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Lettere dall’esilio: anti-fascismo e tradizione ebraica

IV. Familiar letters at court

1. Lettere dall’esilio: anti-fascismo e tradizione ebraica

Molto spesso le lettere sono state considerate mere forme di scambio interpersonale, prive di qualsiasi valore cognitivo. Sarebbero mezzi impiegati per ricreare i paesaggi dell’interiorità attraverso una comunicazione privata tra soggetti, interessati a mantenere vivi sentimenti e affetti anche a distanza. Le lettere permettono dunque di affermare interattivamente la propria identità, ricorrendo al processo riflessivo della scrittura, indirizzata ad altri. Tuttavia, oltre che ad un valore privato, alle lettere è stato attribuito uno specifico significato politico, nel momento in cui le sorti di intere popolazioni o decisioni pubbliche sono state prese da uomini di stato, mediante il ricorso a scambi epistolari. La sfera privata e l’ambito pubblico sono dunque i due versanti, opposti e insieme speculari, che hanno caratterizzato l’interpretazione delle lettere secondo studi di carattere letterario, psicologico, socio-politico, storico, storiografico e filosofico. Ma le epistole hanno acquisito uno specifico valore cognitivo ed epistemologico, allorché sono state analizzate secondo una prospettiva di genere, ovvero secondo un’angolatura che non solo mette in luce le diverse sensibilità di e fra uomini e donne, ma soprattutto pone in rilievo una più complessa relazione fra la sfera privata dell’esistenza individuale e l’ambito pubblico del discorso politico. E la connessione fra vita personale e identità collettive appare tanto più evidente, quanto più le lettere vengono inviate da un luogo d’esilio, ovvero da una terra lontana dalla propria patria, abbandonata per motivi politici e/o razziali. Questioni personali si intrecciano qui indissolubilmente con domande politiche e con speranze sul futuro della propria nazione.

Tale problematica può essere esemplarmente rinvenuta in alcuni scambi epistolari intercorsi tra donne intellettuali e antifasciste di origine ebraica durante il loro esilio, avvenuto fra gli anni Trenta e Quaranta. Qui il ricordo simbolico e culturale della perdita della “terra promessa”, così come viene ricordato dalla Bibbia e come è stato trasmesso per secoli dal popolo d’Israele, diventa un potente vettore per sopportare l’esilio e per promuovere azioni rivolte al ritorno in patria. La memoria dell’esilio di matrice ebraica viene narrata in voce di donna e dunque rielaborata dalle nostre interlocutrici in chiave politica e secolare. L’esilio – dovuto alla presa di posizione contro la dittatura fascista – viene pertanto esperito secondo una specifica sensibilità di genere, come dimostra la stessa modalità di scrittura impiegata nelle lettere: l’empatia dei sentimenti morali si viene a identificare con la forza delle passioni politiche. In tale contesto, Amelia Rosselli può essere presa ad esempio, come colei che sa connettere in maniera costruttiva l’esperienza dell’esilio con la memoria del passato e le aspettative del futuro: riesce infatti sempre a far interagire nelle sue lettere la complessità dell’esistenza individuale con le biografie familiari e la storia collettiva.

Amelia Rosselli era stata la prima scrittrice di teatro in Italia alla fine dell’Ottocento e fino alla fine degli anni Venti fu una nota scrittrice al centro di numerosi dibattiti politici e iniziative culturali. Ma fino ad alcuni anni or sono, la Rosselli era soprattutto conosciuta come la madre di Carlo (fondatore del movimento di “Giustizia e Libertà”) e di Nello (storico), uccisi in Francia nel 1937 da sicari assoldati da Mussolini. Negli ultimi anni, Amelia Rosselli ha invece cominciato ad essere rivalorizzata come “scrittrice autonoma”, grazie alla pubblicazione di alcuni epistolari coi figli (Rosselli, 1979) e con amici (Rosselli, 1997), ma soprattutto per l’edizione delle sue memorie (Rosselli, 2001) e alla riedizione di alcune sue commedie teatrali. Come scrittrice epistolare e come narratrice autobiografica, Amelia RosselIi rappresenta in effetti un caso particolare all’interno del panorama letterario, intellettuale e politico italiano.

Attraverso un’incisiva modalità di scrittura, Amelia riesce infatti a trattare in modo innovativo, a rendere compatibili e a far coagire problematiche assai complesse che vanno dall’analisi introspettiva, alle comunicazioni con amici e personalità intellettuali e politiche del tempo, fino a riflessioni pubbliche sulla situazione politica del tempo. Sentimenti personali e passioni politiche sono pertanto congiunte in modo indissolubile, soprattutto quando le lettere dall’esilio non riescono a dissimulare l’attesa per il giorno dell’“immancabile vittoria” contro il nazi-fascismo.

L’esilio ebbe inizio per Amelia il 13 giugno 1937, quando raggiunse Parigi per la morte dei figli (Calloni 2002 a), e giunse a termine il 30 giugno 1946, quando Amelia rientrerà in un’Italia democratica e repubblicana, assieme alle mogli di Carlo e Nello (Marion e Maria) e ai suoi nipoti. Durante i nove anni di esilio, Amelia cercherà riparo in diverse nazioni: dopo aver abitato in Svizzera, a Villars-sur-Ollon dal 1937 al 1939, andrà a vivere nel Regno Unito, a Quainton- Bucks dal 1939 al 1940, per poi spostarsi negli Stati Uniti, a Larchmont, dove visse dal 1940 al 1946. Amelia, che era fuggita dall’Italia per via del suo antifascismo e per il rifiuto di continuare a vivere in una terra dominata da una dittatura totalitaria che aveva ordinato la morte dei suoi due figli, si troverà ad essere perseguitata anche per via del suo essere ebrea. La sua diventa una doppia fuga dal dominio brutale del nazi-fascismo. Il sentimento patriottico di Amelia, il suo sentirsi “italiana” (Calloni 2003), viene così a scontrasi con i dettami delle leggi razziali, che escludono gli ebrei non solo dal diritto di cittadinanza, ma cercano di annientarli come intero popolo. Riflessioni sulle sorti politiche dell’Italia e riflessioni sulla questione ebraica diventano dunque due elementi fondamentali che caratterizzano gli scritti e le lettere di Amelia durante l’esilio, tanto da motivare la scelta tanto dell’esilio volontario, quanto del rientro.

Come scrive Amelia nelle sue memorie,

“Anch’io perciò, nata e cresciuta in quell’ambiente profondamente italiano e liberale, non serbavo, della mia religione, che la pura essenza di essa dentro il cuore. Elementi religiosi unicamente di carattere morale: e fu questo l’unico

insegnamento religioso – se così si può chiamare, e che piuttosto che insegnamento era ispirazione – da me dato ai miei figlioli. Ricordo che il primo anno in cui mi trasferii a Firenze coi bimbi ebbi subito occasione di fare affermazione di questa italianità che non ammetteva due patrie. In quel principio di secolo s’iniziava anche in Italia il movimento sionista. Io ero ferocemente avversa ad esso, credendo di vederci un pericolo estremo per l’italianità degli ebrei. Anzi, addirittura lo negavo, con una veemenza piena di rancore e di odio. Mi rifiutavo di ponderarne con calma le cause. Sostenevo che l’ebraismo è una religione, non una razza: non ammettevo l’esistenza possibile di due patrie. In una parola: negavo in pieno il problema. […] Oggi, alla distanza di trent’anni e più da quel giorno, condanno quella mia furiosa intransigenza. Sono stata costretta, attraverso un lungo e doloroso processo mentale, ad ammettere l’esistenza del problema ebraico. Confesso però che lo vedo ancora oggi sotto la luce di una necessità: non di un diritto nazionale. E che il mio ideale sarebbe che la Palestina funzionasse quale centro culturale dell’ebraismo, quale seminario di rabbini e non come la patria terrena degli ebrei. Mi sembra che, travalicando nei secoli l’idea ‘nazione’ e rimanendo come filtrata l’essenza soltanto religiosa dell’ebraicità, quest’ultima, anzi che perdere del suo intrinseco valore, lo aumenti inestimabilmente, lo aiuti a salire verso l’eternità.” (Rosselli 2001, p. 128- 129)

L’esilio diventa infatti un mezzo per poter continuare a rimanere fedeli a se stessi e ai propri ideali, pur in contesti che impongono cambiamenti radicali e una notevole flessibilità di adattamento, tanto da mettere a dura prova lo stesso principio dell’identità personale. Le lettere, inviate a chi per costrizione non può esserci vicino, diventano dunque il viatico per esprimere l’autenticità del proprio sé, ricollocato in contesti diversi. La propria storia passata viene misurata sui cambiamenti in corso e sulle aspettative per il futuro. L’esilio diventa dunque sia per Amelia, sia per altre sue amiche l’occasione per rielaborare la propria storia personale e la comune tradizione ebraico-italiana, nei nuovi spazi in cui si trovavano ad abitare. Il “riadattamento” non è infatti un mero adeguarsi alla nuova realtà o una semplice assimilazione alla comunità ospitante. È qualcosa di più. L’esilio può infatti diventare l’occasione per aprirsi al nuovo, per imparare dal contesto geo-politico in cui si trova a vivere, per affrontare in modo più articolato le questioni pubbliche che si vanno via via ponendo nel dibattito politico internazionale. La narrazione dell’esilio è dunque una commistione fra la necessità di affrontare costruttivamente la nuova situazione esistenziale e la fatica del vivere quotidiano col peso del passato e le difficoltà di riadattarsi, segnate anche da malattie e disagi. Ma ciò che spinge le donne in esilio a reagire non è

solo l’amore per sé: è soprattutto dovuto alla cura e al rispetto che devono a familiari più vulnerabili. In particolare, bisogna garantire ai bambini quella sorta di “normalità” che era stata loro preclusa dalla morte dei padri e dalla fuga dell’Italia. Bisognava creare loro condizioni di vita optimali e trovare scuole di qualità dove potessero avere una buona educazione. Amelia era infatti andata in esilio con le vedove dei figli (Marion e Maria) e con sette nipoti (John, Amelia e Andrea, figli di Carlo; Silvia, Paola, Aldo e Alberto, figli di Nello), che al tempo della fuga dall’Europa verso gli Stati Uniti avevano un’età compresa fra i 13 e i 3 anni. I pensieri maggiori andavano dunque al loro futuro.

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