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2. IL FENOMENO DEL PROFUGATO

2.3 Le condizioni materiali

nell’impossibilità di poter sostenere una spesa costante così elevata, con il Decreto Legislativo n. 851, decise la soppressione graduale del sussidio ordinario: in luglio sarebbe stato pari ad 1 lira al giorno, ad agosto sarebbe stato dimezzato e a settembre, soppresso in via definitiva.52 Sta di fatto che il risultato di questa misura, largamente impopolare in un momento di gravissima difficoltà per i profughi – i prezzi dei generi di prima necessità erano “saliti alle stelle” e molti (come farina, latte, carne, sale) erano introvabili – , furono una lunga serie di fortissime proteste nel corso dei due mesi successivi, fino a quando, con il nuovo Decreto legislativo del 13 settembre 1918, il sussidio ordinario venne ripristinato, ma insieme a misure molto più restrittive che in passato: sarebbe stato concesso solo ed esclusivamente alle famiglie realmente bisognose, che avessero un reddito inferiore alle 200 lire mensili, oppure a quelle in cui vi fossero persone inabili a carico (anziani o malati), infine fu previsto un supplemento a vantaggio di quelle famiglie che ne avessero diritto sulla base di determinate condizioni (salute, età, inabilità al lavoro).53

2.3 LE CONDIZIONI MATERIALI

2.3.1 Gli alloggi

Uno dei problemi maggiori che dovettero affrontare le autorità che si occupavano dello smistamento dei profughi fu l’assegnazione degli alloggi. Oltre ai tradizionali alberghi, case private in affitto, la sistemazione presso case abbandonate dalle popolazioni locali; altrettanto frequente fu il collocamento in edifici scolastici, locali di proprietà comunale, conventi, monasteri, stabilimenti industriali, etc. La maggior parte di essi si trovavano in condizioni inaccettabili in una situazione normale, ma, non essendovi altre soluzioni, non restava che “accontentarsi” di avere un tetto dove poter ripararsi e, molto spesso, doverlo condividere con altre persone – ovviamente con gravi problemi di sovrappopolamento e di convivenza –. Questo era per l’unico modo per riuscire a pagare degli affitti troppo elevati rispetto alle proprie disponibilità economiche.

Vengono proposti alcuni esempi per comprendere quali fossero le condizioni materiali dei profughi delle “Terre Invase”:

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Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, pp. 106-108 53

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Molte famiglie vivono in vere tane: l’alloggio è costituito da una sola stanza a piano terra, che riceve aria e luce soltanto dalla porta, mancando le finestre.

Il piccolo locale è ingombro della scarsa e insufficiente mobilia, sul pavimento umido e fangoso stanno i bambini nelle giornate fredde o di maltempo.

(profugo veneziano a Chieti)

A noi toccò una stanza di tre metri per quattro e un corridoio lungo tre metri e largo un metro e mezzo. La stanza era una cucina e un soggiorno e, di notte, una camera da letto perché buttavamo un materasso per terra e dormivamo. Ci era stata assegnata anche un'altra stanza, ma non aveva vetri alle finestre e quindi era inutilizzabile.54 (profugo alla periferia di Avellino)

Un’altra possibilità era la colonia: un’istituzione particolarmente vantaggiosa sia a favore dello Stato che per i profughi, perché il primo aveva la possibilità di svolgere con

maggiore facilità il censimento, il soddisfacimento delle esigenze dei profughi, il loro collocamento al lavoro e controlli socio-sanitari; i secondi, potevano ottenere

direttamente il sussidio senza dover incorrere in problematiche burocratiche di qualunque genere e, soprattutto, ricevere un contingentamento speciale dai Consorzi granari, che ai semplici civili non veniva concesso.

2.3.2 L’assistenza sanitaria

L’assistenza sanitaria era un’altra attività molto importante la cui gestione spettava allo Stato, il quale, in realtà, molto raramente si dimostrò efficientemente presente.

Già nel corso degli interminabili viaggi in treni eccessivamente sovraffollati, molte persone – soprattutto le più fragili e debilitate – persero la vita, ma soprattutto

quest’ultimi divennero dei luoghi malsani dove era molto facile contrarre e diffondere

malattie; lo stesso valeva per gli alloggi privati, dove sporcizia, incuria e batteri “la facevano da padroni”. Se a tutto ciò si aggiunge il fatto che i profughi mangiavano

molto poco ed in modo totalmente inadeguato e che medici e medicinali erano

una rarità, si può comprendere molto facilmente perché la mortalità mensile tra i profughi fosse davvero elevata – in media era pari al 6%, ma che nei bambini saliva

al 15% –.55

Per cercare di trovare un’efficace soluzione alle pessime condizioni sanitarie dei profughi ospitati in tutta la penisola, il 10 gennaio 1918 l’Alto Commissariato istituì una commissione sanitaria consultiva e, successivamente, fu stabilito che tutti i profughi poveri avessero diritto a cure mediche e medicinali gratuiti. In realtà, allo stesso modo del sistema dei sussidi, anche questa fondamentale misura non venne adeguatamente e

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Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, pp. 119-120 55

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equamente applicata: in diverse città il servizio sanitario era scarso, irregolare o addirittura assente, in altre i medicinali e le prestazioni mediche si pagavano a caro prezzo e, di conseguenza, la maggior parte delle famiglie profughe non poteva permettersi questo “lusso”:

A tutti noi i medici ordinano cibi nutrienti, ma noi dobbiamo assolutamente cibarci di soli erbaggi perché il misero sussidio non ci permette di comprare uova a 50 centesimi

l’uno e piccoli polli a lire 10 ciascuno. Latte non se ne trova e così non ci resta che la certezza di dover soccombere per inedia. Io e le mie donne non abbiamo né abiti né scarpe, è un anno che indossiamo l’abito che ci restò per via della fuga spaventosa.56

Tale situazione, già molto grave, peggiorò ulteriormente in seguito alla lunga persistenza – dall’agosto 1918 al marzo 1919 – di una grave malattia infettiva, che ebbe facile diffusione tra una popolazione che si trovava in condizioni fisiche e igieniche penosissime e in un regime alimentare troppo povero di vitamine e largamente ipocalorico. Venne denominata dagli stessi profughi “la spagnola” e ne fece strage: i morti furono circa 60.000. Ad esserne particolarmente colpite furono le donne dai 15 ai 40 anni, ma anche i bambini – il cui stato di denutrizione era in moltissimi casi davvero impressionante –.57 Quando ormai la guerra stava volgendo al termine nel migliore dei modi, i profughi vissero uno dei periodi più dolorosi sia dal punto di vista fisico che affettivo.

2.3.3 Gli approvvigionamenti

Una delle questioni più critiche che dovettero affrontare i Prefetti fu la distribuzione e poi il razionamento delle derrate alimentari e la regolamentazione

dei prezzi al consumo. Questione fin da subito estremamente problematica in quanto la maggior parte dei profughi era arrivata nei luoghi di destinazione non portando nulla

con sé e che si trovava impossibilitata a procurarsi almeno i beni di prima necessità, dei quali aveva immediato bisogno. Come già sottolineato in precedenza, la situazione

peggiorò notevolmente tra la primavera e l’estate del 1918 quando i prezzi dei principali beni alimentari (farina, latte, sale, carne, etc.) cominciarono ad aumentare ed in maniera costante. A partire da quel momento ebbero inizio anche le proteste sempre più forti delle popolazioni ospitanti, che accusavano i profughi di essere i responsabili unici di una “disgrazia” che stava colpendo tutti indistintamente.58

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Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, p. 127 57

Ivi, p. 128

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Violentemente offesi al grido: «Via i Tedescat, via i profugat!» e con i profughi che erano stufi di essere trattati come dei “figliastri” dall’Italia “matrigna ostile”.

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Già prima che questi eventi si verificassero, il 6 febbraio 1918 l’Alto Commissariato aveva costituito una propria sezione destinata agli approvvigionamenti, la quale fin da subito provvide al razionamento dei viveri: una misura necessaria e al tempo stesso assai impopolare perché suscitò le ire sia dei civili autoctoni che delle famiglie profughe – entrambi stufi di non riuscire a trovare beni di cui avevano estrema necessità e il cui prezzo era al di fuori della loro portata –. Proteste inizialmente verbali, poi sempre più violente, sino ad arrivare soprattutto nel sud Italia ad assalti ai forni e ai municipi e a “sassaiole” contro i funzionari responsabili delle requisizioni. Una soluzione molto più concreta venne attuata a livello locale: la realizzazione di spacci alimentari e di cucine economiche. Entrambi erano molto più convenienti rispetto al mercato nero, ai rivenditori “strozzini” o a quella misera razione ci si poteva permettere con le tessere annonarie: esse offrivano due abbondanti e nutrienti pasti al giorno, ma al tempo stesso i tempi di attesa molto spesso erano interminabili e inoltre, per poter mangiare presso di essi, si finiva per assorbire quasi completamente il sussidio giornaliero:

Il mangiare della cucina economica consiste in due pasti giornalieri, uno a mezzodì ed uno alle 18, e si riassume invariabilmente in una minestra di pasta condita con olio, spesso di pessima qualità, un pezzo di pane ed un microscopico bicchiere di vino al mezzodì. Solo ai bambini si dà un bicchiere di latte alla mattina.59

2.3.4 Il lavoro

La questione del lavoro fu particolarmente complessa per il fatto che il Governo

premeva affinché i profughi non rimanessero volontariamente inabili e non

si abituassero a vivere sulle spalle della nazione; anche se in realtà, salvo un 10% (pari a circa 100.000 persone) che era impiegato nelle fabbriche del

triangolo industriale Torino – Milano – Genova, i profughi preferivano darsi all’ozio per paura che ricevere uno stipendio potesse privarli del sussidio oppure per timore di essere sfruttati per la loro particolare condizione. Al tempo stesso non si può non sottolineare che per molti di essi le condizioni fisiche erano talmente precarie che realmente non avevano possibilità effettive per poter svolgere qualunque occupazione. Indipendentemente da quanto affermato, le campagne statali contro l’ozio volontario e continuato furono particolarmente dure in quanto coloro che lo praticavano, rifiutandosi

di trovare un impiego, rappresentavano un peso sociale notevole per l’intera nazione. Tra le misure più significative contro di esso: l’internamento e il trasferimento in

località isolate e disagiate.

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