4. IL PROFESSIONALISMO DELLA CONSULENZA
4.3 Lavorare per progett
Il consulente è un professionista che offre competenze specialistiche alle aziende clienti, senza alcun vincolo di tempo, spazio e contenuto della prestazione nell’alveo di organizzazioni che sono strutturate intorno all’erogazione di servizi avanzati alle imprese. Tre sono gli elementi che le caratterizzano: un output che si basa su un ricco bagaglio di conoscenza complessa e specialistica, una ridotta intensità di capitale e una forza lavoro altamente specializzata (Nordenflycht, 2010). Per rispondere in maniera adeguata alle esigenze di produzione anche i lavoratori frontline devono essere lavoratori altamente specializzati e formati, ponendo un dilemma organizzativo non indifferente: come motivare e trattenere all’interno dell’organizzazione individui le cui competenze sono scarse e potenzialmente di successo nel mercato. Infatti, le società di consulenza hanno come unico asset specifico (e costo) le conoscenze incorporate nei loro dipendenti e devono trovare criteri di assegnazione efficaci e efficienti per gestire al meglio queste risorse, senza perderle nel momento in cui sono state formate. Questa necessità alimenta una contraddizione con il funzionamento organizzativo classico in quanto l’esigenza principale di un’organizzazione di questo tipo non è più quella del controllo ma il coordinamento delle risorse e
la concessione di autonomia anche ai membri più giovani. Le società di consulenza devono dunque cercare di trovare una risposta convincente al quesito: “come garantire il successo
economico e competitivo e allo stesso tempo aggregare un insieme di persone, i cui valori sono l’autonomia, la specializzazione nella professione, l’innovazione continua (Faliva, Pennarola, 1992:
181)”.
Questo impasse è stato risolto attraverso il modello dell’organizzazione a progetto (Boltanski, Chiapello, 1999), che è un modello organizzativo che si inizia a consolidare a partire dai primi anni ’90. Il ricorso al progetto come principio organizzativo è ciò che rende una società di consulenza profondamente diversa rispetto a quella di produzione (Barley, Kunda, 2004): il professionista svolge la sua attività in un limite sia temporale che contenutistico definito a priori all’interno del progetto, in una posizione indipendente (perché esterna e temporanea rispetto all’organizzazione su cui opera) e sulla base di un ritmo di lavoro performativo che è scandito dalle deadline interne del progetto (o dei progetti) in cui il professionista è coinvolto. La projectification è l’emblema del funzionamento del settore dei services producer e si pone in evidenza come lo strumento retorico utilizzato dalle aziende di consulenza per evidenziare la novità e l’efficienza all’interno del mondo produttivo e dei servizi (Hodgson, 2008).
La sua logica principale consiste nel dare mandato ad un gruppo di lavoro, detto équipe di
progetto, che deve collaborare e organizzarsi al suo interno al fine di elaborare delle soluzioni
adeguate e ad hoc per rispondere alla “missione” per cui è stato creato (Segrestin, 2004). Essa si basa su tre elementi fondamentali (Boltanski, Chiapello, 1999):
• Un core centrale formato dalle funzioni dirigenziali e di controllo;
• Un conglomerato di équipe che si organizzano in piccoli gruppi multi-tasking, che basano la loro competitività sull’essere flessibili, creativi e autonomi nel loro lavoro;
• Una serie di organizzazioni satellite esterne (o di liberi professionisti), che si occupano di realizzare servizi di supporto attraverso l’erogazione di funzioni specialistiche che non sono coperte dalle competenze presenti nell’azienda.
Questo tipo di organizzazione è stata descritta in letteratura anche con la locuzione di “organizzazione cellulare” (Miles et al, 1997) e basa la sua forza su una struttura a rete e non più verticalmente gerarchica (Boltanski, Chiapello, 1999). Partendo dall’assunto che una forma organizzativa è l’ossatura che permette ad un’organizzazione di integrare strategie, risorse umane e processi gestionali in un insieme efficiente, la forma cellulare si ispira al modello di funzionamento delle cellule in un organismo complesso. Ciascuna di esse è in grado di lavorare in modo autonomo per il raggiungimento di scopi elementari (in questo caso i singoli progetti), ma nello stesso tempo lavorando di concerto riescono a raggiungere obiettivi compositi in un gioco continuo tra indipendenza e interdipendenza. Allo stesso modo, l’organizzazione cellulare si compone di unità elementari semplici (le equipe) che possono combinarsi in maniera flessibile e a seconda delle esigenze di mercato per rispondere a bisogni più complessi che trascendono le competenze e le capacità del singolo team. Questa forma si adatta alle organizzazioni di consulenza, proprio perché essa è progettata in modo da essere in grado di supportare al meglio la produzione costante di innovazione e l’autonomia dei lavoratori rispondendo in maniera personalizzata alle esigenze che vengono dai propri clienti (Miles et al, 1997).
Questo modo di organizzare il funzionamento delle società di consulenza si ripercuote sui consulenti in modo diverso a seconda della loro posizione più o meno vicina al core dirigenziale e alla dimensione dell’organizzazione nella quale sono inseriti. Una prima ambivalenza di questa forma organizzativa riguarda la modalità di integrazione nell’organizzazione, che è una funzione del numero dei progetti che li vede coinvolti e dal ruolo che vi assumono. Infatti, per le grandi corporation della consulenza è usuale occuparsi dell’implementazione di progetti molto grossi e durevoli nel tempo, in cui le risorse interne sono distaccate a svolgere dei compiti “di
manutenzione del cambiamento” spesso all’interno di un singolo progetto che satura il loro carico
di lavoro per diversi mesi se non anni, fino al limite di rasentare la condizione di impiegato esternalizzato più che quella di un professionista.
I lavoratori frontline delle grandi aziende di consulenza hanno spesso compiti precisi e delimitati, non godono di libertà decisionale sull’organizzazione della loro agenda, di fatto occupandosi della gestione routinaria di mantenimento del business all’interno della stessa azienda. E’ solo con la crescita nelle gerarchie dell’azienda che si acquista la possibilità di essere autonomi e di poter gestire i propri carichi di lavoro.
«La libertà di gestire le mansioni cresce nel tempo; ad oggi nel ruolo uff... non sono libero di scegliere che cosa fare, sono libero di scegliere come fare le cose ma non cosa fare, cioè i compiti me li dà il mio capo, poi sta a me decidere come raggiungere l’obiettivo che mi ha dato il mio capo, gli orari non ho assolutamente controllo, zero controllo, questo vuol dire che... nel weekend se mi chiamano devo essere disponibile... e mi possono chiamare alle undici di sera, come alle nove di mattina, quindi zero controllo sugli orari, in realtà poi crescendo con la carriera poi si diventa capi progetto, quindi vuol dire almeno... altri tre anni di... da... da questo momento, quando si diventa capi progetto si ha la possibilità di gestire... gli orari... del proprio lavoro e del proprio team, però al momento subisco passivamente quello che decidono (sospira)» [Fausto, 27, dipendente]
Per i livelli senior delle organizzazioni più grandi, al contrario, il modo di lavorare è a cavallo tra quello di un manager e di un imprenditore: il loro compito principale consiste nell’organizzare il lavoro dei consulenti in modo tale da garantire l’erogazione dei progetti già venduti, ma nello stesso tempo significa anche lavorare in un’ottica imprenditoriale al fine di ottenere nuovi progetti per sostenere la sopravvivenza della società sul mercato. Essi tuttavia perdono progressivamente il contatto con l’operatività del lavoro a favore soprattutto dello svolgimento di compiti squisitamente commerciali e organizzativi.
Al contrario, al diminuire della dimensione dell’organizzazione tende ad aumentare il numero e la varietà dei progetti di cui il singolo professionista si deve occupare. Da un lato questo rappresenta uno stimolo perché il continuo cambiamento è eccitante, perché la possibilità di essere autonomi è concreta anche per i junior, perché si esula dalla ripetitività di un lavoro impiegatizio e perché permette di aumentare la velocità della propria crescita professionale. Dall’altro rappresenta una fatica fisica non indifferente (spesso i clienti sono lontani geograficamente tra di loro) e può essere difficile ricostruire il proprio percorso lavorativo in una narrazione unica e coerente.
«Non ho fatto un progetto che sia uguale all'altro ho fatto... progetti di dieci mesi con una giornata al mese, ehm... cioè inizia a diventare innanzitutto troppa varietà e... non c'è mai un argomento che si ripeta ehm... non c'è mai un cliente che si ripeta e... non lavori mai continuativamente sullo stesso progetto, perché il massimo che ho fatto da un cliente, ehm... dallo stesso cliente in una settimana è stato tre giorni» [Sabrina, 27,
dipendente]
Una seconda ambivalenza di questa struttura organizzativa è data dalla forma stessa del progetto, che si basa sulla limitatezza temporale e che costituisce il primo vincolo a cui il professionista della consulenza si deve adeguare. Il progetto rappresenta il confine entro cui è possibile esercitare l’attività di consulenza e pertanto non solo definisce in modo preciso quali saranno gli interventi da implementare nel corso del tempo prestabilito e quali sono le risorse in termini di tempo e consulenti che saranno coinvolte, ma rappresenta anche una forma di vincolo che delimita la capacità di intervento del professionista sull’organizzazione cliente.
Banalmente questo significa che il consulente deve organizzare il proprio lavoro e ottenere il risultato richiesto nel limite temporale fissato dall’accordo contrattuale con il cliente. Tuttavia, meno banalmente, lavorare esclusivamente per progetti rende molto difficile valutare l’efficacia del proprio lavoro: una volta che il progetto si è concluso, il professionista non ha la possibilità di capire se davvero il cambiamento è stato inglobato nel normale funzionamento dell’organizzazione-cliente, né ha più la possibilità di intervenire.
«Noi non... riusciamo mai a godere fino in fondo... dei benefici di quello che facciamo, perché finito un progetto quando il progetto comincia... a... portare a casa i risultati ti prendono e ti mettono in una roba nuova quindi ce l'hai sto senso di frustrazione, cioè
se tu mi dici in tutti i progetti che ho fatto qual è che considero veramente un successo ehm sono molto pochi perché per un modo o per un altro c'è sempre stato qualcosa oppure comunque sia non ho mai potuto apprezzare fino in fondo ehm... i risultati no?»
[Manlio, 31, dipendente]
La terza ambivalenza del funzionamento a progetto va ricercata nelle relazioni di potere che si instaurano tra il consulente, il management del cliente e i lavoratori con i quali andrà effettivamente a lavorare. Come sostengono Barley e Kunda (2004) il consulente, dall’esterno, consente di introdurre all’interno dell’organizzazione nella quale va operare dimensioni di innovazione: questi professionisti trasportano frammenti di conoscenze da altre realtà, diffondendo nuove modalità innovative di gestire o risolvere uno specifico problema in tempi estremamente rapidi (Barley, Kunda, 2004). Quando gli interventi falliscono può essere per colpa del consulente che non è in grado di comprendere il sapere tacito delle organizzazioni sulle quali va ad operare, ma anche per meccanismi di resistenza al cambiamento che i lavoratori coinvolti, ma ostili ai progetti di consulenza, mettono in atto per evitare di cambiare la propria routine lavorativa (Kipping, Armbrüster, 2001). Le relazioni di potere interne all’equipe di progetto e esterne con l’azienda cliente rappresentano dunque un campo di prova fondamentale per la riuscita degli interventi e spesso si giocano sulla capacità personale e caratteriale del consulente di far fronte alla propria impotenza gerarchica. A ciò si aggiunge l’instabilità della posizione del consulente nei confronti del cliente: basta un cambio del management per vanificare la logica dell’intervento senza che il professionista possa opporvisi.
«Perché ovviamente il consulente è autonomo sul suo lavoro, però è autonomo all'interno della sfera d'azione definita… dall'azienda, se l'azienda restringe questa sfera alla fine anche... anche il territorio all'interno del quale il consulente può muoversi è molto limitato» [Arturo, 31, dipendente]
In conclusione, l’organizzazione è uno strumento fondamentale per il sistema informale di credenziali su cui si basa la consulenza e pertanto i consulenti stessi hanno interiorizzato come forma naturale di esercizio della loro professione i principi della concorrenza e del primato sul mercato. Tuttavia la forma organizzativa che meglio li rappresenta non può essere quella delle normali aziende di produzione, ma ha bisogno di una struttura flessibile che sappia garantire libertà di azione fin dal momento in cui si entra in azienda. Essa si basa sul progetto come modalità di funzionamento e la sua struttura cambia necessariamente a seconda della dimensione della società e dalla posizione relativa del consulente nella gerarchia; ciò determina conseguenze sia nel modo in cui i professioni riescono a svolgere il proprio lavoro e nelle ricadute che questo ha sulla propria vita privata, sia nella relazione che essi sono in grado di instaurare con i propri clienti.