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le nuove concettualizzazioni sulle carriere

I NUOVI CONTESTI DEL LAVORO

3.3 le nuove concettualizzazioni sulle carriere

Secondo Sullivan (1999), autrice di un’eccellente rassegna di studi sulle carriere, negli ultimi anni le teorie più affermate sull’argomento si sono trovate ad affrontare problematiche legate a due ipotesi di ricerca, riassumibili nelle seguenti domande: quanto le modalità attraverso le quali si sviluppa la carriera di una donna sono simili a quelle di un uomo? E quanto gli stravolgimenti socio-economici e dell’organizzazione del lavoro possono giustificare il quadro delineato dalle tradizionali teorie sulle carriere?

Nell’intento di fornire una risposta a questi e ad altri quesiti, anche all’interno delle riviste più prestigiose specializzate sull’argomento, hanno cominciato a trovare spazio contributi teorici e di ricerca che cercano di fornire un quadro, se non speculare, quantomeno complementare rispetto alle teorie già affermate sulle carriere. Come del resto già accaduto con i modelli di socializzazione al lavoro, altri ambiti della psicologia si affacciano sul mondo delle transizioni e propongono il loro contributo, in particolare la psicologia del lavoro e delle organizzazioni.

Una visione alternativa delle carriere come frutto di un processo di costruzione sociale e quindi di mediazione tra individuo e società è stata proposta da studiosi quali Cohen, Duberley e Mallon (2004), e Young e Collin (2004); secondo questi autori le carriere sarebbero “oggetti” frutto della mediazione-interazione tra individuo e il proprio contesto di appartenenza, storicamente e culturalmente declinati e che, in virtù di tale specificità andrebbero studiate tenendo presente che: il loro studio non potrebbe essere scisso dall’intervento, lo stesso processo di studio è influenzato socialmente e che nulla, in tale processo di conoscenza, è da darsi per scontato (Burr, 1995). Non è certo superfluo notare come tali affermazioni risuonino quasi come una critica delle teorie affermatisi in passato in quest’ambito le quali, talora, hanno operato in virtù di una certa semplificazione ed omogeneizzazione della realtà delle carriere.

Un tentativo altrettanto interessante è quello compiuto da Inkson (2002, 2004). Questo autore, riprendendo un filone di studi organizzativi già caro a Morgan (1986), lo amplia allo studio sulle carriere, proponendo una rassegna degli studi sull’argomento non basata su meri

criteri cronologici o tassonomici bensì sull’assimilazione del concetto di carriera ad alcune, semioticamente pertinenti, metafore, e in particolare la carriera come: eredità, prodotto, ciclo, corrispondenza, viaggio, relazione sociale, ruolo, risorsa e storia.

Non dimentichiamo infine che, secondo l’accezione attuale, il termine carriera restituisce un’idea di movimento, nel senso di avanzamento verso stadi superiori; anche tale idea appare essere frutto di una costruzione sociale, soprattutto se confrontata con il pensiero di autori come Gershuny (1993) che, parlando di immobilità di carriera (career immobility), descrive il processo secondo cui negli ultimi decenni l’ingresso lavorativo si è spostato progressivamente più avanti nella vita di ciascun individuo per effetto del maggiore livello formativo necessario per intraprendere molte professioni di medio e alto livello, con il rischio che entrare nel mondo del lavoro ad un’età già relativamente matura diminuisca le chance di trovare un impiego conforme alla propria formazione (vedi gli stereotipi sociali sull’età per i quali i lavoratori più maturi non possono essere difficilmente addestrati per un nuovo lavoro).

D’altra parte, gli ultimi anni hanno visto l’emergere di due contributi che, oltre ad attrarre l’interesse dei ricercatori, hanno trovato terreno fertile di applicazione nei contesti organizzativi e nei servizi consulenziali sulle carriere: ci riferiamo ai concetti di Protean

career e Boundaryless career.

Come afferma lo stesso Hall (2004), la teorizzazione della Protean career (traducibile in italiano come “carriera versatile”) nacque negli anni settanta (1976) sulla scorta dei macro- cambiamenti che stavano interessando le grandi organizzazioni produttive americane, soprattutto a causa dei due shock petroliferi del 1973 e, successivamente, del 1979. Con la crisi delle grandi organizzazioni che, da un consolidato punto di vista, possono essere considerate il vivaio ove proliferavano le forme tradizionali di carriera, nacque l’esigenza di rendere conto delle nuove forme di rapporto che i singoli lavoratori (soprattutto colletti bianchi) intrattenevano con esse; ad un lavoratore considerato passivo rispetto all’organizzazione, interessato solo all’avanzamento e ad avere il favore dei vertici aziendali, con bassa mobilità e il cui successo si identificava sostanzialmente con il salario percepito (si tratta cioè di incentivi che poggiano fortemente sulla motivazione estrinseca), cominciano ad affiancarsi sempre più larghe schiere di lavoratori dediti primariamente alla propria crescita professionale e personale, attenti al proprio benessere e alla possibilità di spostarsi agevolmente da un’organizzazione all’altra nonché di essere professionalmente soddisfatti e attenti allo sviluppo e conseguente spendibilità delle proprie competenze (specularmente rispetto a prima, qui si tratta di una forte accentuazione sulla motivazione intrinseca; cfr. Deci e Ryan, 1985). Secondo Hall le nuove meta-competenze di successo diventano così l’adattabilità agli scenari mutevoli e la

consapevolezza (di sé, della propria professionalità, ecc.): il lavoratore è incoraggiato a contrattare realmente il proprio rapporto con l’organizzazione e non a subirlo passivamente, e a non considerare mai la posizione professionale raggiunta come una meta bensì come una tappa intermedia passibile di mutamenti e/o miglioramenti.

I processi di cambiamento organizzativo iniziati negli anni settanta hanno subito una ancor più rapida accelerazione in virtù dell’avvento di quella che è stata chiamata la new

economy. Le organizzazioni si sono de-verticalizzate e hanno avuto enorme sviluppo i processi

di outosourcing che, delocalizzando e affidando alcune fasi del processo produttivo ad altri attori economici, hanno fatto sì che i confini entro e tra le organizzazioni diventassero sempre più permeabili. In virtù di tali mutamenti De Fillippi e Arthur (1996) hanno definito la

Boundaryless career (traducibile come “carriera priva di confini”) come “una sequenza di

opportunità lavorative che vanno oltre i confini di un singolo setting lavorativo”. Tale definizione appare gravitare intorno all’idea di una carriera che trascenda i tradizionali confini organizzativi, ed in realtà questo è l’aspetto che più di ogni altro si è diffuso rispetto a tale concetto; d’altra parte la boundaryless career è molto di più, Arthur e Rousseau (1996) hanno proposto alcuni significati sul senso di tale concetto, ed in particolare: il supporto professionale offerto da stakeholder extra-organizzativi, i confini personali e familiari che hanno un impatto sulla carriera individuale e l’interpretazione soggettiva della propria carriera da parte dell’individuo. Come sottolineato da Sullivan e Arthur (2006) la boundaryless career è un costrutto complesso che include e trascende vari livelli di analisi: fisici e psicologici, oggettivi e soggettivi.

Per quanto riguarda le differenti transizioni lavorative, Arthur e Rousseau (1996) distinguono tra: transizioni attraverso differenti stati occupazionali (tale categoria è quella cui più comunemente si fa riferimento), transizioni attraverso differenti organizzazioni, cambiamenti di significato nelle relazioni lavorative, mutamenti qualitativi/quantitativi nelle reti sociali, transizioni attraverso i confini tra ruoli (ossia il cambiamento di mansione) e transizioni all’interno dello stesso ruolo lavorativo (i.e. la necessità di implementare le caratteristiche della propria mansione in virtù di cambiamenti intercorsi nel contesto economico esterno).

D’altra parte Briscoe e Hall (2002) mettono in luce le due caratteristiche principali della protean career, in questo caso l’individuo sarebbe: guidato dai propri valori (value

driven), nel senso che essi forniscono la guida e la misura del proprio successo; e autodiretto

le proprie capacità adattive e di gestione della performance lavorativa e dei processi di apprendimento professionale e organizzativo.

La protean career (Hall, 1976, 1996; Hall e Mirvis, 1996) e la boundaryless career (Arthur e Rousseau, 1996) per molti versi possono essere considerate come due concezioni speculari rispetto alla problematica delle transizioni lavorative; infatti se da un lato la prima dirige il proprio focus sul ruolo dell’individuo nel veicolare autonomamente la propria carriera, la seconda si concentra sulle opportunità offerte dai mutamenti di assetto che caratterizzano le organizzazioni odierne e che si riverberano sulle carriere.

Secondo Sullivan (1999), rispetto all’attuale stato di avanzamento “dei lavori”, le carriere non sono ancora definibili come “senza confini”, infatti la concettualizzazione della

boundaryless career è ancora legata a quella prospettiva tradizionale secondo la quale sono le

organizzazioni, e non gli individui, ad avere dei confini. In base a tale considerazione ella propone di utilizzare, allorché ci si propone di studiare i nuovi percorsi di carriera in riferimento al singolo individuo, il termine di protean career per enfatizzare l’adattabilità e il libero arbitrio individuali, e usare il termine boundaryless quando si esaminino le carriere secondo un’ottica di stampo più organizzativo.

Gli ultimi contributi teorici riportati sopra richiamano l’attenzione su aspetti delle carriere che sono emersi con maggior vigore nell’ambito delle organizzazioni e che conseguentemente hanno ispirato il lavoro degli addetti ai lavori soprattutto in funzione di interventi di gestione delle risorse umane come: outplacement, ricollocamento sia orizzontale che verticale, trasferimento, certificazione delle competenze, definizione dei ruoli e delle mansioni, ecc. Sebbene a prima vista possano apparire estranei alle tematiche proprie della psicologia dell’orientamento, gli autori di questi contributi hanno proposto idee che denotano una rapida presa di consapevolezza circa la mutevolezza che sempre più interessa il mondo delle carriere e che spesso non è stata colta con prontezza da parte dei teorici dell’orientamento. Sarebbe auspicabile quindi non guardare a tali apporti con diffidenza a causa della loro diversa (ma non certo lontana!) provenienza disciplinare, bensì muovere verso un’integrazione comune al fine di spiegare in modo più esauriente un fenomeno che cambia costantemente ma con differenti velocità a seconda dei contesti socio-economici e culturali di riferimento; in particolare tali concettualizzazioni appaiono piuttosto inedite al contesto italiano (Lo Presti, 2006), conseguentemente una loro applicazione sarebbe sicuramente foriera di elementi di grande interesse scientifico nonché applicativo (anche in funzione della calibrazione di interventi orientativi futuri).