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MEMORIE DI UNA LETTRICE DI TESTAMENTI

(SECC. XIII-XV)*

DOI 10.19229/1828-230X/4052017

SOMMARIO: Il testamento, documento ma anche racconto, autobiografia, viene qui prima esami-nato in tutte le sue parti, ricorrendo ad esempi tratti dalla documentazione siciliana del XIII e XIV secolo, edita e inedita, per indicare la grande e originale varietà di dati che se ne può ricavare nel campo della storia sociale e religiosa, della cultura materiale e della storia delle mentalità; infine, considerando ogni singolo documento nel suo insieme, come racconto autobi-ografico, se ne sottolinea il particolare interesse per la storia intima di personaggi altrimenti ben noti e soprattutto delle donne, che hanno nel dettare le ultime volontà una delle poche occa-sioni di far percepire la loro voce.

PAROLE CHIAVE: Sicilia, secoli XIII e XIV, testamenti.

MEMOIRES OF A WILL'S READER

ABSTRACT: The testament, document, but also story, autobiography, is here first examined in all its parts, using examples from the 13th and 14th century Sicilian documentation published and unpublished to indicate the great and original varieties of data that can be derived from the field of social and religious history, material culture and from the history of mentality; Finally, considering each document as a whole, as an autobiographical narrative, it emphasizes the particular interest in the intimate history of otherwise well-known characters, and especially of women, who have in the dictate of the last wills one of the few chances to let their voices to be perceived.

KEYWORDS: Sicily, cent. XIII and XIV, wills.

* Abbreviazioni utilizzate: Aca = Archivo de la Corona de Aragon; Ahnt = Archivo Histórico Nacional di Toledo; Asp = Archivio di Stato di Palermo; Tcm = Tabulario della Commenda della Magione; Tsmma = Tabulario del monastero di S. Maria la Nuova detta la Martorana; Tsmb = Tabulario di Santa Maria del Bosco; Tsms = Tabulario di S. Martino delle Scale.

Ben fu detto, che l'uomo è l'animale della superbia. Ecco come egli vuol comandare anche dopo morte, anche per secoli e secoli: quando egli è sotterra. Ma verran sì, verranno le confusioni delle guerre e delle

pestilenze,verranno le dispense de' principi, le sottigliezze de i legali, e varie furberie de i possessori di questi beni, e diversi altri accidenti, e spezialmente le ordinarie morti, che annulleran le ridicolose disposizioni di chi vuole stendere il suo imperio, se potesse, fino al fine del mondo.

(Ludovico Antonio Muratori, Dei difetti della

giurisprudenza, cap. XVII )

In mezzo secolo di lavoro credo di avere letto, trascritto, pubblicato e studiato migliaia di documenti. In tutti ho trovato qualcosa di inte-ressante, un nome, una parola, una data, una particolarità grafica, a volte persino un errore; molti altri mi hanno incuriosita, hanno arric-chito il mio patrimonio di conoscenze ed esperienze, non solo storiche ma anche esistenziali ed umane, e alcuni mi hanno appassionato, aprendomi un contatto col passato quasi fisico. E non parlo solo del piacere che dà il trovarsi di fronte a una nuova scrittura, l’abituarsi ai nuovi vezzi e alle trappole del multiforme seme nero; piacere mol-tiplicato quando, in fondo ad un atto notarile, si dispiega il caleido-scopio delle sottoscrizioni. A prescindere dal contenuto dei documenti, trovarsi in mano un quaderno di atti del comune di Palermo significa poter seguire il percorso di una memoria storica col-lettiva quanto mai ambigua e vacillante, che si rispecchia in irregola-rità anche grafiche, lacune e cancellature; nel leggere una lettera ci si trova a dover decifrare allusioni e sottintesi rivolte ad uno specifico interlocutore, in un linguaggio che può anche sembrare cifrato; e in un’inchiesta può capitare di sentire affiorare la viva voce degli inter-rogati, l’atmosfera particolare di un preciso momento (una notte d’amore di Giacomo II d’Aragona, raccontata dalla sua occasionale partner, o l’assalto di pirati catalani a una nave pisana) o rari, auten-tici brandelli di lingua parlata.

Il tipo di documento che non dà solo una ricca e varia quantità di notizie ma avvicina anche il più possibile chi lo legge a chi lo ha scritto (o dettato), arrivando quasi a cancellare la barriera dei secoli, è però il testamento, che dà il piacere della lettura quasi quanto un’opera lette-raria; e per questo, servendomi di un’espressione di Robert Brentano, recentemente ripresa da Attilio Bartoli Langeli nell’introdurre un volume sui testamenti femminili, ho intitolato queste pagine Memorie

di una lettrice di testamenti. Ne ho letti tanti, di uomini e di donne, di

poveri e di ricchi, di nobili e di artigiani: ma sempre il piacere di leggerli, di avvicinarmi alla persona che in punto di morte dettava quelle parole,

a futura memoria, in un certo senso proprio per me, ha sovrastato l’in-teresse scientifico per il loro contenuto.

La mia storia di appassionata lettrice di testamenti comincia molto prima dell’inizio del mio lavoro di ricerca, e con la lettura di un testa-mento apocrifo, una creazione letteraria: il testatesta-mento di donna Teresa Uzeda che apre il romanzo I viceré di Federico De Roberto. Si tratta di un pezzo di grande letteratura, direi virtuosistico, per cui un personag-gio che all’inizio del romanzo è già morto diventa in pratica il perno di tutta la narrazione. Da questa lettura ho avuto la rivelazione di quella che è l’essenza profonda del testamento, che ambisce sempre, nella realtà quotidiana del passato, a consentire a chi sta per lasciare la vita di diventare ancora attore, se non addirittura protagonista, del futuro dei sopravvissuti. Il testamento, se da un lato è un documento, com-plesso e ricco di informazioni dirette e indirette, da un altro lato è un racconto, l’autobiografia di un uomo, il suo modo di presentarsi ai posteri, e in quanto tale mi pare sia pienamente da condividere il “salu-tare dubbio” insinuato a suo tempo da Armando Petrucci sulla sua reale utilità come fonte per lo studio della mentalità collettiva. Questa ambiguità richiede dunque particolare attenzione nel suo studio; a questo scopo, anni fa, in occasione di una seminario sui testamenti tenuto per il dottorato di ricerca in Storia e comparazione delle

istitu-zioni politiche e giuridiche europee diretto da Andrea Romano ho tentato

di mettere a punto una scheda volta a raccogliere tutte le informazioni fornite da ogni documento per facilitarne lo studio ed esaminarne i diversi aspetti storici ed umani.

La scheda da me proposta si divide in quattro sezioni: la prima prende in considerazione i dati fondamentali del documento, e cioè la sua collocazione archivistica, il nome e la posizione sociale del testa-tore, il nome e la qualifica professionale del notaio, del giudice cittadino e dei testimoni, il luogo e la data e le circostanze in cui viene dettato il testamento. La seconda esamina la famiglia del testatore: ascendenti, fratelli ed eventualmente nipoti, coniuge, figli maschi e femmine e rela-tivi nipoti e pronipoti. La terza esamina invece il patrimonio feudale, le proprietà urbane ed extraurbane, i beni mobili (gioielli, indumenti, mobili, stoviglie, attrezzi, bestiame, libri) e i servi. L’ultima, infine, è quella relativa alle disposizioni vere e proprie: la nomina dell’erede, i legati a familiari e ad altri, i legati pro anima, le disposizioni per la sepoltura e le esequie, la nomina degli esecutori testamentari. Vediamo ora quale può essere il significato, l’interesse e l’uso di ognuna di que-ste singole voci.

Il documento: il testatore e il notaio

Il testamento avrei voluto scriverlo con la scrittura mia,

me lo impedisce la paralisia... Perciò volli un notaio,

solemne et leale...

(Giovacchino Forzano, Gianni Schicchi)

La collocazione archivistica è un dato essenziale per tutti i docu-menti, e solo in alcuni casi può assumere un particolare significato per un testamento. Il testatore e il notaio sono invece i due autori del testa-mento, o, se si preferisce, il notaio è l’autore del docutesta-mento, il testatore del racconto. Il notaio identifica il testatore, ne indica la condizione sociale (dominus, nobilis, magnificus et egregius, domina, mulier), ne certifica la capacità di intendere e di volere e di esprimersi chiara-mente; il testatore racconta e si racconta, proietta oltre la morte i suoi sogni e i suoi progetti, e in questo senso si può dire che il testamento più che ogni altro documento si avvicini al paradosso di Le Goff, che diceva che «al limite, non esiste il documento-verità. Ogni documento è menzogna».

Ci si può chiedere, a questo punto, quanto il linguaggio di un testamento sia dovuto alla penna del notaio e quanto al dettato per-sonale del testatore. Molte solenni arenghe non si debbono intendere se non come un’ esibizione di retorica da parte del notaio, magari con-siderata tanto più necessaria se il testatore è un personaggio presti-gioso; ma in alcuni casi la personalità di chi sta per dettare le sue ultime volontà riesce a trasparire attraverso le formule più o meno stereotipate. L’evocazione dei pericoli della guerra nell’arenga di un testamento stilato a Monte S. Giuliano (Erice) nel 1299 («actendens quantis sit vita hominis periculis irretita, et maxime proficiscentis ad locum ubi bella consurgunt et homines moriuntur») è espressa con le parole del notaio ma tradotta dallo stato d’animo del testatore, Tommaso di Pietro di Terranova; nei testamenti stilati a Corleone, ultima colonia lombarda di Sicilia, il fatto che testare sia dovere per ogni padre (o madre) di famiglia è sempre ricordato nell’arenga dei vari notai; Enrico Pontecurono, piccolo proprietario corleonese, spe-cifica che ci tiene a disporre dei suoi beni prima di perdere memoria e senno, per non lasciare di sé un ricordo “inquieto”. Il timore di lasciare un ricordo di sé “inquieto” si ritrova in un altro immigrato lombardo, Giovanni Bono di Salemi, e il fatto che tratti di documenti stilati da diversi notai in centri diversi segnala la comune matrice cul-turale, appunto lombarda, tra i due testatori. Giacomo Guastalacqua, di Polizzi, nel 1306, dichiara che morire intestato sarebbe stata una vergogna, «mihi iniuria notaretur».

In un altro caso, invece, personalità e prestigio della testatrice hanno un tale impatto sul notaio da riuscire a far emergere un’im-magine di regale carisma ed estrema fragilità: si tratta del testamento di Eleonora d’Aragona, nipote di Federico III, la donna che grazie ad un busto, che è in realtà soltanto un ritratto immaginario, di France-sco Laurana, è diventata nel tempo uno dei simboli più affascinanti della Sicilia medievale, e che, ormai anziana e malata, nel 1402 det-tava il suo testamento nel monastero di Santa Maria del Bosco: «licet non iacens sit in lecto, sed aliquantulum sit fragilitatis humane gra-vata … sana tamen mentis et rationabilis intellectus, expedite et arti-culate loquens, considerans quod cera impressionem recipit ex sigillo ... ». Il dramma della morte imminente di una giovane madre, la paler-mitana Maria, moglie di Cristiano di Cefalù, commuove il notaio, che le mette in bocca tristi e rassegnate parole d’addio: «considerans pre-sentis vite inopinatum iteratum et dire mortis infelicem occasum qui nemini parcitur ...»

In una cosa il testatore si impone sicuramente al notaio, e cioè nella scelta delle parole usate per definire oggetti e indumenti del suo patrimonio. Quando, nel 1325, Contessa de Lago, una vedova messinese, tra i suoi oggetti preziosi, accanto a un cucchiaino e a uno stuzzicadenti (dintigleri) d’argento, elenca un buscherium e una gausappam, termini poco usati per indicare il baldacchino del letto e una tovaglia da tavola, molto probabilmente adopera parole per lei usuali, forse addirittura parte del lessico familiare. Ancora più significativo il caso di Palma Mastrangelo, dama di famiglia egemone della Palermo del Vespro, che nel 1310 per indicare un paio di orecchini a pendente usa il termine carade, derivato dalla stessa radice araba del termine acrati, adoperato qualche decen-nio prima nell’elenco dei beni dotali di una sua parente, Costanza de Ebdemonia: in questo caso ci troviamo di fronte alla testimo-nianza, sottile ma significativa, della persistenza dell’uso del-l’arabo, non solo come reliquia, nel linguaggio quotidiano dell’aristocrazia palermitana fino ai primi decenni del T recento. Restano misteriosi i minnadaria citati nel testamento di Peregrina, moglie di Damiano Salimpipi: indumenti intimi, certamente, ma non meglio identificabili. Infine, un indubitabile segno del preva-lere del lessico del testatore su quello del notaio si ha quando nel testamento di Bindino de Nicola, mercante di Volterra stabilito a Paler mo, madre e sorella del testatore vengono definite con un toscanissimo monna al posto del consueto domina. Peregrina Salimpipi, messinese trasferita a Catania per motivi politici, invece, non si fida del notaio catanese, teme che la sua ignoranza delle consuetudini messinesi possa invalidare il testamento, e impone una clausola cautelativa.

Il nome del giudice cittadino che sottoscrive il documento non ha nessuna rilevanza in relazione al testamento, ma è un dato importante in ogni documento nel caso in cui manchino altre informazioni sulle strutture politiche cittadine: per la Palermo del Duecento, per le altre grandi città della Sicilia orientale, per Corleone o per Lentini. I testi-moni permettono invece di inquadrare socialmente il testatore, la sua famiglia e il milieu in cui si evolvono. I presenti al testamento di Roberto de Pando, ricchissimo uomo d’affari di origine amalfitana e più che probabile agente di Pietro il cerimonioso in Sicilia, corrispondono perfettamente al gruppo di dirigenti del partito catalanista che alla metà del ‘300 si raccoglieva a Catania attorno agli Alagona; i testimoni che sottoscrivono le ultime volontà della palermitana Ventura il 25 marzo 1254 (un prete della cattedrale, un Sardus e un cognome di chiara origine araba) sono una campionatura della popolazione del Cassaro, il più antico e aristocratico quartiere cittadino, e in calce al testamento di Clara, una ragazza che lascia la sua casa nel Cassaro al mercante pisano e alla moglie che l’avevano allevata si sottoscrive un gruppo di toscani, esempio della compattezza della migrazione toscana in Sicilia.

Il documento: luogo e data

Luogo e data del testamento, elementi comunque da esaminare criticamente in dettaglio, messi in relazione con la persona del testa-tore possono rivelare situazioni particolari. Il testamento di Bartolo-meo Mustacio, dettato a Lentini il 19 novembre 1268, e quello di una zia di sua moglie, Mabilia de Raffaldo, dettato ad Augusta il prece-dente 12 giugno, sono datati con l’anno di regno di Corradino: «sere-nissimo rege Conrado secundo in Romanorum imperatorem electo Ierusalem et Sicilie rege ac duce Suevie». I Mustacio, messinesi, annoverano tra i loro membri uno dei poeti della Scuola siciliana, Giacomo Mustacio, secondo la lettura toscana più diffusa Iacopo Mostacci, falconiere dell’imperatore, ambasciatore di Manfredi a Bar -cellona per trattare il matrimonio di Costanza con il futuro Pietro il grande, citato nel testamento come comproprietario di un castagneto e di alcune case dirute a Messina. Allo sbarco di Corrado Capece in Sicilia i Mustacio avevano partecipato alla ribellione dell’isola nel nome di Corradino, e appare evidente dal testamento che Bartolomeo era tra coloro che avevano resistito ad oltranza a Lentini (verosimil-mente la malattia che lo spingeva a dettare le sue ultime volontà era una qualche ferita di guerra). Sappiamo che in seguito alla definitiva sconfitta dei partigiani di Capece i suoi beni furono sequestrati; la vedova riuscì a farsi restituire i beni dotali nel 1271. Il 19 novembre

Corradino era stato giustiziato da tre settimane, dunque la notizia della sua morte non era ancora nota in Sicilia o veniva volutamente nascosta per non privare la resistenza, che sarebbe continuata ancora per quasi due anni, del suo movente essenziale. I due testa-menti sono due “reliquie ghibelline”, come mi suggerisce Henri Bresc, sfuggite alle inchieste di Carlo d’Angiò, conservate tra le carte di famiglia dei Mustacio finite nel tabulario del convento di s. Chiara di Lentini, e gli unici documenti siciliani che attestano la tenacia e il profondo radicamento della rivolta.

Il testamento di Roberto de Pando, già citato, dettato a Catania, dove il Pando si era rifugiato dopo il definitivo trionfo dei Chiaromonte su Palermo il 10 febbraio 1353, spiega due capitoli della cronaca che siamo abituati ad attribuire a Michele da Piazza dedicati, in maniera del tutto inconsueta per il cronista catanese, a due particolari momenti di vita cittadina palermitana che ebbero come protagonista e infine vit-tima il Pando. Il fatto che il Pando attribuisca a Giacomo de Soris, abate del monastero benedettino di S. Nicolò l’Arena, suo unico esecu-tore testamentario, totale fiducia e pieni poteri decisionali, unito al tono partecipe e accorato dei capitoli a lui dedicati nella cronaca, dà consi-stenza all’ipotesi, che per me personalmente è certezza, che identifica l’abate con l’autore del testo.

Il documento: circostanze in cui viene dettato il testamento

La maggior parte dei testamenti sono dettati in caso di infermità più o meno grave, ma non si fa mai riferimento alla tipologia della malattia; spesso se ne specifica la gravità. In linea di massima il notaio se la cava con la formula «licet eger corporis sanus tamen mente et recte et articulate loquens», indispensabile per assicurare la validità del testa-mento. La stessa peste, flagello temutissimo a partire dall’epidemia del 1348, diventato poi costante tara della psiche collettiva, non viene quasi mai esplicitamente evocata: ricordo due casi, in uno dei testa-menti di Matteo Sclafani e in quello di Guglielmo Sammarco di Troina, del 1363 («verens epithimiam immanenti morbi mortalitatis ne forte esset repentine mortis perventus»). Se invece il testatore è in buona salute l’esigenza di fare testamento può nascere da un viaggio, una missione in terre lontane (Simone Fimetta, nel 1281, dichiara che è in procinto di «per mandata regia ad partes Grecie pro negociis regie magestatis sibi commissis personaliter transfretari»), o un pellegrinag-gio: è il caso di due coniugi palermitani, Giovanni e Priyata de Priyata, che dettano nel 1303 un testamento congiunto «volentes versus Romam peregrine dirigere gressus eorum timentes ne repentina mors que cuncta creata dissolvit eos perveniret in alienis partibus», e di una

vedova di Monte San Giuliano, Giovanna de Aidone, che non ha ancora deciso la sua meta, Roma o San Giacomo di Compostella.

Ma pur non esplicitamente citata, la peste è all’origine di testa-menti “seriali”, come si può rilevare dal susseguirsi di testatesta-menti in registri notarili o nei tabulari di istituzioni ecclesiastiche. Lo spezzone di un registro del notaio palermitano Nicola de Brixia, già citato, com-posto quasi interamente di testamenti (18 testamenti su 26 docu-menti in un arco di tempo di due mesi e mezzo) segnala la recrudescenza della peste nera del 1375. La sciatteria formale, carat-teristica dei testamenti redatti in fretta in tempo di peste, non riscon-trata nei testamenti palermitani al tempo della prima esplosione della peste nera, è ora evidente nei documenti del notaio de Brixia; e ricorre più spesso del consueto il legato per il notaio, ricompensa per il peri-colo affrontato nel recarsi al capezzale di un appestato (il notaio de Brixia resistette al contagio, perché rogava ancora nel 1381). Altro dato emergente dall’esame dello spezzone è la giovane età di molti appestati: una è addirittura un’adolescente, «maggiore di quattordici anni e minore di sedici», e molti designano come eredi o legatarie madri, zie e persino nonne, vigorose signore sopravvissute alla prima ondata dell’epidemia e ormai immunizzate.

Altre circostanze che danno origine a testamenti “seriali” sono la guerra (ricordo un paio di testamenti ericini dettati prima di raggiungere l’armata regia, nel 1299, l’anno delle epiche battaglie di Capo d’Orlando e della Falconara) e i pellegrinaggi, specie in occasione del Giubileo. In quest’ultimo caso la serialità dei testamenti è accentuata dal fatto che si potevano formare piccoli gruppi di pellegrini che oltre a condividere l’itinerario del viaggio si premuravano di dettare il testamento presso lo stesso notaio: così nel 1350, anno del secondo giubileo, un gruppo di