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La libertà umana e la dottrina degli «affectuum remedia».

IV.1. La libertà della ragione: dalla conoscenza degli affetti all’ «amor erga Deum».

1. La conoscenza degli affetti come conoscenza «sub quandam aeternitatis specie».

Nel presente capitolo, lungi dal voler proporre un’esposizione completa degli ultimi due libri dell’Etica, o un’analisi di tutto ciò che costituisce il contenuto della libertà, vorrei concentrarmi solo su alcuni aspetti che ritengo funzionali ai contenuti del presente lavoro, ovvero, cercare di mostrare in cosa - la ragione prima e la scienza intuitiva poi - facciano sì che l’uomo possa ridurre il suo margine di dipendenza dalle cause esterne. Alla luce di quanto si è cercato di mostrare nel capitolo

precedente, e della dichiarazione esplicita dello stesso Spinoza che si può leggere in E5P20S, per quanto l’uomo possa aumentare la sua conoscenza adeguata, nemmeno il livello più alto costituito dalla scienza intuitiva potrà mai eliminare totalmente la dipendenza dell’uomo dalle cause esterne. La libertà, sia al livello del secondo genere di conoscenza, che al terzo, si caratterizzerà sempre come un’emancipazione parziale dalla virtù delle cause esterne.

Nel terzo paragrafo del secondo capitolo (II.3) si era cercato di mostrare che, per Spinoza, la schiavitù umana consiste nella costrizione in cui si trova la virtù dell’uomo da parte della potenza degli affetti prodotti in lui dalle cause esterne. In altre parole, la schiavitù è dovuta alla maggior potenza che le cause esterne esercitano sull’uomo sotto forma di affetti passivi. Ora, egli, per essere libero, deve cercare di ritagliarsi degli spazi di autonomia nei confronti degli affetti passivi. In particolare, nel secondo paragrafo del suddetto capitolo (II.3.b), attraverso una seppur breve analisi, si era visto come, da E4P9 a P13, Spinoza stabilisca che la causa della schiavitù umana, ovvero, il fatto che gli affetti prodotti in lui dalle cause esterne siano così potenti da inibirne in maniera massiccia o totale l’attività, risiede proprio nella natura dell’uomo, cioè in quanto costituito di corpo e mente e come parte della natura. Senza ripetere quanto già detto sopra, qui basterà ricordare che l’uomo, per natura, è affetto maggiormente da ciò che immagina come presente e necessario; invece, gli affetti che hanno su di lui meno forza sono quelli prodotti dalle cose future e contingenti. Ora, nel capitolo precedente si è visto che la virtù umana consiste, in ultima analisi, nella cupidità di conoscere adeguatamente le cose; da questa cupidità ne deriva – ma in realtà da essa non si distingue – la cupidità di ottenere tutto ciò che incentiva e favorisce lo sforzo conoscitivo e conservativo. Con chiarezza inequivocabile, in E4App.Cap.8 si legge:

Tutto ciò che nella natura noi giudichiamo essere cattivo o capace di impedirci di esistere e di godere della vita razionale ci è lecito allontanarlo per la via che ci sembra più sicura; e tutto ciò, invece, che giudichiamo buono, ossia utile, alla conservazione del nostro essere e al godimento della vita razionale ci è lecito prenderlo per il nostro uso e servircene in qualunque modo; e, assolutamente parlando, a ciascuno è lecito, per supremo diritto di natura, far ciò che giudica contribuire alla sua utilità.

Tutto ciò che è ritenuto utile in funzione della conoscenza è esposto dall’autore da E4P29 in poi: senza entrare nel merito di concetti assai noti ad ogni lettore di Spinoza, basti ricordare che nel primo gruppo di proposizioni, fino a P35, egli deduce che, in quanto nella natura delle cose se ne danno alcune che, più di altre, sono simili alla nostra natura, allora quelle per noi più utili saranno quelle simili, o che convengono maggiormente con essa. Per l’uomo libero, ciò che occupa il grado massimo di utilità sarà un altro uomo che vive sotto la guida della ragione; inoltre, anche se gli uomini sono affetti da passioni in forza delle quali risultano per definizione contrari gli uni agli

altri, sulla base dell’identità della loro natura umana, anche un uomo schiavo potrà rivelarsi utile,

nel momento del bisogno, per l’uomo libero.173

Con P38 e 39, invece, Spinoza deduce che, tra le res singulares diverse dall’uomo, buone sono quelle che in primo luogo fanno sì che il corpo sia maggiormente soggetto ad affetti: in questo modo la mente potrà percepire più cose che, a loro volta, saranno oggetto di conoscenza adeguata e quindi di letizia in quanto transitio ad una potenza maggiore. In secondo luogo, percependo più cose, l’uomo avrà maggiori possibilità di modificare altri corpi, ovvero, di utilizzarli nella maniera che ritiene più utile. Inoltre, poiché la virtù umana è quella parte attiva del conatus umano che in prima istanza è sforzo di perseverare nella propria esistenza, ultime nell’ordine assiologico ma “prime” in quello “reale”, buone saranno quelle cose che favoriscono la conservazione del corpo la quale, come mostrato da Spinoza nel “trattatello di fisica” di E2, consiste in un determinato rapporto di moto e quiete tra le varie parti componenti il corpo umano.

Coerentemente con la promessa di E4Pref. di mostrare «che cosa gli affetti abbiano di buono», egli, con E4P41, deduce che tutti gli affetti che modificano l’uomo mediante letizia sono buoni in quanto aumentano la sua potenza di agire – di conseguenza sono buone tutte quelle cose cause di tali affetti. Senza entrare nel merito del lungo elenco di affetti buoni e cattivi che espone l’autore fino a E4P58, o ai problemi legati al fatto che spesso la letizia, per quanto buona, può avere eccesso se si riferisce ad una sola parte del corpo e, di conseguenza, rivelarsi cattiva nel momento in

cui limita la potenza conoscitiva della mente,174 sia lecito ricordare quello che è forse uno dei passi

più belli dell’intera opera: E4P45S.

E’ dunque dell’uomo saggio (sapiens) servirsi delle cose e trarne diletto per quanto è possibile (non già sino alla nausea, perché ciò non significa prender diletto). E’ proprio dell’uomo saggio, dico, ristorarsi con cibi e bevande moderati e gradevoli, come anche con odori, con l’amenità delle piante verdeggianti, con gli ornamenti, con la musica, coi giochi che esercitano il corpo, con gli spettacoli teatrali, e con altre cose siffatte delle quali ciascuno si può servire senza alcun danno altrui. Giacché il corpo umano è composto di moltissime parti di natura diversa, le quali hanno bisogno continuamente d’u alimento nuovo e vario affinché tutto il corpo sia ugualmente atto a tutto ciò che può seguire dalla sua natura, e, di conseguenza, affinché la mente sia ugualmente atta a comprendere più cose contemporaneamente. Questo metodo di vita si accorda benissimo tanto coi principi quanto con la pratica comune; questa maniera di vivere, quindi, se pur mai alcun altra, è la migliore di tutte, e dev’essere, raccomandata in tutti i modi, e non vi è bisogno di trattare più chiaramente né più ampiamente questo argomento.

173

Cfr. Linn, The Power of Reason in Spinoza, in The Cambridge Companion to Spinoza’s Ethics, ed. by Olli Koistinen, Cambridge University Press, Cambridge 2009, pp. 258-259.

Questi, come tutto ciò che Spinoza espone nel corso di E4 da P29 in poi, costituiscono i contenuti dell’ethos dell’uomo libero, o di colui che è determinato ad agire da idee adeguate che deduce dall’idea adeguata dell’essenza di Dio, cioè, la sua virtù che, come ricordato sopra, viene continuamente impedita e limitata dalla virtù delle cause esterne sotto forma di affetti passivi. Tutte le cose che l’uomo desidera in quanto guidato dalla ragione, cioè quelle che riconosce come beni, infatti, sono idee di cose future che modificano la mente umana mediante un affetto più debole rispetto a quelle di cose presente. Ora, per uscire da questo impasse, Spinoza prevede diverse strategie che, sono compendiate nel celeberrimo E5P20S con la dottrina degli «affectuum remedia». Ciò che la mente può contro gli affetti passivi è riassunto dall’autore in cinque punti; nonostante la notorietà di questo luogo dell’Etica, sia lecito citare schematicamente la parte fondamentale del passo secondo il quale i rimedi consistono in:

1. Nella conoscenza stessa degli affetti (vedi lo scol. della prop. 4 di questa parte).

2. Nel fatto che essa [scil. la mente] separa gli affetti dal pensiero della loro causa esterna che è da noi immaginata confusamente (vedi la prop. 2 con lo stesso scol. della prop. 4 di questa parte).

3. Nella maggior durata delle affezioni che si riferiscono alle cose che conosciamo chiaramente rispetto alla durata delle affezioni che si riferiscono alle cose che concepiamo in modo confuso o mutilato (vedi la prop.7 di questa parte)

4. Nel gran numero delle cause da cui sono rafforzate le affezioni che si riferiscono alle proprietà comuni delle cose, ossia a Dio (vedi la prop. 9 e 11 di questa parte)

5. Infine nell’ordine in cui la mente può ordinare e concatenare vicendevolmente i suoi affetti (vedi lo

scol. della prop. 10 e inoltre le prop. 12, 13 e 14 di questa parte).

Questi cinque rimedi contro gli affetti passivi sono esposti dall’autore in una sezione dell’opera in cui non è ancora stato spiegato come, effettivamente, la mente possa conoscere le cose col terzo genere di conoscenza e fruire della libertà che da esso discende. In E2P40S2 ne è stata fornita una definizione come deduzione dell’essenza singolare di una cosa dall’idea adeguata dell’essenza di Dio; eppure, solo da E5P29 a P31 Spinoza dedurrà che l’uomo può conoscere le cose col terzo genere di conoscenza solo in quanto le conosce sub specie aeternitatis e, a sua volta, potrà conoscerle così solo previa conoscenza dell’essenza del proprio corpo sub specie aetenitatis. Tuttavia, come si vedrà a breve, qua si vuole sostenere che, anche se Spinoza in questa sezione dell’opera non ha ancora fornito al lettore una teoria della scienza intuitiva, tali rimedi si riferiscono ad entrambi i generi di conoscenza adeguata: tanto alla ragione quanto alla scienza intuitiva si possono ascrivere le suddette capacità; la differenza, semmai, sta nel fatto che a quest’ultima è attribuita un’eccellenza superiore. Nella stessa continuazione del passo sopracitato, infatti, l’autore precisa che:

Da ciò comprendiamo facilmente che cosa possa sugli affetti la conoscenza chiara e distinta e specialmente quel terzo genere di conoscenza […] il cui fondamento è la conoscenza sessa di Dio; se essa, infatti, non toglie assolutamente gli affetti in quanto sono passioni […] tuttavia fa sì che essi costituiscano una minima parte della mente.

Nel capitolo precedente, prendendo in considerazione lo stesso luogo dell’Etica, ci si era voluti soffermare sull’esplicita dichiarazione di Spinoza circa il fatto che anche la scienza intuitiva, nonostante la sua superiorità rispetto alla ragione, permette all’uomo di ottenere una libertà che si configura comunque come parziale. Ora, dal momento che gli affetti sono res singulares, poiché la ragione è conoscenza delle nozioni comuni che, per definizione, non costituiscono l’essenza di

nessuna cosa singola,175 in linea di principio ad essa non potrebbe essere ascritta alcuna conoscenza

adeguata delle passioni. Tuttavia, se si bada alla prima riga del passo sopracitato, non ostante l’eccellenza del terzo genere di conoscenza rispetto al secondo, qui, ad entrambe le conoscenze adeguate è ascritta la capacità di contrastare gli affetti passivi – ovvero di diminuire il margine di dipendenza dell’uomo dalla virtù delle cause esterne. A sostegno di questa tesi si può leggere fin da ora il testo di E5P38. Siamo nelle ultime proposizioni dell’opera e Spinoza ha già esposto in P36 la teoria della beatitudine come amor dei intellectualis derivante dal diletto che prova l’uomo per tutto ciò che conosce sub specie aeternitatis derivante dall’idea di Dio come causa; tuttavia, egli deduce che:

Quanto più la mente conosce le cose col secondo e col terzo genere di conoscenza, tanto meno essa patisce dagli affetti che sono cattivi, e tanto meno teme la morte.

Per esplicita ammissione di Spinoza, non solo la scienza intuitiva, ma anche la ragione può

conoscere gli affetti e diminuirne la loro virtù su di noi.176

Nelle pagine seguenti, pertanto, si cercherà di mostrare che: in primo luogo tutti e cinque i rimedi di cui sopra, in realtà, dipendono solo dal primo; ovvero, o ne sono implicati, o da esso direttamente conseguono; in secondo luogo, come operativamente la ragione prima e la scienza intuitiva poi leniscano la virtù degli affetti passivi a vantaggio della virtù umana.

La fine del secondo libro dell'Etica è costituita dal lungo scolio della proposizione 49: si tratta, come è noto, di un passo molto denso e ricco di concetti. Ci si soffermi soprattutto sullo sforzo che compie Spinoza per difendere quella che lui chiama espressamente la sua dottrina o,

175 E2P37.

176

Cfr. Cristofolini, La scienza intuitiva di Spinoza, p.135. Tuttavia, l’autore a p. 133 riconosce che l’amor erga Deum che consta alla ratio «è per prima cosa, la conoscenza chiara e distinta delle affezioni del corpo», così anche S. Soyarslan, From Ordinary Life to Blessedness, in Essays on Spinoza’s Ethical Theory, p. 244.

secondo una resa più attuale del termine, «teoria»:177 «nostram hanc doctrinam». Per far ciò fornisce in primo luogo alcuni avvertimenti: si tratta dell'invito ai lettori a distinguere

accuratamente tra immagini, parole, e idee, in modo da non incorrere nel grave errore di credere che le idee inadeguate dell'immaginazione corrispondano ad idee adeguate che esprimo la natura delle cose. In secondo luogo, egli propone e risponde a quattro ipotetiche obiezioni che immagina gli potrebbero essere mosse. Tralasciamo, tuttavia, questa parte in quanto non fondamentale per l'obiettivo del presente studio. In terzo luogo, afferma:

[…] e, infine, per eliminare ogni scrupolo, ho creduto che valesse la pena indicare alcuni vantaggi di questa dottrina. Alcuni, dico: giacché i principali s'intenderanno meglio da ciò che diremo nella quinta parte.

E ancora, alla fine delle risposte alle possibili obiezioni:

Resta infine da indicare quanto la conoscenza di questa dottrina sia utile per la vita, il che vedremo facilmente da ciò che segue.

Spinoza precisa esplicitamente che quanto verrà dicendo non è che un'anticipazione: infatti, i «vantaggi», che esporrà in quattro punti, contengono sia deduzioni che derivano direttamente da quanto dimostrato in E2, sia anticipazioni di quanto dimostrerà nel corso di E4. Il tutto, come si cerca di argomentare qua, verrà adeguatamente completato e sviluppato proprio con la dottrina degli affectuum remedia che stiamo considerando.

Il primo dei quattro aspetti di utilità che egli espone consiste in questo:

1. In quanto insegna che noi agiamo per il solo volere di Dio e siamo partecipi della natura divina, e ciò tanto più quanto più perfette sono le azioni che facciamo (actiones agimus) e quanto sempre più conosciamo Dio. Questa dottrina, dunque, oltre a rendere l'animo del tutto tranquillo, ha anche il vantaggio d'insegnarci in cosa consista la nostra suprema felicità o la nostra beatitudine, cioè nella sola conoscenza di Dio dalla quale siamo indotti a fare solo quelle azioni (agenda inducimur) che ci sono consigliate dall'amore e dalla pietà. Donde comprendiamo chiaramente quanto si allontanino dalla vera stima della virtù quelli che, quasi in cambio della più dura servitù, si aspettano di essere decorati da Dio coi premi più alti in ricompensa della loro virtù e delle loro azioni migliori, come se la virtù e il servizio di Dio non fossero la felicità stessa e la suprema libertà.

Di questo passo, denso di contenuti, si considerino quattro punti essenziali per i nostri scopi:

1. Noi agiamo per volere di Dio.

2. Quanto più conosciamo adeguatamente le cose tanto più siamo partecipi della natura divina. 3. Questa dottrina rasserena l’animo.

4. Inoltre, ci insegna che la nostra felicità o beatitudine consiste nella conoscenza di Dio.

I punti 3 e 4 sono complementari: la dottrina che l’autore ci ha esposto fino ad ora, ovvero l’idea adeguata dell’essenza di Dio, e parte di ciò che da essa dev’essere dedotto, ci insegna che in detta conoscenza consiste la nostra felicità in quanto rasserena il nostro animo. Piuttosto, si tratterà di chiarire come ciò possa realizzarsi. Il punto 2, in questa sezione dell’opera costituisce evidentemente un’anticipazione: nel capitolo precedente, infatti, si è visto che solo in E4 Spinoza dedurrà che la conoscenza adeguata dipende dal solo possesso dell’idea adeguata dell’essenza di Dio. Grazie a tale idea noi sappiamo che ogni cosa, noi compresi, siamo modi finiti dell’infinita sostanza che esprimono in maniera finita la sua infinita potenza; sia in quanto passivi che attivi noi siamo determinati ad operare in un certo modo da Dio, tuttavia; esprimiamo la nostra potenza solo conoscendo adeguatamente. Quanto al punto 1, invece, è quello per noi fondamentale in quanto consiste nel concetto di necessità; inoltre, come si vedrà meglio sotto, ma si tratta di cose note ad ogni lettore di Spinoza, in esso è contenuta anche la risposta alla domanda sollevata circa i punti 3 e

4: dal momento che la mente conosce le cose come necessarie, essa ne sarà rasserenata.178

In E2P41, l’autore aveva dimostrato che, appartenendo le idee inadeguate al primo genere di conoscenza e al secondo e al terzo quelle adeguate, all'immaginazione spetta l'imputazione di essere «l'unica causa della falsità», mentre alla ragione e alla scienza intuitiva, il vanto di essere necessariamente vere. Pertanto, dal momento che in E1P29 aveva dimostrato che nella natura non si dà nulla di contingente ma tutto e determinano ad esistere e operare in un certa maniera dalla stessa necessità divina, in E2P44, egli – rimandando la discussione circa la natura della conoscenza di terzo genere all'ultima parte dell'Etica - può coerentemente dedurre che:

E' proprio della natura della ragione contemplare le cose non come contingenti ma come necessarie.

Nei due corollari l’autore continua deducendo le logiche conseguenze di quanto appena stabilito: in primo luogo, dal momento che solo in forza delle idee adeguate o, più precisamente, dell'idea adeguata dell'essenza di Dio, consegue che noi conosciamo le cose come necessarie, è implicito che «dipende dalla sola immaginazione considerare le cose, tanto rispetto al passato quanto rispetto al

futuro, come contingenti» (E2P44C1). In secondo luogo afferma:

E' proprio della ragione percepire le cose sotto una certa specie d'eternità.

In via preliminare si noti che il testo di questo fondamentale corollario, per descrivere l'attività della ragione, utilizza il verbo percipere (nella proposizione dal quale dipende invece occorreva contemplari). Si confronti questo passo con la terza definizione della stessa parte dell'Etica dove Spinoza distingue esplicitamente cosa va inteso per idea e cosa per percezione: la prima è un concetto della mente che essa forma in quanto attiva, pertanto, non va confusa con una perceptio giacché «la parola percezione indica che la mente sia passiva rispetto ad un oggetto, mentre concetto sembra esprimere un'azione della mente». Pertanto un'immagine passiva (idea inadeguata), propriamente parlando, viene percepita, mentre un'idea viene concepita attivamente dalla mente. Ora, alla luce di questa esplicita e precisa distinzione, come è possibile che in E2P44C2 alla ragione – che esprime invece attività – venga attribuita una percezione che, per definizione, indica passività

della mente? A tal proposito, nota Mignini,179 o la ragione è passiva, oppure l'utilizzo che fa

Spinoza di questi termini non è rigoroso. Alla luce di quanto siamo venuti dicendo finora si può escludere la prima possibilità, pertanto, non resta che accogliere la seconda possibilità interpretativa, e supporre che l'explicatio di E2Def.3 costituisca un'aggiunta successiva alla stesura di E2, e che questa non sia poi stata rivista adeguatamente da Spinoza. Per supportare la tesi di Mignini, vorrei notare che se si bada ai successivi luoghi in cui occorre l'espressione in oggetto, ovvero E4P62D, e E5 P22-23, e 29-31, l'espressione «sub specie aeternitatis» è retta sempre dal verbo concipere che, stando a E2Def.3, costituisce la formula adeguata per esprime l'attività della mente. Pertanto, è consistente ipotizzare che l'aggiunta dell'explicatio di E2Def.3 sia coeva alla stesura di E4 e 5; Si noti ancora che in E5P29D, Spinoza, richiamando esplicitamente E2P44C2,

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