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3. I PRINCIPALI TESTIMONI: VESCOVI E PARROCI

3.1 Mons. Luigi Pellizzo

3. I PRINCIPALI TESTIMONI: VESCOVI E PARROCI

3.1 MONS. LUIGI PELLIZZO

Il futuro vescovo di Padova Luigi Pellizzo nacque a Costapina, borgata di Faedis (Ud), il 26 febbraio 1860 da

una famiglia discretamente agiata di origini slovene. Frequentò il seminario di Udine e venne consacrato

sacerdote nel 1882; fin da subito dimostrò di essere estremamente dotato ed intelligente, per questo venne incoraggiato a frequentare l’Università Gregoriana di

Roma – dove si laureò in Diritto Canonico con il massimo dei voti e la medaglia d’oro –.

Nel 1896 venne richiamato ad Udine

dall’arcivescovo mons. Pietro Zamburlini, che all’inizio del nuovo secolo lo nominò rettore del seminario presso il quale aveva ricevuto la sua prima formazione e che, esattamente dieci anni dopo – 19 agosto 1906 –, lo consacrò vescovo presso la cattedrale di Cividale del Friuli.

La sua elezione – voluta fortemente dal Papa veneto Pio X, che ne conosceva molto bene le qualità e capacità avendo frequentato il seminario di Padova insieme a mons. Zamburlini – all’episcopato patavino, il 6 luglio 1906, fu estremamente

controversa, combattuta e tutt’altro che attesa per due essenziali ordini di ragioni: in primo luogo, la stampa anticlericale e socialista lo attaccò assai duramente e

per lungo tempo con l’obbiettivo di “macchiarne” fin da subito l’eccellente personalità,

determinando però la forte ed inaspettata reazione difensiva dei cattolici della città; in secondo luogo, le autorità comunali padovane, la popolazione civile e lo stesso clero

locale avrebbero voluto un vescovo della loro provincia o se possibile un veneto, mai si sarebbero aspettati la nomina di un friulano che proveniva da un territorio di

confine con l’Austria; il quale peraltro era un semplice rettore di seminario.

Il nuovo vescovo – che si insediò stabilmente soltanto il 2 maggio 1907 – seppe fin da subito ripagare la decisione difficile di Papa Giuseppe Sarto dando avvio

ad un episcopato pienamente in linea con la politica della Santa Sede, ma al tempo stesso di profondo rinnovamento sia in campo ecclesiastico che sociale, culturale e politico. Non è quindi un caso che Padova, nel corso degli anni dieci del Novecento,

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sia stata tra le prime città italiane ad accogliere il messaggio di apertura pontificia dei cattolici verso la politica. In modo particolare, mons. Luigi Pellizzo avviò una solida

riorganizzazione della popolazione e delle associazioni cattoliche, invitandoli ad uscire dai vecchi circoli d’élite e a sviluppare un’azione sociale e politica più aperta,

rispondendo con i fatti alle provocazioni di liberali e socialisti.65

In seguito allo scoppio della guerra, insieme ai vescovi del territorio veneto direttamente invaso66, mons. Pellizzo appoggiò ed adottò la linea di pensiero del nuovo Pontefice Benedetto XV: la politica della non ingerenza nelle questioni belliche, o meglio, la ferma volontà di «tenere la Chiesa al di fuori e al di sopra delle parti in conflitto».67 Una presa di posizione particolarmente forte e di condanna della guerra – definita «un’inutile strage» nella Nota ai capi delle nazioni belligeranti68 del 1 agosto 1917 –, che avrebbe inevitabilmente condotto alla distruzione dell’Europa e al sacrificio

di un’elevata parte di popolazione cristiana. Al contrario, se fossero stati seguiti gli insegnamenti evangelici, si sarebbe potuto “lottare” per la difesa di valori molto più

importanti, quali: pace, tolleranza, reciproco rispetto, fratellanza.

Tre cose sopra le altre, noi ci proporremmo: una perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è Padre comune a tutti ed ama con pari affetto i suoi figli; uno sforzo continuo di fare a tutti il maggior bene, che da noi si potesse, e

ciò senza accettazione di persone, senza distinzione di nazionalità o di religione; infine la cura assidua, richiesta del pari dalla nostra missione pacificatrice, di nulla

omettere, per quanto era in poter nostro, che giovasse ad affrettare la fine di questa calamità, inducendo il popolo od i capi a più miti consigli, alle serene deliberazioni della pace, di una pace giusta e duratura.69

Il vescovo di Padova non tardò ad assumere un atteggiamento di deciso rifiuto della

guerra – arrivando in più di un’occasione a definirla un «immane disastro» oppure

65

Scottà, I vescovi veneti e la Santa Sede, volume I, pp. 2-7; Cardin, La diocesi di Padova “in armi”. Vescovo e clero nella Prima Guerra Mondiale, pp. 7-16

66 Andrea Giacinto Longhin, vescovo di Treviso, Ferdinando Rodolfi, reggente della diocesi di Vicenza, Antonio Anastasio Rossi, arcivescovo di Udine.

67

Scottà, I vescovi veneti e la Santa Sede, volume I, pp. LXXXIX-XCIII

68

La Nota ai capi delle nazioni belligeranti del 1 agosto 1917 fu il risultato più chiaro dell’innovativa presa di posizione di papa Benedetto XV – eletto nella tarda estate del 1914 –, con la quale egli volle prendere nettamente le distanze dagli “orrori” della Prima Guerra Mondiale e che fu determinante perché consentì alla Chiesa Cattolica di riconquistare a pieno titolo un’importante leadership sociale e culturale, perduta in seguito ai fortissimi contrasti con il giovane Stato Italiano e la cui origine erano stati la presa di Roma (20 settembre 1870) e la conseguente caduta dello Stato della Chiesa o Stato Pontificio.

Problematiche di lunga durata e particolarmente controverse, meglio note col nome di

Questione Romana e concluse in seguito ai Patti Lateranensi dell’11febbraio 1929. Cfr. Scottà, I vescovi veneti e la Santa Sede, volume I, pp. XXVIII-XXXVIII

69

Parte di un importante discorso tenuto da papa Benedetto XV nel corso di un’udienza dell’anno 1917, in Scottà, I vescovi veneti e la Santa Sede, volume I, p. XCIII

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un «orribile ed inutile macello»70 – e ad affermare con viva forza che l’obbiettivo vero doveva essere il conseguimento di una pace solida e duratura, non la vittoria militare determinata da egoismi nazionali. Inoltre, diversamente da altre autorità ecclesiastiche – l’arcivescovo di Udine in primis –, mons. Pellizzo non fece mai emergere uno spirito patriottico o nazionalista; cercò al contrario di usare sempre cautela, moderazione e prudenza. Ciò non significa che egli non si sentisse Italiano, non fosse favorevole alla necessaria e tenace resistenza dell’Esercito Italiano contro l’invasore, alla dura lotta contro la tanto temuta rivoluzione socialista, oppure che negasse il nazionalismo; semplicemente aveva un’idea di Nazione diversa e non condivideva quella di eccessiva esaltazione patriottica che era in uso dalla fine dell’Ottocento in tutta Europa. Egli infatti aveva sposato quella che era propria della religione cattolica: «la cooperazione pacifica e la solidarietà tra Stato e Chiesa», due entità che, a suo parere, avrebbero dovuto essere capaci di convivere insieme e di provvedere al raggiungimento della «nazionale concordia e del bene comune».

La figura di mons. Luigi Pellizzo fu fondamentale soprattutto perché durante la guerra egli fu uno dei più importanti testimoni delle vicende belliche, prima sul fronte

dell’Isonzo – la sua terra di origine – e nella provincia di Vicenza, poi riguardo alle battaglie della resistenza estrema presso il fiume Piave, il monte Grappa e l’altopiano di Asiago – avvalendosi sempre di informatori molto fidati, che inviava in zona di guerra

per avere costanti notizie –. Inoltre, grazie ad una costante relazione epistolare con i sacerdoti della sua diocesi e con gli altri vescovi del Veneto invaso, nel corso di tutta

la durata della guerra fu autore di un vero e proprio “reportage informativo” estremamente preciso e dettagliato, indirizzato al pontefice. In esso, una parte molto rilevante era dedicata all’esperienza diretta dei parroci profughi, i quali – sulla base

delle disposizioni del loro vescovo – guidarono i propri parrocchiani verso le destinazioni assegnate dalle autorità nazionali o occupanti e rimasero al loro fianco

durante tutto il periodo del profugato:

I parroci dei profughi seguiranno i parrocchiani e stabiliranno la residenza entro i limiti del Comune che è fissato ai loro parrocchiani.

I cappellani dei profughi seguiranno pure per ora la propria parrocchia nella nuova residenza, ma potranno in seguito ricevere una nuova destinazione, ove fosse richiesto da speciali circostanze.

Essi cureranno di visitarli tutti e si interesseranno perché sia provveduto [ai] loro bisogni religiosi e mortali, igienici e civili.71

70 Lettera n. 138 del 3 febbraio 1918, in Scottà, I vescovi veneti e la Santa Sede, volume I, p. 289 71

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