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LENTE APPARIZIONI Prefazlona di Mario Mazzantlni

di Paolo Vineis

LENTE APPARIZIONI Prefazlona di Mario Mazzantlni

Lire 17.500

"Posso dire chedal primo in avanti il bisogno dicontinuarocreeceadogniverso...' Anna Piccioni Galeazzo Lanzi VIANDANTI Prefazione di WalsrNtsU Lira 15.000

La poesia non ha patria, i errante, zingara, viandante.

Claudia Lorsnzlnl

FUOCHI D'OMBRE• Lira 13.000 Per non essere soli sullaterrae'ò bisogno che non vengano a mancare né le illusioni né i canti.

Roberto Mantovani

DISGREGATEALBE-Ure16.500 Guardare, come da un osservatorio, alla vita. Capirne e carpirne i segreti. Luciano Serra

DOVE REGNA L'IRREALE • Ure 19.000 Alla ricerca dell'idillio onde riconoscere assenze e mancanze sempre più importanti.

GIOVANNI B E R L I N G U E R , Questioni di vita. Etica, scienza, salute, Einaudi, Torino 1991, pp. XVI-255, Lit 26.000.

Come ricorda ampiamente Berlin-guer, non fa ancora parte della for-mazione dei medici italiani una di-scussione aperta sulle implicazioni etiche del loro lavoro. Nei corsi uni-versitari viene trasmesso un numero limitato di nozioni sull'argomento, per lo più in un contesto

medico-legale (riguardante cioè le responsa-bilità civili e penali). Mi è capitato recentemente di sollevare alcune ba-nali questioni di etica con i parteci-panti ad un corso di specializzazione in medicina interna, dunque colleghi già laureati e per la maggior parte già inseriti in strutture ospedaliere; con mio stupore, buona parte di questi medici non riteneva particolarmente utile aprire una discussione pubblica sulla problematicità di alcuni atti me-dici. La loro opinione era che si tratti di una questione privata, del singolo medico, da risolversi nel chiuso delia sua coscienza.

Una parte di questi medici

opera-va in un ospedale dove viene offerto al pubblico un gran numero di test per la presunta diagnosi precoce di vari tipi di tumori. Per molti di que-sti test (volti per esempio a diagnoque-sti- diagnosti-care precocemente un tumore della prostata, o del polmone, o dell'ovaio) non vi è al momento alcuna prova di reale efficacia. Ma la mancanza di un'efficacia dimostrata ha ovvi ri-svolti etici. Provo ad elencarne solo qualcuno: per restare alla tradiziona-le terminologia dell'etica al tradiziona-letto del

paziente, non si rispetta certo l'"au-tonomia decisionale" del paziente quando gli si propone un intervento di cui non si prevede esattamente l'e-sito e di cui pertanto, a fortiori, non si è in grado di spiegare l'utilità. Op-pure: non si può non porsi il proble-ma dell'accessibilità al servizio, e dunque il problema della sua pianifi-cazione, se non a rischio di violare un altro importante principio, quello dell"'uguaglianza di accesso". Nel caso poi dello screening per i tumori vi sono problemi etici addizionali: a differenza degli interventi medici in cui "si presta un soccorso" su precisa richiesta, nello screening si promette

un beneficio probabile (ma mai certo al livello individuale) ad una persona fino a quel momento ritenuta sana. Dunque, lungi dal non costituire og-getto di possibili considerazioni eti-che, le attività professionali dei miei colleghi erano gravide di importanti e poco discusse implicazioni. Vi è un nesso profondo tra aspetti tecnici (dimostrazione di efficacia delle pra-tiche sanitarie) e aspetti etico-politi-ci.

Uno dei grandi pregi del libro di Giovanni Berlinguer è proprio il con-tinuo riferimento ad entrambi questi piani, come peraltro in altri testi del-lo stesso autore. Per questo il libro è da consigliare ai giovani medici e agli studenti. Come fa notare Berlinguer,

secondo una ricerca americana con-dotta tra gli studenti di medicina, nel passaggio dal primo al sesto anno si verificava un'attenuazione dello spi-rito umanitario e un incremento del cinismo. Se fosse più chiaro al meco che una pratica di efficacia non di-mostrata è anche una pratica etica-mente non accettabile, verrebbe in-crementato l'atteggiamento critico verso la routine quotidiana e verso l'introduzione di nuove attività poten-zialmente invasive come gli screening di massa. Un altro merito del libro è quello di ricordare che la bioetica non è solo e necessariamente una di-sciplina "di frontiera", non si appli-ca cioè solamente a appli-casi estremi do-vuti allo sviluppo delle tecnologie biomediche, come la fecondazione artificiale. In termini quantitativi (considerando il numero delle perso-ne coinvolte), sono certamente e di gran lunga più importanti i "proble-mi quotidiani", come i maltratta-menti subiti dai pazienti, le speri-mentazioni incontrollate, la diffusio-ne con criteri consumistici dell'uso di taluni farmaci. Inoltre è ovvio che in un sistema sanitario in cui non venga adottato un rispetto sistemati-co dei diritti dei pazienti è improprio introdurre pratiche tecnologiche i cui presupposti etici sono ad un livel-lo di ordine superiore in termini di complessità concettuale; esattamen-te come è improprio introdurre il

tra-pianto del fegato in un ospedale in cui i pazienti attendono due anni per un'operazione di prostata. Un altro problema sollevato dal libro è il diva-rio tra il numero di nuovi diritti rico-nosciuti ai vari soggetti sociali (e da questi rivendicati) e la concreta mes-sa in pratica di azioni volte a garan-tirli. Questa considerazione, già fat-ta da Norberto Bobbio (per esempio in L'età dei diritti), è cruciale per la medicina, dove i soggetti coinvolti sono spesso in condizioni di debolez-za e di soggezione.

Il libro affronta poi temi più ampi, inclusa la responsabilità nei confron-ti della natura e delle generazioni fu-ture. Su questi temi vorrei esprimere due considerazioni stimolate dal li-bro, ma che meriterebbero di essere espanse. La prima si riferisce ai dirit-ti degli animali o della natura. A me pare che il concetto di diritto sottin-tenda la capacità di esprimere una ri-vendicazione: il diritto è qualcosa che viene espresso, rivendicato, dife-so da chi ne è portatore, altrimenti non si tratta che di un'immagine in negativo del dovere. Ma allora non ha alcun senso parlare di diritti degli animali o delia natura, che sono enti-tà ovviamente incapaci di esprimere qualunque rivendicazione. Quando si parla di "diritto" di queste entità bisognerebbe chiarire che ci si riferi-sce in realtà ai nostri doveri nei loro confronti. Il problema è tutt'altro che ozioso e semantico. Il parlare so-lamente di diritti (e anzi universaliz-zare alcuni di questi, come il diritto alla proprietà) è stato tipico delle de-mocrazie nate dalla rivoluzione fran-cese. Ma, come si è espressa Simone Weil, il diritto è per definizione sem-pre relativo e condizionato, essem-pres- espres-sione di particolarismo; solo il dove-re è assoluto e incondizionato. Que-sta considerazione ha due implica-zioni: la contraddizione in cui sono caduti gli illuministi quando parlava-no di "diritti universali", e l'inevita-bile conflittualità e debolezza intrin-seca di un sistema etico interamente ed esclusivamente basato su diritti — e dunque su rivendicazioni —, an-ziché su doveri. Un tale sistema ten-derà a presentarsi, commenta la Weil, come basato su concetti quali "spartizione, scambio, quantità": "ha qualcosa di commerciale. Evoca il processo, l'arringa". Non procedo oltre, ma credo che una discussione sul significato, oggi, di termini quali diritto e dovere (verso i pazienti, ver-so gli animali, verver-so la natura) non sarebbe inutile. E, ancora una volta, il libro di Berlinguer potrebbe esse-re, in campo biomedico, un buon punto di partenza.

La seconda considerazione è di or-dine biologico: è stato affermato che gli uomini, come "macchine ciberne-tiche", si sono selezionati nel corso dell'evoluzione per reagire in modo immediato a stimoli di breve o media durata. Le preoccupazioni circa le conseguenze sul lungo periodo, addi-rittura nell'arco di generazioni, non rientrerebbero nel bagaglio delle rea-zioni istintuali dell'uomo. Di qui l'importanza che assume la cultura come elaborazione consapevole di un'etica delia responsabilità sui lun-go periodo; non si può contare su un istinto biologico di conservazione, perché "la selezione promuove ciò che è immediatamente utile, anche se il cambiamento è fatale sul lungo periodo" (Dobzhansky). Una versio-ne pessimista di questa teoria potreb-be sostenere, non senza qualche par-te di verità, che l'uomo si è seleziona-to come un essere massimamente do-tato di capacità di trasformazione dell'ambiente, ed ha avuto dunque un considerevole successo evolutivo, ma proprio per aver spinto alle estre-me conseguenze tale attitudine è de-stinato a soccombere. A meno che uno straordinario salto culturale non lo renda capace di includere le conse-guenze sul lungo periodo tra le sue reali preoccupazioni.

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