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2 La verità (e l'errore) dell'essere

2.1 A partire dalla lettura severiniana di Michelstaedter

Per andare a scoprire se la tesi, secondo la quale Severino e Michelstaedter hanno lo sguardo rivolto allo stesso, è vera, si possono adottare molti punti di partenza sia dall'uno che dall'altro lato. Dopo una rapida ricognizione, si è ritenuto più consono partire dal luogo in cui Severino, pur brevemente, tratta il “caso” Michelstaedter. Questo luogo è la postilla al capitolo ventesimo del libro La strada154. In queste pagine, a poco tempo dalla pubblicazione Adelphi di PR, Severino

prende in considerazione Michelstaedter anche – forse non solo – a causa dell'accostamento che l'editore del Goriziano, Sergio Campailla, ha fatto dei due pensatori. Egli aveva in fatti parlato, in riferimento alla filosofia michelstaedteriana, di un'anticipazione «[...] su certe tendenze del pensiero contemporaneo (si pensi alle posizioni di Emanuele Severino)» la quale «[...] si prefigura come un ritorno a Parmenide»155. L'allusione è del tutto esplicita.

Severino coglie la palla al balzo per stendere il suo giudizio sul Goriziano. Il suo pensiero sarebbe un travisamento smisurato del senso del pensiero parmenideo, in quanto l'eternità dell'essere sarebbe da lui semplicemente asserita e, in quanto lasciata priva di fondamento, priva della propria ragione, rimarrebbe un ché di voluto, divenendo un postulato della ragion pratica attraverso il quale l'uomo – il persuaso – riuscirebbe a riscattare la propria esistenza dalla condanna a rincorrere sempre invano il proprio essere.

Ma il segnale più netto [dell'equivoco della vicinanza che Michelstaedter pone tra sé e Parmenide] è la completa assenza, nelle pagine di Michelstaedter, della ragione in base alla quale Parmenide ha enunciato la sua tesi di fondo: che l'essere è immutabile e che il divenire del mondo è soltanto illusione.[...] Anche in Michelstaedter manca ogni dimostrazione dell'immutabilità dell'essere di Parmenide, perché anche lui vuole che l'essere sia immutabile, eterno, uno, compiuto, perfetto, dio156.

153 I due testi più completi sono: Nicoletta Cusano, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana, Brescia, 2011 e Giulio Goggi, Emanuele Severino, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2015.

154 E. Severino, La strada, Rizzoli, Milano, 1983, pp. 244-247. 155 S. Campailla, Introduzione a PR, cit., p. 19.

In quanto il goriziano non dice la ragione per la quale l'essere è eterno, egli vuole tale eternità, e con ciò vuole la liberazione dalla vita che rincorre invano il proprio essere, cioè la liberazione dalla volontà. Ma è proprio vero che Michelstaedter non dà questa ragione dell'eternità dell'essere? Che cosa vuol dire dare ragione? E qual è questa ragione? Bisogna procedere con molta cautela.

Partiamo dall'ultima domanda: la fondazione dell'eternità dell'essere, o dell'ente in quanto ente, la verità dell'essere insomma, occupa il centro degli scritti di Severino a partire da SO; ma il suo fulcro era già apparso in un saggio del 1956 intitolato La metafisica classica e Aristotele. Se ne legga un passo: «Ma la negazione del divenire scaturisce immediatamente dall'autentico principio di Parmenide: l'essere è. Se l'essere diviene – se il positivo sopraggiunge – l'essere, prima di sopraggiungere, non era: ed è appunto questo l'assurdo, o è appunto questa la definizione dell'assurdo: che l'essere non sia»157. Testimoniare la verità dell'essere, dopo questo scritto, significa

per Severino rimanere sempre fedeli a tale principio di Parmenide o, se si vuole, al valore ontologico (più ampio possibile) del principio di non contraddizione, per il quale l'essere è e non può non essere. I riferimenti, all'interno dell'opera severiniana, possono essere sterminati. Ci si può dunque limitare alle righe molto esplicite di Ritornare a Parmenide (un saggio cardine all'interno della produzione del Bresciano, pubblicato nel 1964 “Rivista di filosofia neoscolastica”, e successivamente raccolto in EN), dove la verità dell'essere riceve una delle sue prime e più cristalline esposizioni:

L'immutabilità dell'essere è posta da Parmenide mediante questa sola considerazione, che tocca il fondo ultimo della verità dell'essere: se l'essere diviene (si genera, si corrompe) non

è (οὐχ ἔστι). E questo va detto dell'essere in quanto tale, sia cioè che lo si consideri come la

totalità del positivo, sia che lo si consideri come questa povera cosa banale che è questa penna […] il che significa che per noi ogni cosa, per quanto spregevole, se è una cosa, è eterna158.

Se si pensa che le cose provengono dal nulla e nel nulla ritornano, allora si pensa un tempo in cui una cosa, un ente, l'essere non è. Che l'essere non sia è però, come visto, la definizione dell'assurdo, la contraddizione pura e semplice, dunque l'essere non si genera né corrompe, cioè è 157 E. Severino, La metafisica classica e Aristotele, in id., Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano, 2005, p. 117. In nota (pp. 117-118) Severino precisa: «È sufficiente la lettura del celeberrimo frammento 8 (Diels, Die

Fragmente der Vorsokratiker) per accertare che l'affermazione dell'immutabilità dell'essere è basata

sull'affermazione che l'essere è e non può non essere. Il motivo per cui l'essere non è generato, non sopraggiunge, è,

semplicemente, che “non si può dire o pensare che non sia” (vv. 12-13). E più innanzi (v. 24) si ribadisce che se

l'essere “fosse venuto all'esistenza non è, e neppure se è per essere nel futuro». 158 EN, p. 28.

eterno. Eterna ogni cosa. Al principio di non contraddizione riconosciuto nel suo valore ontologico compete ciò che già Aristotele ne rilevava159, pur non riconoscendone tale valore, ovvero che esso

non abbisogna di dimostrazione, in quanto il suo valere si fonda esclusivamente sul fatto che chi intendesse negarlo si ritroverebbe necessariamente ad affermarlo, e che dunque qualsiasi sua negazione è necessariamente autonegazione, cioè non riesce a porsi160. La filosofia è la

testimonianza del senso dell'essere, ed è dunque il linguaggio che esprime l'innegabile o incontrovertibile opposizione dell'essere al nulla. In quanto tale linguaggio testimonia l'innegabilità dell'essere, esso stesso si presenta come innegabile; o anche, in quanto la verità dell'essere è progressivamente portata nel linguaggio che ne testimonia il destino161, tale linguaggio è innegabile.

Che l'essere non possa non essere significa che esso è eterno162.

Questa è dunque la Ragione per cui si deve affermare che l'essere è eterno. Il linguaggio che accoglie in sé questa testimonianza è dunque verità, sapere incontrovertibile. Ma che qualcosa sia linguaggio, e che questo linguaggio testimoni la verità dell'essere – questo fatto, è verità?

2.2 Testimoniare, dare ragioni

Il linguaggio testimonia il destino della verità dell'essere. Eppure il linguaggio è interpretazione, è volontà che certi eventi abbiano un senso, e che questo senso rispecchi la verità dell'essere. La volontà vuole che alcuni eventi siano testimonianza dell'impossibilità della volontà (essendo quest'impossibilità implicata dalla verità dell'essere). Il linguaggio è volontà, negazione della verità dell'essere; eppure, ciò che il linguaggio indica – la verità appunto – è il totalmente

altro dalla volontà, che mostra quest'ultima nella sua impossibilità. In quanto ciò che indica è

l'innegabile, l'essere, il linguaggio è custode della verità. Ma in quanto il linguaggio è linguaggio, esso è non verità, errore, isolamento163. «La volontà di parlare della verità non appartiene alla

159 Cfr. Aristotele, Metafisica (IV), 1006 a, a c. di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2000, p. 145 e sg. Secondo Severino, come si può intuire, la stessa concezione aristotelica del principio di non contraddizione è contraddittoria. Quella fondamentale contraddizione (o negazione della verità dell'essere) all'interno della quale si sviluppa tutta la storia del pensiero occidentale, cfr. EN, p. 21 e sgg.

160 Per l'analisi dettagliata del valore dell'ἔλεγχος si veda EN, pp. 40-58.

161 Per il significato di questa parola, destino, all'interno degli scritti di Severino cfr. DN, pp. 131-133, ma in generale tutto il libro DN.

162 Nell'ultima sua pubblicazione Severino presenta una cosiddetta “fondazione ulteriore” dell'eternità dell'ente, secondo la quale tale eternità si fonda sull'eternità della struttura originaria (l'innegabile apertura originaria del senso, di qualsiasi senso, cfr. SO, cap. 1), ovvero è da essa implicata. Tale fondazione si presenta come ulteriore, poiché «[...] l'eternità della struttura originaria può implicare l'eternità del Tutto solo perché, appunto, tale struttura è eterna; e che essa sia eterna è pur sempre fondato dalla fondazione primaria dell'eternità» (DK, p. 131). Basti però questo accenno a tali approfondimenti, poiché essi non interessano direttamente la nostra cosa; cfr. DK, parte seconda e terza.

163 Cfr. per esempio DN, p. 547: «La testimonianza del destino – il linguaggio mortale che sopraggiunge nel cerchio dell'apparire come il piedistallo su cui è posto il destino – non è linguaggio mortale solo perché le parole alle quali esso dà un senso inaudito sono parole mortali, ma, fondamentalmente, perché esso dà un senso alle proprie parole. “Dare un senso” significa decidere che certi eventi siano il piedistallo e l'immagine di un senso», o anche GLO, p. 465: «Per volere che qualcosa sia segno e qualcos'altro designato – per volere che qualcosa sia altro da ciò che esso

verità»164. D'altra parte, se pur il linguaggio che testimonia il destino è alienazione – non verità –, in

esso, l'alienazione appare come tale165. La ragione è di per se stessa l'innegabile. Il linguaggio che la

vuole testimoniare è in quanto tale alienazione, cioè non-ragione; ma il suo contenuto indica il

senso innegabile della ragione, dell'eternità dell'essere. In questa impasse si trova il proposito o la volontà di dare ragioni. Siamo dunque alla seconda delle domande poste più sopra166.

Ritornando al Nostro, bisogna comprendere se per lui si possano dare ragioni. Ebbene lungo il commento si è visto che per Michelstaedter il dare ragioni è in quanto tale figura dell'illusione della volontà, la quale si fonda costitutivamente sull'isolamento del voluto dalla totalità di ciò a cui è legato167. Voler dire la persuasione – l'essere – mediante delle ragioni, ovvero mediante un

linguaggio che si presenti come contenente la ragione per cui l'essere è eterno, è pur sempre un volere, ovvero isolamento, illusione della persuasione. I passi citati di Severino (e tanti altri se ne potevano citare), nei quali egli mostra rigorosamente come il linguaggio in quanto tale, ovvero anche quello che testimonia il destino della verità, sia isolamento, non verità – questi passi, queste parole, ci aiutano a comprendere perché Michelstaedter ritenga impossibile il persuadere, quale intento del suo parlare (cioè del suo dare senso linguistico a degli eventi della propria vita), ma anche perché la via alla persuasione non sia corsa da “omnibus”. Il parlare e il linguaggio sono anche per Michelstaedter isolamento. L'incontro con le sue parole (la lettura del suo testo), così come il loro nascere e svilupparsi (la stesura del testo), sono figli della volontà interpretante per cui alcuni eventi sono assunti come linguaggio che testimonia la persuasione. La persuasione è la negazione del tempo e della volontà in ogni momento deficiente168. Il linguaggio che vuole

testimoniare la persuasione è volontà, dunque non verità, illusione della persuasione. Ciò implica che, agli occhi del Goriziano, chiedere la ragione per la quale l'essere eterno è chiedere la negazione dell'essere eterno. Non si può chiedere questa ragione, non si può dare. Pensare di darla è persuadersi di averla data, un fare per aver fatto169, un agire che è in quanto tale negazione

dell'eternità dell'essere.

D'altronde non ci si può evidentemente limitare a queste considerazioni, e il testo del Goriziano non lo richiede. Infatti, è certamente vero che il dare ragione è in quanto tale non verità e dunque, con le parole del giovane, irrazionalità. Eppure, se egli può dire questo – se egli cioè può è – il linguaggio deve isolare il qualcosa dalla sua relazione con la totalità degli essenti, dunque deve isolarlo dal suo esser sé e pertanto dal destino della verità. Se non lo isolasse – se questo isolamento non apparisse – non potrebbe volerlo come segno e come designato, cioè come altro da ciò che esso è. L'isolamento è il fondamento dell'impadronirsi delle cose: ci si può impadronire solo di ciò che è isolato».

164 OL, p. 157. 165 Cfr. DN, p. 548.

166 Cfr. infra, p. 113: «Che cosa vuol dire dare ragione?». 167 Cfr. PR, pp. 45-52, 76-77, 104 e infra, pp. 31-40, 55, 71-72. 168 Cfr. PR, p. 44.

dire che l'errore è errore – ciò avviene perché egli ha lo sguardo rivolto a ciò che non è errore, alla verità dell'essere appunto. Perché l'errore è errore e la verità è verità se il dire tale perché è un non essere nella verità? Non siamo in un circolo vizioso? Guardiamo tutto ciò più da vicino.

2.3 L'errore (e la verità) dell'essere

Dare la ragione dell'essere o della sua eternità significa essere nell'errore. Eppure il Goriziano ne parla. Che cosa ci dice della verità e dell'errore? Lo si è già visto, la verità o vita autentica è la persuasione, mentre l'errore o vita inautentica è l'illusione della persuasione. Si lasci per un momento da parte il rapporto tra rettorica e illusione della persuasione, e assumendo quest'ultima come la negazione essenziale della persuasione, si proceda con l'esposizione del suo senso. Ebbene, Michelstaedter ci dice che la vita dell'uomo è in quanto tale illusione della persuasione170. Che cosa

significa ciò? Significa che l'uomo è essenzialmente, in ogni attualità, una volontà determinata che guarda al futuro, rincorrendo il proprio essere. Egli è volontà di vita. La manchevolezza del e nel presente è per questa ragione il motore principale di questa sua modalità di vita. In quanto l'uomo si sente manchevole nel presente, egli vuole un futuro che soddisfi la sua richiesta attualmente non soddisfatta, e dunque vive le cose esclusivamente come utili o meno a produrre il futuro. Di più, egli vive se stesso come utile o meno, cioè come capace o incapace di produrre o dominare il futuro. Tutto ciò si basa sull'isolamento del voluto. La vita della volontà è costitutivamente vita di un isolamento perpetuo dell'ogni-volta-voluto dalla totalità delle cose che pur se stesse permangono171.

Nel riconoscimento di un'identità sottostante alle sempre diverse determinazioni volute, l'uomo vede affermato il proprio essere e conseguentemente l'essere del mondo (cioè della totalità delle cose volute – volute nel senso che sono conosciute, dunque isolate, come utili o meno alla produzione del futuro). «È lui ed è il mondo»172. In quanto vive così, l'uomo afferma l'essere di ciò

che è; appunto di sé e del mondo. Ciò di cui egli afferma l'essere è per lui la realtà con cui egli ha

sicuramente a che fare, le cose che sono, «[...] sono l'unica realtà assoluta indiscutibile»173. Questa

la vita dell'illusione, in cui le cose sono cose in quanto utili o meno a produrre il futuro voluto, ovvero a rinviare l'incontro con la morte che pur rimane un ché certamente di là da venire. Questo il senso della cosa, delle cose in quanto cose, all'interno dell'illusione della persuasione: essere degli isolati che si rivelano più o meno utili alla continuazione di colui che si crede soggetto174.

170 Per la comprensione concreta di quanto viene nelle prossime righe solo sinteticamente esposto si tenga presente il secondo capitolo della prima parte di PR, L'illusione della persuasione, e il relativo commento, cfr. infra, pp. 24-49. 171 Cfr. PR, p. 68: «Ma il sole splende, l'aria è pura, tutto è come prima [...]».

172 Ivi., p. 52. 173 Ibid.

174 Questo è, lo si ricordi, il significato del dio della φιλοψυχία, ovvero del piacere in quanto senso di tutte le cose per il soggetto che si finge persuaso. Cfr. anche PR, p. 69: «Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare».

Bisogna dunque chiedere perché questo senso della cosa sarebbe illusorio o, da ultimo, un errore. In apertura del capitolo L'illusione della persuasione Michelstaedter cita alcuni versi del poema parmenideo Sulla natura; precisamente i vv. 6-9 del frammento 6. Con questa citazione il filosofo intende introdurre il discorso riguardante l'illusione della persuasione, riguardante cioè la vita dell'uomo o del mortale in quanto tale. Ciò che infatti Parmenide dice di questi uomini a due teste è quanto Michelstaedter vede di problematico nel loro vivere; il nostro commento aveva inoltre precisato che la contraddizione ontologica in cui vivono gli uomini (il loro oscillare tra l'identità e l'opposizione di essere e non essere) costituisce «[...] l'obiettivo di ogni critica determinata alla loro modalità di vita»175. Ogni volta che Michelstaedter critica in modo determinato

uno o un altro aspetto della vita mortale, egli ha di fronte questo errore fondamentale dell'essere mortale. L'essere mortale è il vivere le cose in modo erroneo, illusorio. Il senso di ogni cosa in quanto cosa, così come esso accade nella vita della volontà, è illusione. Ma, di nuovo, perché?

Generalmente si è abbastanza disposti a concedere che l'interlocutore principale del Goriziano, in merito alla persuasione, sia – oltre a Socrate – Parmenide. Questo lo concede anche Severino. Non si è però ancora stati in grado di fare i conti concretamente con tale centralità. Parmenide suggerisce a Michelstaedter quale sia la verità – l'eternità dell'essere – e quale sia l'errore – l'oscillazione tra l'opposizione e l'identità di essere e non essere. Fin qui tutto a posto. Si può proprio dire che il giovane filosofo non abbia avuto di fronte agli occhi il vero significato di queste due istanze, di queste due vie, l'una necessaria e l'altra impercorribile? Volgere lo sguardo agli appunti michelstaedteriani sul Parmenide può forse darci una mano a sciogliere questo dubbio.

Commentando alcuni versi dal poema di Parmenide Michelstaedter scrive quanto segue:

L'essere è immutabile […] Gli uomini che attribuiscono essenza a una cosa determinata le negano essenza quando è mutata secondo la sua natura. Il mutarsi era implicito nella sua natura, il non essere (sec[ondo] l'opinione) implicito nell'essere (sec[ondo] l'opinione). Gli uomini, quando dicono “questa cosa è” (che domani non sarà più), identificano essere e non essere. E nello stesso tempo fanno differenza fra l'essere d'oggi e il non essere di domani e dicono “ora questa cosa non è più”176.

Non si dovrà forse riconoscere in queste parole il senso più profondo della critica michelstaedteriana alla vita mortale? E cosa ci dicono queste parole? Esse ci dicono che il senso delle cose in quanto cose nella vita della volontà è una contraddizione: l'identificazione di essere e 175 Infra, p. 25.

176 C. Michelstaedter, L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, a c. di David Micheletti, Diabasis, Reggio Emilia, 2005, p. 85.

non essere. Michelstaedter ci mostra che il problema di questo pensiero è che per esso le cose prima sono, e poi, mutando (divenendo altro), non sono più. Noi possiamo tranquillamente aggiungere, a questo punto, che l'errore sta nel pensare che le cose prima non sono, poi sono, e infine tornano a non essere. Le cose vengono dal nulla e ritornano nel nulla. Questo è però l'impossibile, perché con ciò si acconsente a pensare un tempo in cui le cose, gli enti, non sono: «[...] e dicono “ora questa cosa non è più”». Michelstaedter sa perfettamente che tale pensiero, l'identificazione di essere e non essere, è l'impossibile, l'assurdo; infatti in queste righe egli sta commentando i versi di Parmenide (vv. 35-40 Mullach; fr. 2, 3-8 e fr. 3, Diels-Kranz) dove ciò che non è viene detto inconoscibile e inesprimibile. Gli uomini pensano la cosa in quanto cosa come ciò che viene dal nulla e ritorna nel nulla. Il Goriziano lo ribadisce nel secondo foglio degli appunti sul Parmenide:

[Le cose periture, fin tanto che non siano perite, agli uomini sembrano essere, dopo che invece sono perite, non essere. Essere e non essere ora per quelli non sono la medesima cosa, ora invece la medesima quando dicono che l'ente è una cosa peritura].[Per loro essere e non essere lo stesso e non lo stesso vanno considerati: perciò di tutte le cose c'è un sentiero che torna indietro]. Le cose periture sono per loro cose appunto in quanto sono periture, in quanto sono relative177.

Le prime righe, quelle in latino, compaiono anche nella seconda delle appendici critiche a PR178. Dunque, le cose che divengono sono le cose che possono non essere, e che quindi sono non

essere. Le cose sono nulla. Il mutamento (il divenire altro) è da Michelstaedter in altri luoghi designato come la ragione per cui le cose, così considerate – o vissute, e il viverle così è proprio della vita della volontà –, sono niente. Si pensi alla nota 1 del primo paragrafo (Modo diretto) della prima appendice critica (I modi della significazione sufficiente): «Attribuire questo “è” al “questo” – è indicare una negazione (privazione) di mutazione»179. O anche nelle pagine in cui

Michelstaedter analizza la morte dell'uno – della verità – nella filosofia platonica (pagine che nel prosieguo del presente scritto riceveranno l'attenzione che meritano): «Infatti: non è più il μὴ ὄν*

che si sia trasmutato in ἕτερον* che l'ὄν* stesso: poiché altro non v'è nel dire molteplice che le

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