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Le pratiche nei servizi tra innovazione e formazione

Senza Muri doman

8.2 Le pratiche nei servizi tra innovazione e formazione

92 Gli operatori sociali sono vivono una situazione semplice nell’epoca attuale: a fronte di un lavoro che richiede grande investimento, competenza e motivazione, sono spesso poco riconosciuti dal punto di vista sociale e remunerativo. Inoltre, in questa fase di contrazione delle risorse, sono gli operatori sociali a vivere direttamente l’esperienza di negare o ritirare servizi ai cittadini fragili che hanno in carico. A fronte di tutto questo, negli anni più recenti si è iniziato a chiedere agli operatori sociali innovazione. Innovazione è una parola buona, una parola che evoca significati positivi, e come tale bisogna diffidarne. Non è infrequente, infatti, che parole buone vengano utilizzate per diffondere modelli che sarebbero per lo meno opinabili senza destare critiche. È il caso, ad esempio, delle razionalizzazioni che nascondono licenziamenti.

La richiesta di innovazione va accolta in maniera radicale, iniziando a proporre prima di tutto un modello culturale che non c’era prima. In molti contesti, tuttavia, la tentazione a replicare modelli già esistenti è fortissima. Il lavoro sociale è uno di questi. Avere a che fare con le persone fragili, e spesso con problematiche complesse, porta ad una standardizzazione delle soluzioni che da una parte funziona come meccanismo di difesa e dall’altra rende la professione meno soggetta all’incertezza ed indeterminatezza tipiche dell’umano.

Spesso così, gli operatori sociali, dopo pochi anni di servizio o addirittura ancora quando sono dentro il percorso di formazione, hanno già acquisito modelli operativi e stili comunicativi standard. Questi modelli e questi stili sono per lo più fondati sul welfare del bisogno e sulla modellizzazione del cittadino bisognoso come “utente”.

Queste acquisizioni statiche faticano a incontrarsi con l’innovazione. Se prendiamo ad esempio l’area della disabilità e ci guardiamo intorno, vediamo facilmente ce le iniziative e gli interventi rientrano immancabilmente nell’area della solidarietà, dell’aiuto, riportando sempre ad un modello di base asimmetrico.

Come si diceva la situazione degli operatori è tutt’altro che facile: la fase economica che si sta attraversando contribuisce largamente a creare una situazione di depressione e demotivazione in coloro che operano nel campo sociale. Da una parte, gli operatori si vedono fortemente vincolati ad un esistente che, tra l’altro, cade a pezzi. Dall’altra, hanno scarsi riconoscimenti e scarse certezze rispetto al futuro. In queste situazioni, che gli operatori sociali quotidianamente attraversano nei loro percorsi, la progettualità e la creatività faticano ad emergere.

Spesso si cerca di fare fronte a queste difficoltà attraverso percorsi formativi. Le iniziative formative tuttavia sono sempre più spesso sterili, non per qualità e contenuti, ma perché faticano da sole ad intaccare le prassi. I motivi di questa mancata contaminazione possono essere variamente interpretati, e lo sono nelle sedi appropriate.

Quello che si può dire qui è che molte delle parole che si usano nel campo della disabilità, come ad esempio personalizzazione, coprogettazione, servizio attorno alla persona,sono così fruste e abusate che è difficile persino pronunciarle senza destare sguardi annoiati ed occhi al cielo.

Spesso queste parole sono esplicitamente dette e ripetute all’interno di servizi che non le praticano affatto. Vi è una distanza tra quello che si “dichiara di fare” e quello che si fa. Questa distanza però non è necessariamente dovuta all’intenzione di essere poco trasparenti.

93 Piuttosto, nel tempo si è verificata una stratificazione riguardo a queste parole: con parole nuove e più belle si sono finite per chiamare pratiche vecchie, basate su altri modelli. Si parla di coprogettazione e s intende dire che il genitore è chiamato a firmare il foglio del progetto scritto dall’operatore. Si parla di servizi attorno alla persona, però gli orari sono quelli stabiliti dal servizio. Chi lavora nei servizi, tuttavia, è talmente dentro a queste pratiche che percepisce alcuni elementi come immutabili e non si accorge neppure delle dissonanze.

Così, quando all’incontro formativo il formatore parla, ad esempio, di coprogettazione, la sensazione degli operatori è che si parli di qualcosa che loro fanno già. Si aggiunga che sono dovuti andare a seguire il corso al di fuori dell’orario di lavoro e magari non sempre pagati. Da questo quadro, appare come sia piuttosto l’aspettativa di modificare le pratiche a sembrare bizzarra e dover essere motivata, piuttosto che la mancanza di effetti della formazione nelle pratiche dei servizi.

Per questi motivi, è certamente importante riflettere sui contenuti cioè sulla disabilità, sul modello di disabilità e di società che le nostre azioni si portano dentro. Allo stesso tempo, è sempre più stringente la necessità di coniugare il livello organizzativo con quello di contenuto.

Una consistente responsabilità in questo senso ce l’ha la fase formativa che precede l’inserimento lavorativo: l’università.

Da una parte è importante fare attenzione a non trasmettere, attraverso la formazione universitaria, il modello che si dice di voler superare. Insegnare le professioni sociali è molto complicato, perché è necessario trovare continuamente una mediazione tra la complessità della realtà delle persone e le necessità didattiche. La complessità non si può sempre rendere nel tempo di un corso universitario, ed è necessario anche predisporre materiale didattico che consenta agli studenti di prepararsi e studiare. La realtà in quest’ambito muta così rapidamente che non sempre il materiale didattico è aggiornato (i manuali ad esempio, invecchiano abbastanza in fretta). Spesso è necessario semplificare oltremodo la realtà per renderla sintetizzabile.

Questo però costituisce una criticità in quanto si rischia di trasmettere agli studenti l’idea che la realtà sia davvero così semplice e schematica.

Inoltre, da una parte è fondamentale dare concretezza a quello che si insegna all’università, dall’altra è necessario fare attenzione a non trasformare il percorso universitario in un addestramento professionale.

È importante in questo senso fornire agli studenti gli strumenti per muoversi con disinvoltura tra il piano teorico e quello delle prassi. Solo se avranno consolidato questi strumenti, i futuri educatori avranno con sé una valigetta di competenze che permetterà loro di riflettere su quello che fanno e di essere in grado di accogliere e praticare il cambiamento.