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Strategie e sentimenti nelle scelte successorie della Marchesa

IV.1 Le scelte successorie: primogeniti e cadett

«Il testamento aristocratico è un documento molto lungo, spesso anche un centinaio di pagine delle quali la maggior parte è dedicata a precisare la destinazione ed eventualmente la futura gestione del patrimonio, con una complessità di clausole dovuta al carattere composito dei patrimoni nobiliari, beni feudali e beni burgensatici con regimi giuridici differenti e all’interno di essi proprietà fondiarie, urbane, rendite pubbliche, gioielli, biblioteche…»292. A partire dalla fine del Cinquecento la parte del testamento dedicata alla trasmissione dei beni divenne molto dettagliata in quanto era generalizzata la pratica di non dividere il patrimonio, ma di affidarlo interamente al primogenito al fine di orientare il flusso della ricchezza all’interno del proprio nucleo familiare. In tal senso il testamento divenne un importante strumento di orientamento delle pratiche successorie familiari. A questo si arrivò attraverso un arco di tempo lungo e mediante soluzioni alternative, quali la successione di rami collaterali nel caso di completa estinzione del ramo di primogenitura; la successione di famiglie allargate attraverso i matrimoni delle figlie nel caso di estinzione dei rami maschili. A ciò si aggiungevano i fidecommessi, i vitalizi ai cadetti, gli usufrutti alle vedove, le doti alle figlie293.

In linea con tali logiche, sul finire degli anni Trenta del Settecento, Sinforosa Mastrogiudice cominciò a pensare a modalità di trasmissione delle sue ricchezze che fossero volte a non vanificare i risultati conseguiti con l’incremento patrimoniale e a garantire gli interessi a lungo termine del casato. Ella non poteva non vivere i condizionamenti della cultura nobiliare del tempo che affermava ancora fortemente il modello patrilineare e, al momento di fare testamento, si adoperò per l’affermazione di tale modello al quale si attenne, non senza mostrare di aver ricercato soluzioni alternative e originali che non andassero totalmente a discapito del figlio cadetto Diego. Nella spartizione dei beni tra gli eredi maschi, infatti, la marchesa cercò di garantire il rispetto

292 M.A. Visceglia, Il bisogno di eternità, cit., p. 13. 293

Per la più recente tradizione di studi si rimanda agli Atti, di prossima uscita, del Convegno

Fedecommesso e meccanismi di conservazione dei patrimoni, École française de Rome,

dell’ordine gerarchico dato dalla nascita, ma non permise che questo creasse troppe disuguaglianze ed eventuali dissapori tra i fratelli nocendo alla coesione familiare. Vincolò, pertanto, il patrimonio attraverso un particolare bilanciamento di legati concatenati tra loro i quali, come vedremo, subirono non poche, ulteriori modifiche294.

Nonostante, infatti, a partire dalla metà del XVI secolo, si fosse formata una trattatistica sulla primogenitura, la prassi di trovare adattamenti all’interno del diritto per bilanciare lo svantaggio dei cadetti sopravvisse fino a tutto il Settecento. Questo atteggiamento, fin dalle origini, era stato favorito dalla concezione religiosa del dictum beati, in cui le virtù caritatevoli della pace tra i fratelli tranquillizzavano le coscienze dei titolari delle primogeniture non meno di quelle dei capifamiglia che, ricorrendo alle successioni primogeniturali agnatizie, generavano il disorientamento di figli e figlie. Da sempre, infatti, in queste dinamiche erano coinvolte anche le coscienze dei diseredati che vivevano sulla propria pelle un’ingiustizia295. C’era, poi, la religione a

richiamare un ordine al quale appellarsi rispetto a quello del diritto. Ciò non vuol dire che i due ordini fossero in conflitto tra loro. I giuristi stessi registravano il dettato religioso quasi a volerne sancire la validità nella risoluzione di situazioni particolari nelle quali il diritto, seppur degnamente confinato, non poteva entrare in pieno. Riferendosi alle norme che dovevano guidare le relazioni personali all’interno dei gruppi, si affermava che tra padri e figli dovessero vigere virtù come la caritas, l’amicitia, la pietas, la reverentia, e la stessa iustitia. Pertanto le famiglie, nelle politiche successorie, ricorrevano anche a ciò che si poteva definire una potestà domestica priva di giurisdizione che, naturalmente, si affiancava alla patria potestà del titolare della primogenitura che costituiva potestas publica296. In una società stratificata come quella settecentesca, fortemente segnata dalla mentalità e dai comportamenti rivolti alla salvaguardia del prestigio e dei privilegi nobiliari, le madri che avevano la possibilità di gestire direttamente le successioni si trovavano

294 Un caso simile, seppur precedente, è quello della duchessa Beatrice Caracciolo la quale si

comportò come la Mastrogiudice quando scelse di dividere i suoi averi tra i tre figli maschi Petraccone, Innico e Gianbattista. A tal proposito si veda E. Papagna, Sogni e bisogni di una

famiglia aristocratic, cit., pp. 103-104. Sul tema si veda anche e G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994 e il più recente lavoro di I.

Fazio, D. Lombardi (a cura di), Generazioni, cit.

295

B. Clavero, Dictum beati. A proposito della cultura del lignaggio, in «Quaderni storici», 86, 2, 1994, p. 341.

istintivamente ad applicare il modello plasmato dal dictum beati le cui virtù erano già insite nella condizione materna.

È in quest’ottica che vanno collocate le decisioni di Sinforosa Mastrogiudice relative ai lasciti al figlio cadetto Diego. Tali scelte furono, probabilmente, il frutto di una umanità che poté essere guidata dalla religione prima che dal diritto, oltre che da sentimenti e motivazioni culturali che solo donne libere di gestire in prima persona i propri beni potevano seguire. Nel caso di Diego le disposizioni materne rispondevano, inoltre, alla logica dell’istituto della «vita et

militia» del quale solitamente beneficiavano i cadetti. Nella trattatistica

giurisprudenziale napoletana di Cinque e Seicento tale istituto era definito «onus reale feudi» perché gravava non sul dominio, ma sulla rendita derivante da questo indipendentemente da chi la percepiva. Il dibattito ruotava intorno alla questione se per la «vita et militia» dovesse intendersi la porzione di beni ereditari corrispondente alla legittima o un semplice sussidio. Nel Settecento prevalse la seconda interpretazione che fece seguito alla prima “in vigore” nei due secoli precedenti297. Inoltre, proprio tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo, prevalse una drastica riduzione della cifra spettante alla «vita et militia» che venne fissata una volta per tutte per essere sganciata da qualsiasi rapporto con le variabili che precedentemente l’avevano determinata: numero dei figli e ammontare complessivo della fortuna.

Ma procediamo per gradi.

Fin dagli inizi del Settecento, le modalità di destinazione del patrimonio dei Ceva Grimaldi erano state definite dal marito di Sinforosa, il marchese Giovan Francesco, che sarebbe poi morto nel 1707298. Nel suo testamento, infatti, questi pare avesse stabilito che l’erede universale del casato sarebbe stato il primogenito maschio nato dal matrimonio con la Mastrogiudice, e che al secondogenito Diego, destinato alla vita ecclesiastica, sarebbe spettato un vitalizio annuo di 500 ducati299.

297

M. A. Visceglia, Linee per uno studio unitario dei testamenti e dei contratti matrimoniali, cit., pp. 413-414.

298 A tal proposito R. Ago, Giovani nobili nell‟età dell‟assolutismo: autoritarismo paterno e

libertà, in Storia dei giovani, a cura di G. Levi e J. C. Schmitt, Roma, Laterza, 1994, vol. I, pp.

375-426.

299 Non si dispone del testamento di Giovan Francesco Ceva Grimaldi, ratificato a Napoli. Dei

legati ivi contenuti si ha notizia indiretta dalla “Constitutio patrimonis” del figlio Giuseppe Maria Ceva Grimaldi conservata in ASCB, Protocolli notarili, piazza di Pietracatella, Notaio Muccia Antonio, 1725, f. 18r.

A rispetto delle volontà del defunto padre, il 12 febbraio 1725 il giovane Giuseppe Maria Ceva Grimaldi, primogenito di Sinforosa, ratificava mediante il notaio Mucci di Pietracatella di essere disposto da quel momento a concedere il vitalizio al fratello minore sostenendo, tuttavia, che l’ammontare dello stesso sarebbe stato di 400 ducati:

costituito in presenza nostra l’eccellentissimo signor don Giuseppe Maria Ceva Grimaldi, marchese di Pietracatella, figlio ed erede della buon anima dell’illustrissimo signor don Francesco, aggente et interveniente alle cose infrascritte per se, e per li suoi eredi e successori. Spontaneamente have asserito, avanti di noi, qualmente nell’ultimo solenne testamento condito per detta buon anima di suo padre nella città di Napoli, rogato per mano de magnifico Notaro […], fu istituito esso eccellentissimo signor marchese universale e particolare suo erede sopra tutti li suoi beni, entrade, tanto feudali quanto burgensatici, con il legato e peso al detto eccellentissimo signor marchese suo erede, che avesse avuto da dare all’illustrissimo signor don Diego fratto utriunque congiunto, secondo genito, per ragione del suo piatto, e per porzione paterna e legittima, annui ducati quattrocento. E fatta l’asserzione predetta, volendo il detto eccellentissimo signor marchese adempiere la disposizione fatta dalla detta buona anima di suo padre, e conforme ha detto in presenza nostra il detto signor marchese, ch’il detto signor don Diego suo fratto vuole promonersi alle cose spirituali, spontaneamente. Dunque, oggi sopradetto giorno, non per forza o dolo alcuno, ma per ogni miglior via e modo, in vigore del predetto testamento di suo padre, da hora liberamente ha costituito et assegnato, e per titolo di costituzione et assegnazione predetta per fustem iure proprio, et in perpetuum ha dato al detto illustrissimo don Diego assente, et a me Notaro per esso presente recipiente, stipulate, et accettate, annui docati cinquecento sopra li fiscali, ed entrade della detta terra di Pietracatella. E questo tanto per il suo piatto, e porzione paterna, e sua legittima, quanto per il suo patrimonio, acciocché primieramente il detto signor Diego possa promoversi agl’ordini clericali, ed indi poi coll’aggiunto di Dio benedetto agl’ordini sacri, servata la forma del Sacro Concilio Tridentino, franchi e liberi li suddetti annui docati quattrocento sopra li detti fiscali, ed entrate di detta terra di Pietracatella, et a nessuno venduti, né obbligati, e con tutti, e singoli loro iussi, ragioni, et intiero stato. Di modo che, da hoggi in avanti et in perpetuum, li suddetti annui ducati quattrocento, come sopra costituiti et assegnati sopra detti fiscali ed entrate, passino e siano nel pieno dominio, possessione, et percettione del detto don Diego assente, e per esso a me Notaro presente, et accettante e delli suoi eredi e successori ad habendum cedendoli ogni iusso, ragione, et attione ad detto signor marchese competente non riservandosi iusso e ponendolo nel suo luogo, grado e prelazione. Et si è costituito, da hora in avanti, per semplice costituto e vuole esser tenuto per legge, ragione, et uso. Et ha promesso e convenuto, il predetto signor marchese, solenne stipulatione in presenza nostra al detto signor don Diego assente, et a me notaro per esso presente, et accettante la costituzione, et assignatione del detto patrimonio, e tutte le cose nel presente instrumento contenute, sempre averle per rate, grate, e ferme, et a quelle non contravvenire per qualsiasi causa, ma inviolabilmente attendere et osservare. E per osservanza delle cose predette spontaneamente detto eccellentissimo signor marchese ha obbligato se stesso, suoi eredi e successori, e beni tutti presenti e futuri, anco feudali, e titolati di qualsiasi titolo, salvo il Regio assenzo al detto illustrissimo signor

don Diego assente, et a me Notaro per esso presente, et accetante sub persona e ad personam dupli meditate cum protestate capienti constitute precarij renunciavit, et iuravit. Videlicet300.

I rapporti tra i due fratelli, seppur apparentemente sereni come traspare dalle carte, non erano caratterizzati da estrema trasparenza in merito alle volontà paterne. Diego, infatti, sosteneva che il vitalizio a suo nome era di 100 ducati maggiore rispetto a quanto suo fratello gli aveva versato fin dal 1725. Sceglieva tuttavia, nel 1727, di percepire solamente 300 ducati in quanto aveva «conosciuto che pigliandosi detto vitalizio di ducati cinquecento e vivendo da sé solo a casa, a parte li saria più tosto di danno che utile».

Così il 16 aprile di quell’anno il notaio Giuseppe Recchia di Pietrcatella ratificava:

nella nostra presenza personalmente si sono costituiti liberamente il signor don Giuseppe Maria Ceva Grimaldi attuale marchese di detta terra di Pietracatella, il quale age ed interviene alle cose infrascritte per se stesso, suoi eredi e suoi da sua parte.

E l’illustrissimo signor don Diego Ceva Grimaldi, fratello di detto Don reverendissimo signor marchese, il quale similmente age ed interviene alle cose infrascritte per se stesso, suoi eredi ed suoi, dall’altra parte.

Il predetto signor marchese have asserito nella nostra presenza e di detto illustrissimo don Diego, essere al medesimo debetore in docati cinquecento annui per causa del patto, seu vitalizio, lasciatogli dal quondam don Francesco Ceva Grimaldi, loro illustre padre, nel suo ultimo testamento stipulato per mano del magnifico di […] si come suo figlio secondogenito anco possa colli medesimi mantenersi da tale di vitto, vestibo, ed altro necessiti da daverli puntualmente dal predetto signor Marchese erede e figlio unigenito, morendo di detto marchese illustrissimo don Francesco sopra la sua eredità nel tempo, che detto illustrissimo signor don Diego era di età d’anni dieci’ otto compiuti, senza che altro possa pretendere come figlio del medesimo da detta sua eredità. Perlochè, in virtù della di sua disposizione di detto illustrissimo loro padre, se li doveniano detti ducati cinquecento di vitalizio, che el detto illustrissimo signor don Diego pretendeva dal detto suo fratello primogenito il quale con tutta puntualità s’era offerto darcelo senza ripugnanza alcuna, serbava la disposizione fatta in detto suo voluto testamento. Ma perché detto illustrissimo signor don Diego ha conosciuto che pigliandosi detto vitalizio di ducati cinquecento e vivendo da se solo a casa, a parte li saria più tosto di danno che utile, non meno che incomodo dotabile a che di stare separato da detto suo diletto fratello che tanto li dispiaceria per essere il tutto contro il suo naturale, ed essere di cavaliere tanto più che vive sicuro della ricompensa benigna di detto illustrissimo signor marchese. A tal affetto di due loro con esso ed accordo per vivere da veri affettuosi fratelli tali quali si stimano ed amano ed, uniti in una istessa casa secondo sia bramato degno, spontaneamente senza forza né dolo alcuno ma per ogni meglior via e modo e per maggiore

timore di loro reciproco comodo, hoggi predetto giorno sono ambidue all’infradetta conferire ed accordare.

In primis detto illustrissimo don Diego rilascia a detto signor marchese trecento ducati, ed accettante per altre di tutte le esenzioni che quomodunque et qualibecunque li possano spettare e competere sopra l’eredità di detto suo padre, anche per ragion di lezione enorme o […] che non potesse contare vitalizio mantenersi da suo pari. E per ciò venire contra detto testamento et disposizione in ipso approtato o altro in qualunque modo e maniera li potria spettare e competere per docati trecento annui sopra ad vitalizio, riserbandosi solo sopra di esso illustrissimo signor don Diego annui ducati duecento da poterli conseguire mese per mese da detto illustrissimo signor marchese suo fratello, acciò possa consentirsi di biancheria, vestibo, ad altro li necessiti per il suo mantenimento. Questi docati duecento, detto signor marchese ha promesso que si è obbligato pagarceli mese per mese puntualmente senza dimora né ripugnanza alcuna, cioè di docati sedeci, tarì tre, grana sei, e cavalli otto al mese, con fare la predetta paga addì 25 maggio del corrento anno 1727, e così insolutum continuare mese per mese in pace senza lite, né eccessi alcuna alla quale, con giuramento, detto eccellentissimo Signor Marchese have renunciato. All’incasso detto illustrissimo signor marchese ad esso rilascia suddetto di detti docati trecento annui sopra detto vitalizio. Ha promesso, e si è obbligato, dare l’abito a suo fratello como da secondogeniti dentro l’istessa casa dove lui abita; in qualunque luogo mangiare; un servitore; cameriere e cavalli da mantenere; il tutto a sue proprie spese di detto illustrissimo signor marchese a li stesso e ricompensa di detto dividendo di rilascio sopra il suo vitalizio di docati cinquecento annui.

Di più, ha dichiarato detto illustrissimo signor Diego, essere stato pienamente soddisfatto sin oggi predetto giorno dal vitalizio suo suddetto di cinquecento ducati annui, dal giorno ad esso maturato per causa dell’età d’anni 28, anzi di vaneggio per essere stato mantenuto da detto illustrissimo signor marchese nel seminario di Roma a proprie spese di docati […] ma con maggior spesa del suddetto vitalizio. Quale spesa di […] per amore fraterno, celandone per volontà di donare senza che possa pretendere essa nel sopra detto vitalizio, o altro suo corpo, quietando affatto detto illustrissimo sigor don Diego in altra forma, stiamo per detta spesa di vantaggio fatta in detto seminario. Versa dice detto illustrissimo sigor don Diego per il vitalizio di sei mesi potria pretendere docati […] come ritornato da Roma ed immolato in casa di detto suo fratello a proprie spese del mese dedottane, però, l’abitar e […] come sopra stabilito a vicenda per detto spazio di sei mesi per amore fraterno detto illustrissimo Sigore celò, dona per bontà di donare sentendosi sin oggi ben soddisfatto del passato non riserbandogli rancore alcuno.

A rispetto del contenuto nel punto infrascritto sola il signor don Diego riserva, sopra detto vitalizio, la consegne di detti docati duecento annui, cioè docati sedeci, tarì tre, grana sei, e cavalli otto al mese, come sopra sia stabilito e determinato.

Di più detto illustrissimo signor marchese, per far cosa grata a suo fratello e farli conoscere il vero affetto, l’apporta in questo corrente anno si contenta, come ha promesso, darli docati trenta di maggese, però una tantum per quest’anno solamente, grazia et amore dei e senza interesse alcuno e senza che possa portarsi pregiudizio in futuro.

Questa parte per pacem espressione sollevata dispone attenta la suddetta confirma del predetto atto testando del di loro illustre padre e dispone a che esso contenuto segnatamente del feudale vitalizio che tutti dui l’hanno dato […] e perciò ratificano, omologano, ed accettano detto

testamento e quanto in esso si conviene come valida sentenza, senza che da nessuno di essi si possa in futuro risentire […]301

.

In una società in cui si voleva, e molto spesso accadeva, che il destino di una persona fosse scritto nella sua nascita, quello di Diego fu dunque un destino di subordinazione. La strategia di eternare il casato sulla base della conservazione del patrimonio, dalla quale Sinforosa Mastrogiudice non restò immune, provocò inevitabilmente una disparità di trattamento tra i suoi figli. Anche Diego Ceva Grimaldi, quando scelse di donare una parte di eredità paterna in cambio del vitalizio di 300 ducati, non compì un gesto inconsueto. Non erano pochi, infatti, i cadetti di grandi casate che recepivano le volontà paterne in merito all’eredità comportandosi allo stesso modo: nel 1667, ad esempio, Domenico dei Bracci di Firenze, priore di Vinci, aveva lasciato la quarta parte della sua eredità al fratello primogenito Onofrio in cambio di una rendita a vita di 100 scudi l’anno302

.

Le ambiguità della legislazione del tempo, le contraddizioni tra fratelli del sistema successorio e di quello delle doti, rendevano fisiologica una sorta di litigiosità che nel caso in questione trovava non poche premesse. Probabilmente consapevole di questo, già dal 1735, Sinforosa aveva deciso di effettuare delle donazioni di beni burgensatici a Diego. Il 27 luglio di quell’anno, infatti, il notaio De Amicis di Larino si era recato a Montorio nei Frentani per incontrare di persona la marchesa e suo figlio e ratificare che quest’ultimo entrava in possesso di tre mulini ad acqua:

[…] uno successivo all’altro, quasi tutti diruti, situati e posti nelle pertinenze della suddetta terra di Bonefro, luogo detto la Canale, con sei versure di territorio intorio, per commodo di detti molini, confinante col bosco di San Vito da una parte, e dall’altra parte cogl’altri territori di detta eccellentissima signora […]303

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La decisione di Sinforosa, ovviamente, fu ben gradita a Diego il quale, seguendo l’esempio materno, iniziò immediatamente a far fruttare i propri beni. Da un rogito recante la stessa data della donazione, infatti, sappiamo che Diego la accettò e comparve innanzi al notaio unitamente a tali «Mastro Nicolò