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Le ragioni locali della deindustrializzazione

Nel documento Voci dalla deindustrializzazione pisana. (pagine 131-135)

CAPITOLO 3: CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

3.1 Le ragioni locali della deindustrializzazione

L'excursus storico affrontato nel primo capitolo ha delineato il percorso dello sviluppo industriale della città e della provincia di Pisa e messo in evidenza le probabili cause del precoce processo di deindustrializzazione che ha colpito la zona a partire dagli anni Settanta.

Abbiamo visto che a fronte di ingenti risorse locali (posizione geografica, elementi infrastrutturali naturali, presenza di manodopera a basso costo), la città e la provincia di Pisa non sono state in grado di esprimere personalità imprenditoriali di spicco, capaci di avviare imprese di portata nazionale e stabilire un saldo rapporto col territorio.

La causa del mancato compimento dell’industrializzazione a Pisa e Provicia, almeno dalla seconda metà del '800 fino agli inizi del '900, è riconducibile alla mancata assunzione di impegno e responsabilità da parte i grandi proprietari terrieri, di fatto gli unici in grado di impegnarsi nella creazione di industrie manifatturiere, poiché erano i soli a possedere il sufficiente capitale da investire.

In una regione, e provincia, dalla radicata tradizione agricola, le fabbriche venivano percepite come un pericolo per l'equilibrio sociale, garantito dai ritmi dell'agricoltura e dal complementare lavoro a domicilio, soprattutto per quanto riguardava il settore tessile. L'urbanizzazione massiccia conseguente la costruzione di grandi insediamenti produttivi, l'abbandono delle campagne, l'alterazione dei rapporti mezzadrili e di quella pace collettiva, più vicina a delle modalità di controllo sociale, spaventava i nobili proprietari terrieri che mai investirono nel settore manifatturiero a meno che non si trattasse di lavorazioni adiacenti al settore agricolo.

Furono così imprenditori “stranieri” a segnare l'implementazione di alcune attività produttive esistenti a livello artigianale nella zona pisana. Sebbene, infatti, mancò l'iniziativa imprenditoriale capace di costituire aziende di grosse dimensioni, la provincia e la città di Pisa sono state invece un terreno fertile per la costituzione di piccole e medie realtà, tanto importanti da far parlare di un vero e proprio dualismo industriale.

Come abbiamo visto, questa tendenza, tutta pisana, rivolta alla creazione di piccole imprese artigiane, per lungo tempo è apparsa come l'ostacolo principale, insieme alla presenza dell'indelebile vocazione agricola, alla diffusione delle grandi fabbriche.

C'è da considerare, però, che la diffusione delle piccole e medie aziende, delle botteghe artigiane e dei piccoli esercizi commerciali, nonché la presenza della figura dell'operaio – contadino, sono stati una risorsa fondamentale per il territorio in alcuni momenti storici particolarmente drammatici. All'indomani dei bombardamenti americani su Pisa, furono proprio le piccole realtà imprenditoriali a innescare la ripresa economica e ad assorbire la manodopera espulsa dal circuito industriale, soprattutto femminile. Il fatto che numerosi operai della provincia, seppure inseriti nelle grandi fabbriche, non avessero mai completamente abbandonato la terra (paradossalmente furono proprio i ritmi della fabbrica a consentire la duplice attività) si rivelò determinante nei momenti di ridimensionamento dell'organico e del ricorso alla cassa integrazione.

Sebbene il processo d'industrializzazione pisano sia segnato da elementi peculiari, è innegabile che il territorio abbia reagito in maniera discretamente efficace alle carenze interne e a elementi di natura esterna, riconducibili alle opzioni strategiche dei gruppi industriali di provenienza extra regionale e alle scelte di politica economica portate avanti dai governi che si sono succeduti dall'Unità d'Italia al secondo dopoguerra. Questo, almeno fino alla fine degli anni Sessanta. In questo periodo, aziende come la Marzotto, la Richard Ginori, la Motofides di Marina, la Vis e perfino la Saint Gobain, reagirono ai cambiamenti del mercato e agli incentivi governativi per la costituzione di stabilimenti industriali nel sud Italia, chiudendo gli stabilimenti pisani e aprendone di nuovi nel meridione.

La Marzotto e la Ginori, nello specifico, consideravano gli stabilimenti pisani come periferici e destinati a delle produzioni superate, non più aderenti alle richieste dei consumatori, e non certo al centro del processo di rinnovamento e innovazione tecnologica che avevano invece predisposto per altri opifici del gruppo.

Appare chiaro, a questo punto, il limite derivante dal fatto che queste grandi fabbriche, in cui erano impegnati migliaia di lavoratori, appartenevano a imprenditori non legati “affettivamente” al territorio, se non da soli elementi di convenienza economica.

A partire dagli anni Settanta, dunque, Pisa si ritrova spogliata di realtà industriali come quelle appena nominate e intenta a cercare la propria vocazione.

Abbiamo visto che la città di Pisa è più volte, negli ultimi trent'anni, rimasta impigliata fra occasioni di sviluppo vissute per inerzia e altre clamorosamente perse.

La presenza di un vasto patrimonio culturale e ambientale non è accompagnato da un programma di valorizzazione a tuttotondo, capace di intercettare un turismo differente

da quello che si riversa, seppure ingente, sul reticolo di Piazza dei Miracoli.

Manca, inoltre, un piano che disciplini i rapporti fra aeroporto civile e militare in grado, magari, di agire sull'inquinamento acustico prodotto dal traffico di un aeroporto internazionale.

La presenza delle tre università pisane, poli di eccellenza che attirano risorse umane e finanziarie da tutto il mondo, pare più collegata al mercato immobiliare che non alla creazione di un distretto della conoscenza che, considerando anche la presenza del CNR e dell'Ospedale, ci chiediamo come mai non sia ancora stato implementato.

Senza poi dimenticare, a proposito di ricerca e di università, la grande occasione mancata in campo informatico.

Considerando questi elementi, come abbiamo avuto modo di affermare durante la trattazione, pare che, venute meno le grandi fabbriche e l'apporto degli imprenditori esterni, che sopperirono alle carenze interne in termini di predisposizione di occasioni occupazionali e piani di sviluppo territoriale (basti pensare all'input che la presenza della Saint Gobain diede all'implementazione del sistema ferroviario) Pisa sia rimasta orfana di un piano di crescita globale capace di abbracciare tutte le realtà produttive dei diversi comparti, compreso quello culturale.

Ad oggi possiamo affermare che Pisa è certamente una città dalle mille potenzialità, riadattano un'espressione usata da Luciana Biagioli, ma alla quale manca una forza istituzionale o imprenditoriale capace di incanalare le ingenti risorse verso dei progetti a medio e lungo termine.

Certo è che Pisa non può essere definita una città industriale ma le resta ciò che quel processo d'industrializzazione imperfetto le ha lasciato: gli stabilimenti in disuso. Quale futuro per gli stabilimenti industriali oggi in disuso?

A parte il caso virtuoso della fabbrica Marzotto, diventata oggi una delle sedi dell'Università di Pisa, è possibile pensare una “conversione ecologica” dei luoghi della produzione di massa e del profitto capitalista in spazi sociali ad uso e consumo – sostenibile - da parte di una collettività che ne ha subito l'inquinamento ambientale, lo sfruttamento delle risorse locali e che, oggi, si ritrova senza alcuna prospettiva? I volontari del Progetto Rebeldìa, un cartello di associazioni pisane che si sono unite per trovare delle sinergie e delle risposte ai bisogni di diversi target di cittadini, risponderebbero affermativamente, senza esitazione. Dal 2012, infatti, tanti fra giovani studenti e cittadini

comuni, hanno occupato lo stabilimento dell'ex Colorificio Toscano trasformandolo in un luogo dove il colore sa di partecipazione sociale e interazione culturale e non di solventi cancerogeni. Il valore sociale di un progetto che rimanda al “diritto di liberare i tanti spazi abbandonati delle città della crisi, per restituirli alla collettività e farne luoghi di aggregazione sociale, di cittadinanza attiva e crescita culturale, respingendo il primato di un interesse privato gravemente sospetto di essere abusivo, emulativo e contrario ai diritti fondamentali della persona”142, però non sembra essere avallato dall'amministrazione

comunale tutt'ora in carica. A torto o a ragione, l'amministrazione comunale considera le modalità utilizzate dai soggetti promotori di questo neonato spazio sociale non legali, non idonee, ma, fin'ora, alla necessità delle associazioni di avere una sede operativa non è stata data risposta. All'inizio di Novembre 2013, a seguito della sentenza emessa dal tribunale di Pisa, l'ex Colorificio Toscano è stato sgomberato e le associazioni, i laboratori, le officine, si ritrovano senza una sede e con la sensazione che il comune di Pisa non veda un futuro per il loro progetto di riqualificazione sociale degli stabilimenti industriali in disuso, ma che sia più portato ad avallare soluzioni più proficue dal punto di vista economico (non a caso, pochi mesi fa, tutte le autorità cittadine hanno partecipato all'inaugurazione di un grande supermercato a Porta a Mare, sorto sulle macerie della VIS).

Il resto è cronaca dei giorni nostri: “Ville Urbane: al posto di una parte della

fabbrica (Ex-Vis), nasca la "Nuova Porta a Mare"- Intanto, nel lato sud, ha preso avvio

il progetto “Ville Urbane”.Nasce la “nuova Porta a Mare, con abitazioni, uffici parcheggi, strada interne e un supermercato, una rotonda e un sottopasso per attraversare l’Aurelia. 350 abitazioni, 950 posti auto, 35 mila metri quadrati, di cui 20 mila rimangono pubblici per aree a verde e nuova viabilità. Portando avanti così il recupero e il riuso della ex zona industriale di Porta a Mare che aveva cominciato la decadenza negli anni 70, quando Pisa era ancora una città operaia.”143

142 Progetto Rebeldìa, La città contro la crisi si fa spazio: un nuovo laboratorio per la partecipazione,

"Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva", !Rebeldia edizioni, s.d.ma 2012,

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Nel documento Voci dalla deindustrializzazione pisana. (pagine 131-135)

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