più solo riscoperta per l’appunto, ma riabitare i luoghi diventandone parte e quindi elemento di sviluppo. La fragilità italiana è data in buona parte dalla separazione delle visioni, delle competenze, da una specializzazione più settaria che per settori, che come già avvertiva Giancarlo De Carlo alla fine degli anni Sessanta annulla ogni spazio critico e quindi ogni possibilità di

confronto attivo e reale.

Il volume oltre ad alcuni brillanti saggi a commento del Manifesto tra cui quello di Nadia Urbinati sul rapporto tra vita locale e territorio e quello di Gabriele Pasqui che legge le difficoltà e i limiti di una postura che viene da politiche pubbliche ancora inadeguate ad offrire gli strumenti necessari per intervenire e modificare lo sguardo d’insieme. Un vero e proprio panorama delle possibilità capace di andare oltre allo sconforto e in grado di offrire spunti e indicazioni utili.

Un dizionario composto da parole chiave assegnate ognuna a diversi studiosi. Parole che partono con Abbandoni e arrivano fino a Terra: una modalità efficace e rapida per comprendere le ragioni di un cambiamento che non possiamo più a lungo tardare a compiere. Ne va della competitività del paese, questo lo sappiamo, ma ne va prima ancora della felicità e della possibilità dei suoi abitanti di partecipare e sentirsi pienamente attivi.

Tra le voci più efficaci sicuramente Confini di Fabrizio Barca e Cura di Giuseppe Costa, due voci che stanno vicine sia perché l’una necessita dell’altra e anche perché se non messe in connessione determinano come è evidente politiche incapaci di ogni visione comune, ovvero di Comunità, voce non a caso affidata a Filippo Tantillo. E quindi correndo poi verso Cooperazione (Giovanni Teneggi) e si arriva facilmente a Disuguaglianze (Rosanna Nisticò) e via andando fino a Cambiamento climatico (Giovanni Carrosio) e oltre ancora.

Si scopre così piano piano come questo dizionario si trasformi in una mappa sopra cui spostarsi grazie ai ponti che ogni voce produce verso l’altra. Nodi di una rete dentro la quale è impossibile fare a meno di una sola di queste voci. Un lavoro e una visione comune, un esempio e una modalità di lavoro culturale e sociale che incide all’atto pratico nella quotidianità e un tentativo al tempo stesso di proporre un avanzamento sociale che si prenda cura delle diversità e delle particolarità di un territorio che in caso contrario – e non solo in senso figurato – è destinato a franare e a svuotarsi sempre più.

Scrive infine Fabrizio Barca nel suo intervento:

“Sarà nella qualità di quelle visioni comuni di area che si manifesterà l’appropriatezza o meno dei confini che i territori proporranno: i confini dell’alleanza di più Comuni in un’area vasta, come è stato per i piccoli Comuni delle aree interne; i confini dell’alleanza fra due o più quartieri o di ex circoscrizioni (o anche di uno solo di essi), in una città media o

grande, se, come ci auguriamo, una simile politica fosse applicata alle aree urbane. Una volta che lo Stato e le Regioni avranno riconosciuto quei confini, sarà questa nuova area, emersa endogenamente dal confronto fra società e istituzioni – non decisa da tecnici o amministratori lontani – a elaborare una strategia, individuare i progetti per conseguirla ed essere dotata della tecnostruttura e dei fondi per farlo.”

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La Rivoluzione delle Seppie, una rivoluzione dell’immaginario e degli spazi a Belmonte Calabro

La Rivoluzione delle Seppie nasce all’interno della London Metropolitan University. Un gruppo di studenti italiani all’estero sente l’esigenza di tornare nel proprio paese di origine e provare a

contribuire a creare nuove forme di sviluppo locale.

Il tentativo è anche quello di sperimentare nuovi metodi educativi per un approccio più pratico e meno teorico rispetto a quelli classici della Accademia.

“La Rivoluzione delle Seppie” è mutuato da un testo di Vilèm Flusse “Vampyroteuthis Infernalis” e ideato durante le lezioni di Storia della Architettura curate da Joseph Kolmeir. Il testo descrive una tipologia di seppie chiamate “Seppie Vampiro” (Vampyroteuthis infernalis appunto), le quali vivono nel profondo dell’oceano, non vedono, ma hanno un senso tattile sviluppato e imparano toccando, facendo esperienza di quello che li circonda. Nello stesso modo, dunque, come Seppie si vuole imparare facendo, “sporcandosi le mani”, entrando, così, in diretto contatto con persone e contesti che ci interessano.

Così il gruppo di 13 studenti e 6 professori della London Metropolitan University arriva a Belmonte Calabro. Ospiti dell’Ex Convento, gestito da Paola Scialis e Stefano Cuzzocrea, anche loro artisti, operatori culturali e innovatori, che subito dimostrano disponibilità e supporto.

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Le attività della prima summer school vengono presentate al centro CAS di Amantea, nel quale al tempo vivevano oltre 400 migranti. Si aggrega un gruppo di persone con diversi background insieme agli studenti e ai giovani architetti provenienti da Londra.

L’intento è quello di creare un programma interdisciplinare unendo architettura con danza, musica, teatro, cucina e sartoria. I giovani calabresi rimasti sul territorio sono ben pochi: così si accoglie la disponibilità di un gruppo numeroso di ragazzi, provenienti dall’Africa e dalla Asia, che mostrano di avere competenze e voglia di fare.

Arrivati in Calabria quasi per gioco e ignari delle potenzialità del territorio che ci stava per ospitare ci siamo resi conto che ci stavamo incrociando con due fenomeni molto importanti: i flussi migratori provenienti da sud e da oriente del Mediterraneo e lo spopolamento dei piccoli paesi e delle aree interne locali.

Questo ha suscitato un grosso interesse nei docenti inglesi che dopo due mesi decidono di creare una classe di ricerca all’interno dell’università londinese per studiare i fenomeni attraverso lo sviluppo di progetti architettonici ideali pensati specificatamente per Belmonte Calabro.

A novembre 2016, il primo gruppo di studenti universitari arriva a Belmonte e inizia a studiare il centro storico del paese. Prende avvio il primo di una serie di appuntamenti diventati ormai annuali.

Il ritorno costante sia delle Seppie che dell’Università, ha iniziato a creare un rapporto di fiducia da parte della comunità e delle istituzioni locali.

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Così che, a novembre 2017, il comune di Belmonte Calabro firma un protocollo di intesa con la London Metropolitan University, finalizzato allo sviluppo di attività di studio e di ricerca per la rigenerazione urbana del borgo.

L’università inglese conferma l’interesse nel partecipare attivamente in loco con i propri studenti e staff che, per due volte all’anno, febbraio e novembre, tornano a Belmonte Calabro come scelta prevista dal calendario accademico.

Il Comune, da parte sua, mette a disposizione un immobile, dalla ristrutturazione incompiuta, la ex Casa delle Monache, dove, dal 2019 in poi, si svolgeranno grande parte delle iniziative e degli interventi previsti nei diversi eventi. Crossings, svoltosi nel luglio 2017 è stato il primo evento.

Quest’anno è giunto alla sua quarta edizione.

Si sperimentano, così, azioni innovative attraverso le quali si affrontano i vari aspetti del fenomeno dello spopolamento, attraverso la progettazione di strutture tese a valorizzare le differenze culturali e favorire le conversazioni e gli scambi tra diverse comunità culturali e generazionali.

Una rivoluzione dell’immaginario e degli spazi, che coinvolge diversi e imprevisti interlocutori. Tra i partners principali oltre alla London Metropolitan University e il Comune di Belmonte Calabro, anche il collettivo di architettura “Orizzontale”, la Università Mediterranea di Reggio Calabria e l’associazione culturale locale “Ex Convento”.

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