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Una storia del Regno di Napoli tra Stati e Imperi Riflessioni su un libro recente

10.19229/1828-230X/4072017

L’Autore esplicita i binari er-meneutici entro i quali si muove la sua ricostruzione, valorizzando i contributi di Croce e Galasso, con i quali egli si rapporta critica-mente in una dinamica di con-fronto, revisione, innovazione. L’attenzione è posta sulla coinci-denza tra la perdita dell’indipen-denza del Regno di Napoli e la per-dita dell’indipendenza italiana. La matrice di tale interpretazione ri-siede nella rappresentazione sto-riografica quattro-cinquecentesca della lotta franco-spagnola per il possesso di aree strategiche della penisola, durante la quale la pos-sibilità di convogliare il senti-mento nazionale verso una con-creta realizzazione politica si infrange dopo la perdita della li-bertà italiana e il subentrare della duratura dominazione spagnola: con la caduta di Napoli – unico vero “regno” d’Italia, secondo Ma-chiavelli – cade l’intera penisola, tutta direttamente o indiretta-mente assoggettata al giogo stra-niero.

Nel libro di Musi, accanto alla narrazione degli eventi, si compie una parallela analisi della tradi-zione storiografica, ritenuta parte integrante della storia d’Italia, ele-mento determinante per la costru-zione della storia rappresentata e dei conseguenti processi di auto-coscienza ed autorappresenta-zione. L’Autore ripercorre l’evol-versi del sentimento nazionale dagli albori della storiografia uma-nistica all’emergere del pregiudizio antispagnolo, fino all’epilogo otto-centesco dell’epopea

risorgimen-tale, largamente im pron tata al-l’antispagnolismo. Tra questi due estremi temporali si colloca la sto-riografia di matrice napoletana, la storiografia della “patria”, della “nazione napoletana”, che tra Cin-que e Seicento ammette la tolle-rabilità della dominazione spa-gnola a fronte dei vantaggi derivanti dall’inserimento in un grande impero. Alla base del rap-porto fra dominio e consenso si pone l’irrinunciabile riconosci-mento dell’ordinariconosci-mento e degli antichi privilegi del Regno, ele-menti materiali ed immateriali convergenti nel concetto di “na-zione napoletana”, su cui Musi ha prodotto recentemente specifici ed innovativi studi (A. Musi, Mito e

realtà della nazione napoletana,

Guida Editore 2016). La “nazione napoletana” è uno degli elementi che sostanziano l’identità plurise-colare del Regno, un’identità che l’Autore definisce – quasi ossimo-ricamente – “dinamica”, per ri-marcare la forza innegabile di tratti distintivi saldi ma storica-mente in continuo mutamento, in linea col mutare degli scenari geo-politici internazionali, ancora una volta a riprova del pieno inseri-mento delle vicende del Mezzo-giorno nel quadro europeo e mediterraneo. Vicende che, se dif -ficilmente riescono a restituire fasi di protagonismo del Regno napo-letano, pur tuttavia ne eviden-ziano la costante presenza non come semplice comparsa o mero scenario degli sviluppi storici eu-ropei, ma come soggetto compar-tecipe della costruzione della

po-litica euro-mediterranea nel lungo arco cronologico dal Tardo Me-dioevo al XIX secolo.

Lungo questi secoli, resta saldo il senso di appartenenza a una vera e propria “nazione”, incardi-nata su solidi pilastri quali la fe-deltà alla monarchia, il primato della città di Napoli tendente al-l’identificazione della capitale con l’intero regno, i processi di costru-zione della statualità moderna che fin dagli esordi – e, attraverso i se-coli, secondo Musi fino a oggi – manifestano la predominanza della decisione politica proveniente dai vertici rispetto a un’endogena evo-luzione della società e della cultura napoletane.

Nel concetto di “nazione napo-letana” rientrano le fondamenta di quell’identità e di quel patrimo-nio giuridico e culturale gelosa-mente custodito, di cui si nutre l’autocoscienza dell’unica

nazione-regnum presente nella penisola.

E, se rispetto ai coevi Stati nazio-nali europei, il Regno si presenta come un “piccolo Stato”, esso è caratterizzato però dal pressoché costante inglobamento in grandi quadri di integrazione europea fin dall’atto della sua nascita.

L’arrivo dei Normanni, che pro-duce l’unificazione del Mezzo-giorno continentale ed insulare sotto un’unica sovranità, com-porta il trapianto, e successivo ra-dicamento, nell’Italia meridionale del regime feudale. Il feudalesimo, introdotto dai Normanni per ne-cessità di controllo militare del territorio, si consolida come isti-tuto destinato al governo di terre

e uomini, con l’accentuazione dei poteri giurisdizionali dei baroni, i quali, in assenza di città-stato sul modello dell’Italia centro-setten-trionale, si attestano progressiva-mente come veri e propri delegati del potere regio. Un potere regio che con i Normanni inizia a pren-dere forma e delinea già un’entità “Stato” incardinata nell’autorità monarchica – seppure intesa an-cora secondo l’ottica medievale. Alla dinastia normanna è ricon-ducibile l’insorgere di un altro fat-tore fortemente caratterizzante la storia del Regno: la soggezione feudale al Papato. L’Autore sotto-linea come questo elemento con-dizioni, almeno fino al XVIII se-colo, l’esercizio della sovranità da parte delle dinastie succedutesi sul trono napoletano, sulle quali i pontefici cercano inevitabilmente di fare pressione attraverso l’ob-bligo dell’investitura papale e il ri-tuale del censo annuo.

Tali caratteristiche si trasferi-scono nel tempo alle dominazioni successive, che non possono che impiantare la propria sovranità sugli elementi fondativi già evi-denziati: l’ottenimento dell’investi-tura papale, che avalla la condi-zione di vassallaggio del Regno alla Chiesa; l’ampliamento della giurisdizione feudale, che inter -cetta il consenso dei baroni a fronte del conseguimento della loro fedeltà alla dinastia regnante. Tale è la politica condotta dagli Angioini che, nonostante la per-dita della Sicilia, contribuiscono a inserire il Regno di Napoli nella dimensione internazionale della

monarchia francese e che, solo a partire dal periodo durazzesco, manifestano un ripiegamento della dinastia su una dimensione locale, che però favorisce una maggiore identità napoletana dei monarchi meridionali. All’avvento degli Aragonesi l’Autore attribui-sce l’ingresso del Mezzogiorno in un’autentica prospettiva mediter-ranea promossa dall’appartenenza del Regno alla rete politico-mili-tare, commerciale e finanziaria dei sovrani aragonesi. Ma anche sul piano interno si colgono i successi della monarchia aragonese che di-viene uno dei riferimenti mitici del percorso di costruzione identitaria della storiografia del Regno, grazie soprattutto all’azione di potenzia-mento compiuta a favore delle università e della loro ossatura statutaria, anche nell’ottica del contenimento del potere baronale. Alla fine dell’esperienza arago-nese si colloca una delle più im-portanti cesure della storia del Re-gno, la perdita dell’indipendenza che – come già detto – viene perce-pita come un evento di grande por-tata, come la perdita dell’intera li-bertà d’Italia. L’ingresso nell’orbita spagnola rappresenta l’inizio di un processo di integrazione in un va-sto complesso imperiale, che pro-ietta il Mezzogiorno in una dimen-sione europea. La soggezione del Regno a una dominazione stra-niera è compensata dal suo pieno inserimento nei circuiti internazio-nali della Spagna – prima potenza europea dell’epoca – che permet-tono a una realtà di piccole pro-porzioni, come il Regno, di

parte-cipare attivamente alle dinamiche della politica internazionale: in questa condizione si sintetizza la duplice identità giuridico-simbolica di Regno/Viceregno incarnata dal Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo e parallelamente avvertita in ter-mini di rappresentazione esterna e autocoscienza nazionale: “una bi-polarità viva ed operante”, come la definisce Musi, che nel primo ter-mine, di “Regno”, si esprime nella salvaguardia delle patriae leges quali patrimonio costituzionale del territorio, e nel secondo termine, di “Viceregno”, racchiude invece l’esperienza del rapporto tra cen-tralizzazione e dominio, del peso della fiscalità, dell’appartenenza a un sistema sovranazionale.

Ai secoli del viceregno spagnolo l’Autore dedica un’articolata trat-tazione, con l’obiettivo di scardi-nare il pregiudizio antispagnolo lungamente radicato nella tradi-zione culturale italiana e di pro-porre una equilibrata valutazione dell’influsso esercitato dalla bise-colare appartenenza all’egemonica potenza asburgica. Sono richia-mate, nel corso della narrazione, alcune fortunate categorie inter-pretative portate in auge da Musi nelle sue ricerche e diventate saldi punti di riferimento nella storio-grafia degli ultimi decenni: la no-zione di “Sottosistema Italia”, in-teso quale area del complesso imperiale che si configura come sistema di potenza regionale, come spazio politico relativamente unitario caratterizzato da una se-rie di funzioni, tra loro coordinate, assegnate ad alcune parti

abba-stanza omogenee dell’intero si-stema imperiale spagnolo; la teo-rizzazione dei viceré quali “cinghie di trasmissione” del sistema im-periale nella cui natura bidimen-sionale si rintraccerebbe per tra-slazione la presenza dei “due corpi del re”; l’individuazione della via napoletana allo Stato moderno fatta di una costante dialettica tra “collisione” e “collusione” nei rap-porti tra autorità centrali, istitu-zioni, corpi ed élites locali.

L’essere parte integrante di un sistema è una condizione che si ripresenta per il Mezzogiorno du-rante la breve parentesi austriaca, in cui permane lo status di vice-regno alle dipendenze degli Asburgo di Vienna: ancora una volta, nel libro, si sottolinea come l’Italia meridionale, pur condizio-nata da decisioni prese altrove, si avvantaggi della politica di rilancio internazionale condotta dall’Im-pero austriaco nel XVIII secolo.

Evidentemente periodizzante è il 1734, con la riconquista dell’in-dipendenza e la costruzione di un’identità nazionale fondata sulla forza di un “re proprio”, lun-gamente vagheggiato e finalmente interpretato dalla dinastia borbo-nica, che gradualmente tende a nazionalizzarsi liberandosi dalla tutela spagnola. È l’epoca delle ri-forme, dell’aspirazione a un’am-ministrazione efficiente, a un’au-torità sovrana salda, scevra da interferenze e condizionamenti di poteri concorrenti o concomitanti. L’esperienza borbonica è chiara-mente caratterizzata da diverse fasi, che vanno dal “tempo eroico

della dinastia”, alla scollatura tra monarchia e paese alle soglie della rivoluzione del 1799, fino alla restaurazione borbonica ot-tocentesca, che non è in grado di far svolgere al Regno un’adeguata politica internazionale. Se la pa-rentesi napoleonica rappresenta un altro momento di integrazione in un ampio quadro europeo – pur nella dimensione fortemente accentratrice concepita dal dise-gno di Napoleone, intenzionato a esercitare un diretto controllo francese sulla penisola italiana – l’Autore rimarca come tutta la storia del Regno di Napoli non possa essere considerata un’ano-malia nella storia italiana «perché fu l’Italia tutta a non poter vivere la sua storia sul piano della totale autonomia ed indipendenza» (p. 16). Dunque per Napoli la sogge-zione a potenze estere si tradusse nell’unico modo possibile «nelle condizioni oggettivamente date, di vivere un’esperienza storica sulla scala europea, impossibile ad es-sere vissuta sul piano dell’auto-nomia e dell’indipendenza […]. Proprio e anche per questo fu ne-cessaria l’unificazione politica della penisola» (p. 16).

In questo modo Musi introduce le sue riflessioni storiografiche che si intrecciano alla narrazione degli eventi risorgimentali, ribadendo l’inevitabilità e la necessità del-l’unificazione nazionale e tentando di indicare un approccio equili-brato a temi oggi quanto mai scot-tanti e strumentalizzati, quali l’unificazione italiana e la que-stione meridionale.

Nell’esaminare il Regno di Na-poli, su cui scarseggiavano finora opere di sintesi che integrassero efficacemente la narrazione con l’interpretazione storiografica, l’Au-tore persegue l’idea della

nazione-regnum, analizzata nelle sue

dina-miche di costruzione concettuale, ma anche nelle sue variazioni di intitolazione. Un processo che mette in luce l’emergere di dif -ferenti denominazioni per il Mez zogiorno d’Italia, che accompagnano l’evolversi delle appar -tenenze politiche e rivelano il con-figurarsi dell’alterità tra la “nazione napoletana” e la “nazione siciliana” fino all’epoca contemporanea.

Altrettanto significativa ap-pare l’operazione che, pur nel ri-conoscimento storico del primato della capitale e dell’innegabile

provincializzazione delle altre aree del Regno, dedica ampio spazio alla ricostruzione delle vi-cende economiche, sociali e cul-turali delle antiche province me-ridionali.

Dal costante intreccio tra rac-conto e problematizzazione sem-bra emergere l’esigenza dell’Autore di attualizzare la storia, di ribal-tare la tradizionale accezione dell’historia magistra vitae, affin-ché questo libro si offra anche come uno strumento didattico orientato a fornire elementi di ri-flessione ai giovani, i quali appa-iono sempre più appiattiti in un “presente senza storia”, che si au-spica possa trasformarsi in un “presente come storia”.

Dell’opera dello storico Adolfo Omodeo, nato a Palermo nel 1889, ufficiale di artiglieria nella grande guerra, illustre esponente della cultura liberale e antifascista, col-laboratore de La critica, rettore dell’Università di Napoli dopo la li-berazione e ministro del governo Badoglio, morto a Napoli nel 1946, Massimo Bettini (Capo ufficio sto-rico dello Stato Maggiore Difesa) nella presentazione di questa edi-zione (Adolfo Omodeo, Momenti

della vita di guerra. Dai diari e dalle lettere dei caduti, a cura di Roberto

Guerri, Gaspari Editore, Udine, 2016, pp. XLVII, 271), realizzata per le celebrazioni del centenario della Grande guerra, scrive:

L’obiettivo di Omodeo, lasciando che a narrare la guerra fossero i diretti protagonisti, fu dunque quello di mostrare la passione che animava una parte degli ufficiali, in particolare quelli di comple-mento, e dei soldati che avevano aderito con slancio alla guerra, espressione di una molteplicità di posizioni ideali: mazziniani, mo-narchici, cattolici, nazionalisti, ga-ribaldini, irredentisti. Certo un frammento numericamente piccolo in confronto all’imponente massa dei mobilitati, ma che per lo stu-dioso siciliano rappresentò l’anima stessa dell’Esercito, quella che fu, con il suo ideale di Patria e

d’uma-nità, esempio per i compagni so-prattutto nei frangenti più difficili e pericolosi (p. VII).

«Ho da vario tempo iniziato – scrive nel 1928 Omodeo a Giu-seppe Lombardo Radice – uno studio sulle lettere e sui diari dei caduti: un saggio sulla vita mo-rale della nostra guerra». La sa-piente selezione proposta dallo storico siciliano, pubblicata tra il 1929 e il 1933 sulla rivista La

Cri-tica di Benedetto Croce e, in

vo-lume, per Laterza nel 1934, se-condo il curatore dell’opera, ripercorre i vari momenti ren-dendo la voce, l’anima e il volto a un’imponente massa di giovani che avevano compiuto il loro do-vere per la patria e che rischia-vano di rimanere anonimi e grigi come le loro uniformi. Momenti racconta la guerra da una diversa angolatura, non dai resoconti uf-ficiali e tanto meno dalle tenden-ziose e manipolate corrispondenze giornalistiche, bensì «diretta-mente dalle lettere e dai diari dei combattenti, testimonianza dello spirito e di quell’anima che per-misero loro di superare la logo-rante vita di trincea, la lonta-nanza dagli affetti più cari, il terrore della morte e del dolore, l’angoscia degli assalti» (p. XVI).