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Le altre interpretazioni di Michelstaedter

1 Introduzione

Dalla morte del pensatore goriziano fino a oggi, molte e – apparentemente – molto diverse sono le letture che si sono avvicendate nel tentativo di comprenderne il pensiero. Il compito è arduo, il terreno ripido e scivoloso. Il rischio di un passo falso costituiva il rischio di percorrere fino in fondo un falso cammino; e quanti passi falsi, da allora!

Ripercorrendo questo secolo di letture, noi non intendiamo rendere testimonianza di tutte quelle che effettivamente hanno avuto luogo. Il lavoro risulterebbe troppo ingombrante nell'economia della nostra ricerca; esso meriterebbe, semmai, un'altra tesi di laurea. Per questa ragione le pagine che seguono sono in debito con tutte le interpretazioni che, menzionate o meno, non ricevono un'adeguata attenzione nello svolgersi del discorso. Tentiamo d'altra parte di indicare l'impostazione della seguente esposizione, di modo che perlomeno si mostri la ragione dell'assenza, in essa, di alcuni tra i tentativi di rendere onore alla figura di Michelstaedter. Poiché si è precisato, all'inizio del capitolo precedente, che la nostra interpretazione ha essenzialmente rivolto lo sguardo al pensiero filosofico di Michelstaedter, è lecito dichiarare sin da subito che la nostra attenzione alle interpretazioni del Goriziano si concentra su quelle più espressamente filosofiche, lasciando gli studi di tipo letterario, biografico, o altro, sullo sfondo. D'altronde, questo non implicherà sempre e necessariamente uno sguardo su tentativi di comprensione del pensiero michelstadteriano dell'essere, il quale pensiero si è trovato a volte accantonato da studiosi che hanno affrontato il giovane filosofo.

Per passare in rassegna le interpretazioni di Michelstaedter noi dividiamo il secolo che ci separa dalla sua morte in tre periodi. Il periodo più propriamente filosofico è a nostro avviso quello centrale, e perciò su di esso concentreremo la nostra attenzione. Il primo periodo lo individuiamo dalla morte del giovane (1910) fino alla pubblicazione delle Opere curata per Sansoni dall'amico Chiavacci. In esso si pongono saldamente le basi per un'incomprensione radicale del pensiero di Michelstaedter; dal decennio “vociano” alle un poco più accurate letture attualistiche o esistenzialistiche, fino alla presa di coscienza e critica di quanto si era sino ad allora detto (A. Testa), va formandosi – o seminandosi – quella (in-)comprensione dei termini del pensiero del Goriziano, che prenderà forma concreta nel periodo successivo. Quest'ultimo, quello centrale, lo individuiamo tra la suddetta edizione delle Opere e gli anni che vedono il frutto del lavoro di Campailla nelle pubblicazioni degli scritti michelstaedteriani per Adelphi. Si va quindi dagli anni 60' agli anni 80' del ventesimo secolo, senza indicare un vero e proprio limite temporale, bensì un

limite contenutistico, ovvero facendolo terminare con l'ultima – a nostro avviso – grande interpretazione del Nostro (Cacciari). Sono questi gli anni delle prime monografie, del prezioso lavoro – come si diceva – di Sergio Campailla e, negli anni 80', della più radicale stagione interpretativa, come si vedrà. Il terzo periodo ci porta dagli anni 80' fino ai nostri giorni. È la stagione che lavora dopo le pubblicazioni Adelphi, e che presenta una buona proliferazione di studi sia monografici che saggistici, ma anche di convegni, i quali però si mantengono, secondo noi, all'interno del terreno preparato dalle interpretazioni del secondo periodo, ovvero, pur presentando a volte taluni elementi innovativi, sotto vari aspetti, non riescono a porsi al di fuori della struttura fondamentale a cui le pur diverse letture del secondo periodo hanno dato forma (per questa ragione, la presente analisi rimarrà in debito con gli studi di questo periodo, che non verranno affrontati).

Orbene, dobbiamo seguire questi tre periodi – cioè le vicende interpretative svoltesi lungo tale triplice periodizzazione arbitrariamente individuata, e della quale non saremmo particolarmente caparbi nel difenderne la validità – per vedere come la filosofia di Michelstaedter sia stata intesa. Risulta altresì necessario precisare sin da ora che il nostro interesse si concentra sul mettere in luce in che modo le varie letture si siano tenute lontane da quella che a noi pare essere la comprensione dell'autentico pensiero michelstaedteriano, quale è stata esposta nelle prime due parti del presente scritto. Bisognerà cioè vedere come il concetto di persuasione non sia mai stato correttamente intravisto, e con esso, i suoi “antagonisti”, l'illusione della persuasione e la rettorica. Di più, ciò equivale all'andare a individuare una costitutiva e dunque perdurante incapacità di tenere distinte l'individualità illusoria, «[...] che afferma una persona, un fine, una ragione: la persuasione

inadeguata»305, e la rettorica, ossia la duplicazione illusoria di quella. Tale cecità, comune a tutte le

letture di Michelstaedter tranne qualche meritevole eccezione che indicheremo, fonda o è coessenziale all'incapacità di vedere il volto della persuasione, scambiandola come la volontà di salvezza, l'atto successivo a deliberazione, la decisione – e via dicendo – del persuaso. Dati questi presupposti, la seguente esposizione risulta costitutivamente viziata – e tale vizio sta in compagnia col debito nei confronti delle letture meno prese in considerazione, ed entrambi nascono dal ventre della violenza costitutiva dell'interpretare in quanto tale306 – da una propria cecità nei confronti di

tutto ciò che è stata la critica sul Goriziano nell'ultimo secolo.

Detto tutto ciò, si può procedere col discorso.

305 PR, p. 53. 306 Cfr, infra, II, 1.1.

2 Michelstaedter interpretato

2.1 Dalla morte alle Opere del 1958

Carlo Michelstaedter muore il 17 Ottobre 1910 a Gorizia. Da subito questa morte viene vista all'insegna dello scandalo307, la morte procurata di un giovane sconosciuto studente. Meno di tre

settimane dopo il vociano Giovanni Papini presenta questo giovane sconosciuto alla cultura italiana, pubblicando su “Il Resto del Carlino” un articolo su di lui308. Questo articolo, sebbene il suo

contenuto sarà più volte e in vari modi rifiutato anche a pochi anni dalla sua comparsa, costituisce uno dei suddetti passi falsi nella storia della critica michelstaedteriana. Ancora fresca è la notizia della morte, tre anni devono passare affinché la prima edizione di PR veda la luce, e Papini, che dichiara esplicitamente di non aver potuto leggere le pagine309, stabilisce una connessione tra il

contenuto di queste e il gesto fatale del Goriziano. «Non garantisco la perfetta precisione di queste idee. Ho tirato un po' a indovinare, compiendo col mio pensiero, che sento vicino al suo, quello di Michelstaedter. Ma credo che il senso sia questo». Michelstaedter non si sarebbe suicidato per una delle tante ragioni per cui gli uomini solitamente si suicidano – salute, condizione economica, etc..- –, bensì solo per accettare fino in fondo le conclusioni del proprio pensiero, per possedere nel momento-vigilia della propria morte, il meglio della propria vita. Il suo sarebbe stato un suicidio

metafisico. A prescindere dalle considerazioni che si possono svolgere su un intellettuale che parla

di pagine a lui sconosciute, è importante notare come Michelstaedter faccia il suo ingresso nella cultura italiana come pensatore dell'azione o di un atto di risposta alla condizione della vita. In altri termini, a prescindere dalla necessaria incapacità del Papini di fondare le proprie considerazioni, l'idea che compare dell'opera ancora non pubblicata di Michelstaedter, è che essa contenga la visione di una condizione dell'uomo, e il successivo delineamento di cosa l'uomo debba fare di contro a tale condizione. Stiamo cioè alludendo al fatto che, sia che l'indicazione pratica appaia come il suicidio, sia che essa appaia come una moralità che deve permanere nella vita, Michelstaedter viene sottoposto all'attenzione del pubblico intellettuale italiano come un pensatore che fornisce, appunto, un'indicazione pratica. Il versante del suicidio è quello senza dubbio più gettonato, e non solo nei primi anni dopo la morte, poiché con tale versante, noi non intendiamo solo il discorso intorno al suicidio come a ciò che Michelstaedter avrebbe proposto all'interno della 307 Cfr. il bel saggio di S. Campailla, Le prime interpretazioni di Michelstaedter, in “Humanitas”, numero dedicato a Carlo Michelstaedter, a c. di Angela Mischelis, LXVI, 5, Settembre-Ottobre 2011, Morcelliana, Brescia, pp. 736- 746.

308 G. Papini, Un suicidio metafisico, in “Il Resto del Carlino”, 5 Novembre 1910, p. 3, poi in Id., Ventiquattro

Cervelli, Puccini, Ancona, 1912, col titolo Carlo Michelstaedter, ora in id., Tutte le opere, nel volume Filosofia e letteratura, Mondadori, Milano, 1961, pp. 817-822.

309 Campailla ipotizza (in S. Campailla, Le prime interpretazioni di Michelstaedte, cit., p. 738) che le notizie riguardo a Michelstaedter Papini le ottenesse da Arangio-Ruiz, vicino all'ambiente dei vociani.

sua opera, bensì anche come l'inevitabile fine di un pensatore che ha scritto ciò che ha scritto, pur non delineando (o magari anche rifiutando) il suicido stesso come risoluzione delle proprie contraddizioni. Gli anni successivi sono comunque espliciti in ciò. Da Trieste, su “Il piccolo della sera”, Silvio Benco sentenzia che, data la mancanza di scopo insita nel pensiero del Goriziano, « […] la conclusione logica che gli si addice è il suicidio. Su ciò non v'è da discutere [...]»310. Non c'è

da discutere sul fatto che Michelstaedter appartenga a quella scuola moralmente malata di giovane ingenuità il cui capostipite è Schopenhauer311. E così si va avanti, tra Cecchi e Borgese, fino a

Curcio, Zaratin, Tilgher, a Gerace, fino all'amico Giannotto Bastianelli, Michelstaedter vive come nichilista pessimista che vede nella morte la soluzione della vita, o che comunque si procura la morte, incapace di continuare nella vita senza crederci312. Chi ha visto Geova deve morire. Certo si

intravvedono delle prime differenze di lettura, come per esempio Tilgher313, il quale non considera

Michelstaedter un schopenhaueriano o un buddhista, bensì come un pensatore il cui ideale è più simile alla grecità calma e tranquilla, e che però non si traduce, come quella, in una rinuncia all'azione, bensì in un attivismo senza progresso e senza divenire, sul quale l'autore non dà che monchi accenni (siamo un mese dopo la recensione della seconda edizione di PR, da parte di Gentile). Una voce più fuori campo sembra essere quella di Amendola314, il quale, all'interno di

un'analisi etica improntata su quella kantiana, parla del giovane goriziano come di un creatore di moralità, e del suo pensiero come una realizzazione di filosofia in biografia. Ma, e questo è quanto interessa a noi, pur nelle diverse e non ancora approfondite letture, Michelstaedter viene pensato come il filosofo di un fare, di un riscatto della vita che può avvenire come no. Tali letture sono però a ben vedere larvali, così come insufficiente è lo stato della pubblicazione degli scritti di Michelstaedter. Nel 1922 esce una nuova edizione di PR presso l'editore Vallecchi di Firenze, contenente anche le appendici critiche inedite su Platone e Aristotele. Giovanni Gentile recensisce a questo punto l'opera del Goriziano su “La critica”315. Sebbene questa recensione veda, nell'opera

michelstaedteriana, più «[...] che una filosofia, […] una personalità filosofica», poiché non c'è «[...] né approfondimento metodico, quale può farsi attraverso la storia della filosofia, né sviluppo sistematico»316, senza dubbio essa rappresenta, nella storia delle letture di Michelstaedter, il primo

approccio – pur scarno – filosofico al testo, se non altro per l'autorità di colui che vi si approccia. 310 S. Benco, Il suicidio filosofico, in “Il Piccolo della sera”, 10 agosto 1913.

311 Cfr. ibid.

312 Per i riferimenti si rimanda alla bibliografia presente in conclusione del nostro scritto. 313 Cfr. A. Tilgher, C. M., in “La stampa”, 23 dicembre 1922.

314 Cfr. G. Amendola, Etica e Biografia, Studio editoriale lombrado, Milano, 1915, pp. 165-177.

315 G. Gentile, Carlo Michelstaedter. La persuasione e la rettorica, in “La critica”, XX, 4, 20 novembre 1922, pp. 332- 336, leggibile oggi in “Humanitas”, numero dedicato a Carlo Michelstaedter, cit., pp. 913-916 (edizione da cui citeremo).

L'esposizione un po' alla rinfusa dei concetti michelstaedteriani ci rivela però l'incapacità di Gentile di individuare la loro vera struttura, ossia di tenere distinte la persuasione illusoria e la rettorica, ragion per la quale l'arte (o il dio) della φιλοψυχία viene scambiato per la rettorica (si è visto come la rettorica sia invece la duplicazione dell'illusione della persuasione che segue il dio della φιλοψυχία). Certo, il Gentile vede che la rettorica è il pensiero «[...] che sdoppia il sapere e la vita […] quel sapere che spunta nei dialoghi senili di Platone»317, ma non è appunto in grado di vedere

tale duplicazione della vita, uno dei due poli, ossia dell'illusione della persuasione. Sicché la persuasione si riduce a essere contrapposta alla rettorica così (confusamente) intesa, e per tale confusioni Gentile riesce a cogliere solo qualche accenno, qualche aspetto fuggitivo che l'autore si contenterebbe di additare. In ogni caso, la persuasione rimane un certo «[...] se stesso, a cui conviene afferrarsi, per redimersi dal tempo e resistere alle voci allettatrici del futuro»318.

Ma è sbagliato pretendere da uno scritto così breve una profonda indagine del significato del pensiero michelstaedteriano, né ci pare lecito chiederlo alle pagine che Ugo Spirito gli dedica, sebbene un po' più esaustive319. Spirito riconosce al libro di Michelstaedter «[...]un alto valore

pedagogico», tale in quanto è capace di «[…] scuotere profondamente l'animo del lettore e a richiamarlo a una consapevolezza intima del significato della vita»320, ma poi travisa completamente

questo significato (la persuasione), da una parte lasciando indistinte, come Gentile, illusione mortale e rettorica, e dall'altro concependo la persuasione come un che di attingibile una volta per tutte, come uno status che prima non si ha, ma che una «[...] volta attinto, esso è completamente definitivamente realizzato, e in esso la vita si puntualizza del tutto adeguata a se stessa»321. Pensata

la verità di michelstaedter in questo modo, a Spirito risulta facile muoverle contro il tipico argomento idealistico322 che vede nel mondo contrapposto alla persuasione, la rettorica, un residuo

di realismo ingenuo, in quanto pensiero di una realtà preformata che sta di fronte all'individuo come limite indistruttibile.

Sempre tra le pagine del “Giornale critico della filosofia italiana” appare, due anni dopo gli scritti di Gentile e Spirito, un saggio del grande amico di Michelstaedter a Firenze, Gaetano Chiavacci323. Quest'ultimo è sicuramente una delle persone più vicine a Michelstaedter e al suo

pensiero, in quanto ne ha potuto seguire lo sviluppo. In tale saggio si vede infatti una prima lettura 317 Ivi, p. 915.

318 Ivi, p. 916.

319 Cfr. U. Spirito, recensione a La persuasione e la rettorica, in “Giornale critico della filosofia italiana”, I, 1922, 3, pp. 395-404, poi col titolo Carlo Michelstaedter in id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Le Monnier, Firenze, 1930, pp. 241-254 e poi Bulzoni, Roma, pp. 211-221 (edizione da cui citeremo).

320 Ivi, p. 216. 321 Ivi, p. 218.

322 Cfr. A. Testa, Michelstaedter e i suoi critici, in “Rassegna di filosofia”, II, 1953, p. 358.

323 G. Chiavacci, Il pensiero di Carlo Michelstaedter, in “Giornale critico della filosofia italiana”, V, 1924, n. 1, pp. 36-48 e n. 2, pp. 154-168.

più seria dell'opera, più vicina al testo ancora troppo trascurato; eppure, uno dei più grandi travisamenti vi è nascosto. Bisogna innanzitutto dire che Chiavacci è in grado, nella sua lettura, di tenere l'illusione mortale separata dalla rettorica, la quale si presenta come duplicazione dell'elemento irrazionale della prima. Infatti la vita è «[...] immediatamente coscienza correlativa, […] è individualità illusoria»324, mentre la rettorica è l'inadeguata «[...] affermazione di sé, che

raddoppia l'elemento irrazionale della vita»325. Ma questa buona comprensione della pars destruens

del pensiero michelstaedteriano rimane in realtà affetta dalla stessa confusione in cui cadeva Gentile, in quanto Chiavacci non riesce, considerando l'immediata illusorietà della vita, ad attenersi a questo suo carattere illusorio (cioè non vero), e perciò vede nella persuasione non la vera conoscenza dell'illusione per ciò che essa è – illusione –, bensì lo sviluppo spirituale, imperniato sul dolore, attraverso il quale l'uomo riesce a creare se stesso in quanto gioia. «Il positivo di Michelstaedter è l'attività che crea se stessa dal nulla e perciò senza condizioni, e in ciò che postula la propria infinitezza, la attua e nega perciò in atto ogni determinazione»326. Ecco qui la fallacia! La

persuasione non è l'eterna condizione dell'uomo, nella quale egli non vive (crede di non vivere) poiché cieco nei suoi confronti, e convinto di vivere tra le determinazioni che vengono e vanno; essa è invece un positivo che dev'essere creato dal nulla. La persuasione è nulla, secondo Chiavacci, prima dello sviluppo spirituale dell'uomo che assume su di sé il peso del proprio dolore. In questo modo essa non può però essere un'eternità raccolta e intera. Essa deve nascere, così come nasce il mortale. Certo, per Chiavacci è sbagliato dire che la persuasione sia l'attimo che precede la morte, come alcune espressioni michelstaedteriane hanno fatto intendere ai suoi lettori: «Esse [le espressioni di morte] non sono un'invocazione alla morte: la vita e la morte sono indifferenti a chi attui in sé la vera vita. L'ultimo presente non è un ultimo cronologico, ma è di chi viva ciascun istante come l'ultimo»327; ma prima della persuasione, ammesso che essa si attui, c'è comunque il

nulla, essa viene creata dal nulla. D'altra parte Chiavacci sembra aver intravisto un significato della persuasione che nega quello da lui esposto nelle pagine precedenti, e pare più vicino a quello che ne abbiamo dato nella nostra interpretazione, quando dice, quasi alla fine del suo saggio, che Michelstaedter «[...] ha quel piglio severo e intransigente che a qualcuno è dispiaciuto nella

Persuasione, perché chi scrive quel libro non è più un uomo che parli ad altri uomini: è la profonda

324 Ivi, p. 39

325 Ivi, p. 42. Riteniamo convincenti anche gli argomenti con i quali il Chiavacci “difende” il pensiero del Goriziano dalle accuse – secondo lui tutte riconducibili al fatto che la persuasione non riesce ad essere l'Atto di cui parla l'idealismo attuale –, in quanto riconosce a Michelstaedter di aver visto «[...] che la dialettica che conduce dal finito all'infinito, per realizzarsi, deve essere l'intimità del nostro crear noi stessi reagendo al finito, e che perciò ogni tentativo per rendere obiettiva questa realtà non solo riesce vano, ma ne distrugge la possibilità» (ivi, p. 41), dove tale distruzione sarebbe anche il punto debole dell'attualismo, per il quale l'Atto (il soggetto) diventa oggetto di teoria.

326 Ivi, pp. 155-156. 327 Ivi, p. 162.

voce della coscienza di ciascuno di noi, della quale il Michelstaedter con ardimento inaudito ha preso senza esitare la persona»328. Qui sembra proprio che Chiavacci alluda alla persuasione come

alla vera tra le due anime che abitano il nostro petto329, che il giovane di Gorizia averebbe saputo

prendere (contemplare) onestamente. Ma non vi è segno che il critico permanga in questa idea della persuasione, la quale è piuttosto vista nel modo che abbiamo sopra esposto. Conferma di ciò vi è, a nostro avviso, anche nella conclusione del suo saggio in cui il suicidio del Nostro viene spiegato con un ragionamento che, a ben vedere, costituisce l'altra faccia della medaglia del suicidio filosofico330. Anche dal confronto con l'amico Chiavacci, dunque, la persuasione ne esce – pur nel

rifiuto del suo rendersi oggetto teorico – come indicazione di un'azione, di uno sviluppo dell'uomo, grazie al quale egli viene a godere di una gioia che prima non era.

Dopo queste esperienze si apre una stagione di relativo silenzio su Michelstaedter. Si può notare il bel saggio di Superchi331, il quale, nonostante dia una buona esposizione dell'opera,

permane nella ormai ben conosciuta confusione dei termini del pensiero michelstaedteriano, vedendo poi in esso una evidente contraddizione. Egli infatti vede la persuasione come una via di guarigione, la possibilità di un bene che gli permette di superare il “nullismo morale” di Schopenhauer (non alla maniera di Zarathustra, cioè con il dionisiaco e straripante affermarsi della volontà di potenza332), del quale però Michelstaedter sembra non dare spiegazione. Come fare per

attingere questa vita vera? «[...] chi ascolti la parola del M., come egli ha infatti preveduto, non può fare a meno di arrestarsi dubbioso. La continuità di consenso logico sembra con questa domanda spezzarsi: sentiamo che proprio qui si esige una spiegazione, che il M. non dà»333. D'altronde

Michelstaedter si trova secondo Superchi preso tra il rifiuto di qualsiasi prassi umana e il vagheggiamento di un'attività infinita come dovere incondizionato, senza saper dare vera forma alle proprie idee perché il pensiero è affetto da una grave contraddizione, stante nella contaminazione del valore razionale (eleatico) con l'esigenza di una sua attuazione nella vita, la quale è invece sempre valore irrazionale. Il suo diventa semplice rifiuto: anti-razionalismo, anti-gnoseologismo, anti-tutto, e da ottimista che era (avendo superato Schopenhauer), egli diventa profondo pessimista.

Si deve poi far cenno alla lettura del cristiano Moretti-Costanzi334, premettendo però che la

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