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Le recensioni dell’epoca

Nel documento "Un amore a Roma" dal romanzo al film (pagine 196-200)

Le recensioni successive all’uscita nelle sale cinematografiche di Un amore a Roma sono contrastanti: la critica non riconosce in Risi l’autore di Pane, amore e… e di Poveri ma belli, e questa evoluzione del regista è accolta solo in parte, creando qualche insoddisfazione. Nell’insieme, però, i giudizi sul film, spesso incentrati sulla fotografia di Montuori, sul pathos dato dalle musiche di Rustichelli, sull’origine letteraria e sui nomi dei padri tutelari dell’operazione, Patti e Flaiano, sono positivi. Alcuni critici ritrovano nel film una certa verbosità, e altri eviden- ziano la scabrosità della storia raccontata; ma comunque i giornali dimostrano, in genere, una certa benevolenza per il progetto, per l’interpretazione del semisco- nosciuto Baldwin, per lo stuolo dei comprimari, fra cui vengono evidenziati Claudio Gora e Elsa Martinelli.

Anche se praticamente tutti lodano Mylène Demongeot, reduce da due film, La battaglia di Maratona e Sotto dieci bandiere, che non ne avevano certo esal- tato le qualità interpretative, e, anche se vengono messe nel dovuto risalto le pos- sibilità drammatiche dell’attrice, al contempo la maggior parte delle recensioni ne criticano il personaggio, descrivendo Anna come una donna stupida, leggera, vol- gare che trascina nel vortice di una relazione perversa il povero e ingenuo intel- lettuale.

Nonostante il trascorrere del tempo, tra la stesura del romanzo e la realizzazio- ne del film, il personaggio di Anna, che trova le sue antesignane nell’Adriana di La romana di Alberto Moravia del 1947 e nella Letizia di La Fiorentina di Flora

Volpini del 1953, è “visto” ancora una volta in maniera unidimensionale. Per i cri- tici del 1960 Anna Padoan rimane “solamente” un’«attricetta quattro soldi», una «ballerinetta senza spina dorsale e sempre pronta ad ogni invito», «incapace di prendere una decisione e di costruirsi una vita», una «piccola e squallida Manon moderna», un’«attricetta friulana che è stupida, è volgare», «una ragazza poco seria», una «novella Taide».

In nessuna delle recensioni viene evidenziata la modernità del personaggio, già creato da Patti a metà degli anni Cinquanta e che Flaiano modifica ben poco13,

riconoscendone l’attualità. Nonostante il boom economico, i ruoli femminili domi- nanti sono ancora quelli di mogli e madri, fidanzate e casalinghe, maggiorate pronte a trasformarsi in angeli del focolare, figure da cui Anna differisce totalmen- te, essendo il suo «uno straordinario personaggio femminile in linea con le moder- ne figurazioni di Moravia e di Antonio Pietrangeli»14. Il suo desiderio di realizzar-

si, la sua solitudine interiore e la sua insoddisfazione, evidenziata nel titolo fran- cese del film, sono aspetti innovativi e molto diversi dalla gran parte dei modelli coevi. Annunciano da un lato le donne del cinema di Antonioni, dall’altro la Stefania Sandrelli e la Catherine Spaak dei film di Luciano Salce, Damiano Damiani e Antonio Pietrangeli, preludono, insomma, a quelle donne “conosciute bene” che nessuno poi è veramente in grado di capire.

Il solo Mario Soldati, forse, riesce a intuirne le potenzialità e le sfaccettature e, infatti:

recensendo Un amore a Roma, nota con interesse che negli anni trascorsi tra il romanzo di Patti e il film di Risi il personaggio centrale è cambiato, e di conseguen- za l’identificazione del pubblico: adesso lui parteggia per la donna, che nel roman- zo gli pareva estranea e incomprensibile15.

Le recensioni francesi e tedesche sono molto simili a quelle italiane. Pro- babilmente in piena Nouvelle Vague il personaggio della Demongeot in Francia è meno amato dalla critica che dal pubblico, mentre nella moderata Germania Occidentale dei primi anni Sessanta il film è distribuito con il titolo Liebesnächte in Rom (Notti d’amore a Roma) e vietato ai minori di diciotto anni. L’edizione per quel mercato è più corta della versione italiana di quasi cinquecento metri16, per

una durata quindi di circa venti minuti in meno. Anton Sterzl, sulla «Kölnische Rundschau» del 7 maggio 1961, dimostra di apprezzare molto il film e i suoi inter- preti e ricorda che alla prima del film a Colonia era presente Giulietta Masina, in quegli anni “esiliata” dal cinema felliniano e impegnata in trasferte europee17. Non

casualmente, dunque, anche sulla stampa tedesca la gran parte degli articoli fa inevitabilmente riferimento a La dolce vita e a Fellini.

«La Stampa», 25 novembre 1960 Un amore a Roma

La trasposizione cui hanno lavorato lo stesso Patti ed Ennio Flaiano non si pre- sentava facile; oltre che per l’interiorità della vicenda e per la qualità poco cinema- tografica di certi passaggi, anche perché qualche episodio il nostro cinema se lo era

già assimilato. Il regista Dino Risi è venuto a capo di tante difficoltà, dandoci un film, se non robusto, elegante e omogeneo. […] Questo schiavo d’amore dei giorni nostri, con uno speciale squallore e una sua speciale malinconia, è a tratti, non sempre, autenticamente delineato. Un bellissimo momento è quando raggiunge la ragazza nel teatrino di varietà, mentre si beve con gli occhi un volgare caba- rettista, di cui è stata e forse è l’amante. Qui la morsa del dolore si chiude e la stessa gelosia si arrende al mistero della donna. Chiamato a una difficile prova, il giovane attore americano Peter Baldwin si porta complessivamente bene. Sorride un po’ troppo in principio, poi si rinsalda e alla fine addirittura s’impo- ne. Anna è una vecchia mascherina, ma Mylène Demongeot ne ha tratto la sua interpretazione più bella. Si imbruttisce persino per darle vita e verità, tra inno- cenza e corruzione.

L. [Leo] Pestelli

«L’Unità», 15 gennaio 1961 Un amore a Roma

Dino Risi ha tratto questo film da un romanzo di Ercole Patti, che ha avuto abbastanza fortuna ed è stato anche trasferito recentemente sulle scene. Sia il libro, sia la pellicola trattano di un giovane intellettuale, Marcello, il quale incontra per caso un’attricetta, Anna, e se ne innamora d’un colpo. La ragazza è quella che, per certi versi, si potrebbe definire una fanciulla libera: con incan- tevole candore e arrendevolezza aliena da malizia e doppi fini, ella si concede, lieta del suo stato, a svariate persone nelle quali le capita di imbattersi: un matu- ro e danaroso uomo d’affari, un modesto attore, un fotografo e un cantante di avanspettacolo. Nonostante la simpatia che la lega a Marcello, Anna è fatta per essere di tutti e di nessuno. Marcello, che è attratto da un personaggio così sconcertante e pur intimamente lindo, commette l’errore di non capire la vera personalità della sua amante, dea in sedicesimo votata esclusivamente all’amo- re, e circonda Anna di un affetto ossessivo, ingombrante, geloso, pieno di sospetto e, a sprazzi, toccato da una punta di umana pietà. Anna, però, scom- bussola i suoi schemi mentali di spregiudicato intellettuale, che, in fondo, cova aspirazioni e atteggiamenti da fidanzatino piccolo-borghese. La separazione si renderà inevitabile. Su questa traccia sottile e delicatamente sfumata da Ercole Patti, Dino Risi ha ricavato un film che cuce e illustra le pagine più essenziali del testo letterario ispiratore. Il regista, tuttavia, ha avuto soprattutto il torto di imprimere alla narrazione un tono sgombro da qualsiasi intento ironico, e di spostare la vicenda, immaginata da Patti, in un clima teso e drammatico, che fra l’altro spiana la strada a un finale di sapore moralisticheggiante. Sotto questo aspetto, ci sembra che la versione filmata di Un amore a Roma tradisca lo spi- rito del romanzo, cui si richiama, e nel contempo non offra nemmeno la con- tropartita di un adattamento suscettibile di soluzioni conformi al mezzo espres- sivo adottato. Mylene [sic] Demongeot, Peter Baldwin, Elsa Martinelli, Claudio Gora e Vittorio De Sica sono gli interpreti principali.

«Il Messaggero», 15 gennaio 1961 Un amore a Roma

Il romanzo di Ercole Patti dal quale Dino Risi ha tratto, dopo almeno una dozzi- na di pellicole «facili», questo suo primo film «impegnato» è stato, per ammissione del- lo stesso scrittore, un libro fortunato. Uscito nel 1956 e subito tradotto in varie lin- gue, Un amore a Roma fu portato sulle scene, circa due anni fa, da Lucignani ed ha perfino dato lo spunto ad una canzone. Era dunque un successo già prima del film di Risi e una trasposizione cinematografica, in queste condizioni, presentava troppe tentazioni e difficoltà per non suscitare un’istintiva diffidenza. Ma come la sceneggia- tura di Flaiano vinse la diffidenza dell’autore, dobbiamo dire che il rispetto dimostra- to dal regista per l’atmosfera e la psicologia dei personaggi ha vinto la nostra.

Raccontando l’amore di Marcello (un giovane intellettuale che non si concede illusioni ma nemmeno disperazioni) per Anna, un’attricetta che non può fare a meno di tradirlo semplicemente perché non ha la forza di agire diversamente, cioè per indolenza più che per perversità, Risi sembra essersi ricordato che i personaggi di Patti esistono e si orientano attraverso le sensazioni e non secondo una logica spiri- tuale o una meccanica di atti e di volontà. Marcello si innamora di Anna, incontrata casualmente la notte in cui ha troncato un altro amore, per certi particolari che il film non può certo rendere tangibili ma tuttavia suggerisce. Così, il fatto che Anna lo tra- disca occasionalmente e che egli accetti questa realtà apparentemente illogica, non fa di Marcello un personaggio passivo, schiavo d’una passione torbida. C’è, nella loro diversità, nel loro scambiarsi il dolore e il piacere, una naturalezza che impedi- sce qualsiasi forma di giudizio. E poiché ogni dramma è in definiva un «giudizio», non possiamo imputare al regista certe disuguaglianze di stile (talvolta ci è parso di riconoscere in questa Anna, pur così sensitivamente caratterizzata da Mylène Demongéot [sic], una recente «Manon») e la sostanziale lentezza (e tendenza alla divagazione) del racconto, che non ha e non potrebbe avere un finale.

Nessuno infatti potrà persuaderci che, come già una prima volta, Marcello non riannoderà la relazione con Anna e che l’averla restituita così violentemente all’ulti- mo dei suoi non amati amanti, non sia un episodio, soltanto un episodio, di questo strano amore. I pregi del film vanno, come si diceva, ricercati altrove e forse nel mor- bido equilibrio che Risi ha saputo creare tra i personaggi e i luoghi, grazie anche alla nitida fotografia in bianco e nero e all’accompagnamento musicale. Per finire, rico- nosciamo che Peter Baldwin ha impersonato Marcello con quella contenutezza e quel tatto che appunto richiedeva un personaggio verso il quale Patti tradisce tanta simpatia. Compostamente bravi, nello interpretare le figure che fanno da contrap- punto ai protagonisti, Elsa Martinelli, Maria Perschi [sic], Claudio Gora e gli altri.

Vice

«Il Popolo», 15 gennaio 1961 Un amore a Roma

Un libro di Patti, una sceneggiatura di Flaiano, una regia estremamente abile di Dino Risi danno vita a un film accattivante e inconsistente, che sembra dir molto e

finisce con il non dir nulla. Vi è persistente traccia di certo filone del cinema italiano che ha la sua punta più avanzata e più nobile, anche se non sempre compiutamen- te espressa, in Antonioni, certo psicologismo sottile che vuole adombrare una pro- spettiva morale e una crisi di valori. Ma questa prospettiva e questa crisi sono sola- mente accennate e non mai impostate chiaramente nel film di Risi che si ferma alla superficie, al racconto e non cerca mai di capovolgerne l’angolazione per farne sca- turire un significato interiore.

Resta la storia, molto ben raccontata, anche se con frequenti ripetizioni, di Marcello Cenni, aristocratico e saggista dilettante, svogliato e di modesta fortuna e di Anna, ballerinetta senza spina dorsale e sempre pronta ad ogni invito, incapace di prendere una decisione e di costruirsi una vita. Si incontrano in una piazza della vec- chia Roma, si innamorano, si lasciano, una, due, tre volte, per indolenza, per pigri- zia; e poi per pigrizia e per indolenza ritornano assieme fino all’ultimo, finale e non più smentito addio.

Il film è tutto qui, nella definizione, difficile dei due personaggi e nella descrizio- ne ambientale, abilmente giocata su due piani, su quello di Marcello e dei suoi sva- gati amici della «buona società» e su quello di Anna e dei suoi squallidi teatri di posa cinematografici e degli ancor più squallidi palcoscenici dell’avanspettacolo. Qui, nel costruire attorno ai due personaggi, tutta una serie di annotazioni, di ritrattini, nel muoversi in una Roma certamente non inedita ma spesso suggestiva, il film trova i suoi momenti più felici e più intensi. È la definizione psicologica dei personaggi che è talvolta sfuggente, che non raggiunge la tipicità e resta a uno stadio descrittivo e narrativo di non ampio respiro.

Questo racconto, poi, se ha il merito di essere tenuto su di un piano unitario, sen- za fratture e senza cedimenti, denuncia al tempo stesso, oltre alla consueta e fasti- diosa scoria sensuale, scarso rilievo e l’assenza di nodi centrali su cui poggiare sal- damente le sue fila.

Dino Risi racconta bene, ha maturato il suo mestiere fino a portarlo a un notevo- le livello, ma dà impressione di aver poche cose da dire, di fare del cinema fine a se stesso e non di usarne strumentalmente per illuminare dei personaggi e, attraverso di loro, degli spettatori. Attorno a Mylene [sic] Demongeot e Peter Baldwin, protago- nisti, l’interpretazione di Claudio Gora, di Elsa Martinelli, di Jacques Sernas, di Maria Perschi [sic], di Vittorio De Sica, la fotografia di Mario Montuori e le musiche di Carlo Rustichelli contribuiscono ad aggiungere al film artigianali ma non ha trascurabili pregi.

P. V. [Paolo Valmarana]

«Il Secolo d’Italia», 15 gennaio 1961 Un amore a Roma

Fummo fra coloro che salutarono in Dino Risi, al suo sorgere con «Poveri ma belli», un regista giovane e pieno di brio ed a lui affidammo ed affidiamo ancora credito anche se l’impegnativo film con cui si presenta oggi, «Un amore a Roma», non ci ha convinto del tutto. Tratto dall’omonimo romanzo di Ercole Patti, sceneg- giato da Ennio Flaiano il film si presentava come una delle tante «attese» della pre-

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