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"Quantum fieri potest". Spinoza e il carattere parziale della libertà

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«Quantum fieri potest»

Spinoza e il carattere parziale della libertà

I. La dottrina della libertà nell’interpretazione di E. Giancotti

I.1. L’unità dialettica della teoria I.2. Dall’unità alla contraddizione

II. Immaginazione e schiavitù

II.1. La definizione della libertà

II.2. Sensibilità e conoscenza inadeguata

II.3. Conoscenza inadeguata, sensibilità e schiavitù 1. Passività e affetti in E3

2. Passività e schiavitù in E4 a. Nozioni generali: P2-7

b. Potenza degli affetti in relazione a tempo, possibilità, necessità e contingenza: P9-13.

c. La vera conoscenza del bene e del male e la schiavitù umana: P1, 7, 8, e 14-17.

III. Forme del concetto di libertà umana

III.1. Sensibilità e conoscenza adeguata

III.2. Conoscenza adeguata come attività e libertà 1. La dottrina spinoziana della virtù

2. Equazione tra conoscenza adeguata, attività e libertà 3. Conseguenze dell’equazione

a. Libertà come grandezza graduale

b. Libertà in senso " forte" e in senso "debole" c. Estensione del concetto di libertà umana

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IV.1. La libertà della ragione: dalla conoscenza degli affetti all'«amor erga Deum» 1. La conoscenza degli affetti come conoscenza «sub quadam aeternitatis specie» 2. La conoscenza degli affetti e l’emancipazione dalla virtù delle cause esterne

a. La conoscenza della necessità e il circolo virtuoso della letizia b. La conoscenza della necessità contro la potenza degli affetti passivi IV.2. La libertà della scienza intuitiva: dalla conoscenza del corpo «sub specie

aeternitatis» alla beatitudine IV.3. Conclusione

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I

La dottrina della libertà nell'interpretazione di E. Giancotti

I.1 L'unità dialettica della teoria

L'autrice ha affrontato il tema della libertà in Spinoza principalmente in due scritti pubblicati

separatamente e successivamente riuniti dalle curatrici in un unico volume1. La domanda

fondamentale che li anima e che costituisce il tema centrale del presente lavoro è il rapporto tra l'ontologia spinoziana e il suo rapporto con la dottrina della libertà. Nel suo primo scritto "Necessità e libertà. Riflessioni sui testi spinoziani", ricostruirà l'autrice a posteriori, ella aveva tentato «una lettura in positivo», non ignorando «le difficoltà interne al sistema», ma cercando di «risolverle

riconducendole ad una supposta unità della teoria»2. Alla domanda circa la conciliabilità tra

ontologia e teoria della libertà, Spinoza, come è noto, rispondeva affermativamente. Secondo l'autrice una simile risposta positiva comporta due possibilità: o si tratta di un «errore teorico», oppure la libertà consiste nella «trascrizione in termini di consapevolezza [...] dei tratti caratteristici della condizione umana [...] tesa tra determinazione all'interno del sistema materiale di relazioni di

cui fa parte e impulso volontaristico a modificare il sistema stesso»3. Nel secondo caso – ed è la

soluzione che l'autrice propone in questo scritto – la libertà consiste nella consapevolezza da parte del soggetto del suo condizionamento ontologico e del suo impulso a modificare lo status quo. In

questo risiederebbe dunque la «supposta unità della teoria» di cui sopra.4 Nel primo caso invece ci

troveremmo davanti ad una vera e propria contraddizione nel pensiero di Spinoza: questa, come si vedrà in seguito, sarà l'ultima parola dell'autrice.

Nel presente lavoro perciò, in primo luogo cercherò di illustrare l'evoluzione del pensiero dell'autrice circa il rapporto tra ontologia e libertà, mettendone in luce i nuclei teorici fondamentali e le conclusioni dalle quali mi distaccherò criticamente. In secondo luogo proverò, seguendo un percorso tematico all'interno delle opere di Spinoza – l'Etica in particolare - di dimostrare che, su

questo tema, non vi è contraddizione alcuna nel suo pensiero. Attraverso alcuni luoghi di E15 tanto

celebri quanto fondamentali, l'autrice espone il concetto della libertà di Dio; fermo restando questo, passa a quello di libertà umana. La sostanza, o Dio, è libera in due sensi: in quanto corrisponde alla

1 Giancotti, Studi su Hobbes e Spinoza, a cura di Daniela Bostreghi e Cristina Santinelli, Bibliopolis, Napoli 1996. 2 Giancotti, Teoria e pratica della libertà alla luce dell'ontologia spinoziana, in op. cit. p.259.

3 Giancotti, Necessità e libertà. Riflessioni sui testi spinoziani, ivi p. 57. 4 Cfr. infra n. 3.

5 E1 D7, A1, P4, 10S, 14 C2, 16-18, 28,29, 33.Tutte le traduzioni italiane, dei passi spinoziani citati in questo capitolo,

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totalità del reale e non vi è nulla al di fuori che possa condizionarla; in quanto causa sui, giacché

«per essenza produce se stessa e tutte le cose che sono»6, ovvero i modi. Questi ultimi sono invece

«coatti», cioè derivano dall'essenza della sostanza per «determinazione causale». Ogni cosa finita, infatti, non può né esistere né agire se non è determinata all'esistenza e all'azione da un'altra cosa finita che funge da causa della quale è effetto. Dio è la causa prima, immanente, efficiente e libera di tale concatenazione causale che perciò esclude completamente il concetto di contingenza.

Quest'ultimo, come è noto, è ridotto da Spinoza a «difetto della nostra conoscenza».7

La libertà divina così teorizzata risulta quindi decisamente differente da quella del «Dio della tradizione scolastica e (sia pure con riserve) cartesiana»: il libero arbitrio col quale Dio può «scegliere tra vie diverse quella supposta migliore» e «modificare il corso delle cose», è trasformata da Spinoza nella Sostanza come causa libera che, secondo l'autrice, corrisponde alla traduzione in positivo della negazione di Dio come essere trascendente principio e fondamento del mondo. Dio è causa libera in quanto fondamento del proprio essere – cioè di tutto – regolato «da leggi immanenti, oggettive e necessarie» non prodotte dalla mente divina extramondana, ma dalla stessa essenza o natura di Dio. Rispetto al Dio della tradizione, di Cartesio o di Leibniz, quello di Spinoza non è libero giacchè alla libertà della produzione delle cose e delle verità ad esse corrispondenti, sostituisce la necessità con la quale Dio è per essenza e nel medesimo atto, produttore di sé e delle

cose. Tuttavia, questa necessità in termini spinoziani corrisponde a libertà.8

Chiarito così il concetto di libertà di Dio, l'autrice vi contrappone la natura «coatta» o necessariamente determinata dell'esistere e dell'operare dei modi, in particolare dell'uomo. Come è possibile che Spinoza parli di libertà dell'uomo se il suo statuto ontologico è quello di modo finito? Per di più egli stesso in E1App. riduce ad illusione la volgare convinzione degli uomini di essere liberi: essa, come è noto, deriva dalla consapevolezza delle proprie volizioni unita all'ignoranza delle cause che le hanno determinate. Stando a E2P10C, «l'essenza dell'uomo è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio», cioè «esprime la natura di Dio in una certa e determinata maniera», perciò «senza Dio non può né essere, né essere concepita». La sua dipendenza da Dio è dunque duplice: ontologica e logico-gnoseologica; conseguentemente, conclude l'autrice, l'esistenza dell'uomo è determinata secondo un ordine immodificabile al quale non può sottrarsi.

Dall'analisi delle proposizioni dalla 26 alla 29 di E1, in cui Spinoza enuncia i principi del determinismo, la Giancotti rileva, per quanto riguarda l'uomo, «due livelli di condizionamento»: quello esterno, ovvero il sistema di cause ed effetti nel quale è inserito; e quello interno corrispondente alla sua «struttura psicofisica». Bisogna allora chiarire come l'uomo – fermo

6 Giancotti, ivi p. 58.

7 Ivi pp. 58-9, 62; E1P33S1 e App.

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restando il suo statuto ontologico – possa porsi come «agente» e dirsi libero.9

Evidentemente, prosegue l'autrice, per l'uomo non è in gioco l'interruzione del sistema della necessità, quanto piuttosto il modo in cui vi si inserisce, ossia il suo atteggiamento teorico e pratico: ignarus o sapiens. Il primo conosce le cose attraverso il primo genere di conoscenza o immaginazione, crede nel libero arbitrio, ha un concetto antropomorfico di Dio, è affetto dal pregiudizio teleologico per cui Dio ha ordinato il mondo in vista del bene dell'uomo, il suo comportamento etico si basa su falsi concetti di bene e male, ma soprattutto soggiace alle passioni. Non è causa adeguata dei propri affetti e delle azioni ad essi corrispondenti perciò è detto passivo o schiavo. Il secondo invece conosce attraverso il secondo genere di conoscenza o ragione, sa che ogni azione è determinata, non è affetto dal pregiudizio teleologico perciò ha un adeguato concetto di Dio, del bene e del male. In forza della sua consapevolezza della necessità che regola ogni evento, non è trascinato dalle emozioni bensì è causa adeguata delle proprie affezioni e delle azioni

corrispondenti: per questo è detto attivo o libero.10

Il discrimine tra schiavitù e libertà è costituito dal passaggio dall'immaginazione alla ragione; è perciò nella ragione che risiede la libertà. Col primo genere di conoscenza si concepiscono le cose come separate e contingenti, ma attraverso le nozioni comuni di moto e quiete

e l'attributo11 dell'estensione implicato da ogni affezione dalla quale siamo affetti, invece, l'uomo

giunge ad un primo grado di unificazione teorica del reale concependo i corpi e le menti come aspetti parziali ma necessari dell'esplicazione dell'infinito attributo mediante il quale coglie il nesso

tra modo e sostanza.12

A questo atteggiamento teorico, tuttavia, non corrisponde una accettazione fatalistica, bensì l'uomo libero si sforza di conservare se stesso puntando al vero utile. Nel conatus individuale, che costituisce l'essenza di ogni ente, si incontrano la natura e la ragione, ma anche l'etica e la politica poichè l'uomo guidato dalla ragione può conservare se stesso solo all'interno della società civile

dove la realizzazione del proprio conatus passa attraverso quella del conatus comune13. In ultima

analisi la libertà è ricondotta dall'autrice alla consapevolezza teorica della necessità e ad un determinato atteggiamento pratico ed attivo ad essa corrispondente. Riconducendo pertanto la libertà a consapevolezza, la Giancotti unifica e concilia i due poli apparentemente inconciliabili di statuto ontologico dell'uomo e libertà, dai quali aveva preso le mosse.

In un articolo del medesimo anno l'autrice aveva sostenuto la medesima interpretazione della

9 Ivi p.65.

10 Ivi p. 66.

11 Si noti fin da ora che la Giancotti, stando alla lettera del testo spinoziano, cita come "punti di partenza" del secondo

genere di conoscenza sia le nozioni comuni di moto e quiete che l'attributo. Tuttavia, solo a quest'ultimo conferisce un ruolo determinante nell'acquisizione della ratio.

12 Ivi p. 67. 13 Ivi p. 73 sg.

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libertà spinoziana considerandola, assieme alla concezione della sostanza, della teoria della verità e del posto dell'uomo nella natura, come «elementi per la costruzione di una concezione materialistica

dell'uomo»14. Questi concetti, continua, non ostante sia scorretto parlare dello spinozismo come

materialismo coerente, consentono di collocarlo all'interno di una linea di sviluppo teorico che ha il suo compimento nel materialismo storico e dialettico. E' infatti attraverso Hegel e Feuerbach che tale concezione della libertà sarebbe arrivata sino a Marx; è perciò possibile considerare Spinoza

come un «precursore del materialismo»15.

In conclusione al presente scritto l'autrice torna a porsi dal punto di vista del materialismo

storico e riprendendo Engels16 individua tra «il sistema di condizionamenti» esterni e interni cui

l'uomo è soggetto e la libertà che muove da questa base, un rapporto di tipo «dialettico»: il sistema di condizionamenti corrisponde al «regno della necessità», la teoria della libertà così interpretata, con il «regno della libertà». Tale rapporto dialettico, non solo prepara le linee formali della concezione marxiana della libertà come prassi rivoluzionaria, ma ne è anche il «punto di

partenza».17

I.2 Dall'unità alla contraddizione

Come si è cercato di mostrare sopra, l'autrice riconduceva ad unità lo statuto ontologico dell'uomo e la sua libertà come consapevolezza della necessità, attraverso l'individuazione tra essi di un rapporto di tipo dialettico che le permetteva poi di considerare il pensiero di Spinoza come un protagonista della storia del materialismo.

Nello scritto che prenderò adesso in considerazione, qualunque intento interpretativo circa il valore storico della filosofia spinoziana è assente: probabilmente a questo si riferisce l'autrice

quando afferma di «muovere da un diverso approccio»18. Caduta ogni motivazione politica e

storiografica sulle quali non è questo il luogo di soffermarsi, in questo secondo intervento la Giancotti si limita ad un'analisi ed interpretazione della dottrina della libertà dal punto di vista prettamente teoretico. In primis ne stabilisce la definizione, per confrontarla successivamente con la definizione dello statuto ontologico dell'uomo per valutarne la coerenza.

Tralasciando i PPC e i CM dove Spinoza non esprime direttamente le sue idee19, il primo luogo

in cui occorre la definizione di libertà è KV I,4, [5]

14 Giancotti, Sulla questione del materialismo in Spinoza in op. cit. pp. 95-120. 15 Ivi pp. 118 e 120.

16 Engels, Antidühring, trad. it. Editori Riuniti, Roma 1971, p. 22. 17 Giancotti, Necessità e libertà pp. 78 sg.

18 Giancotti, Teorica e pratica della libertà alla luce dell'ontologia spinoziana, in op. cit. p. 259. 19 Ivi p. 261.

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La vera libertà non è altro che la causa prima, la quale non è assolutamente costretta o necessitata da altro, ed è causa di ogni perfezione solo mediante la sua perfezione. Di conseguenza, se Dio potesse omettere di attuare tutta la perfezione, non sarebbe perfetto, poiché poter omettere di fare un bene o la perfezione in ciò che egli opera non può aver luogo in lui se non per difetto. Dunque, che Dio soltanto sia l'unica causa libera è chiaro non solo da ciò che ora è stato detto, ma anche da questo, che fuori di lui non c'è alcuna causa esterna che lo costringa o lo necessiti. Tutto ciò non ha luogo nelle cose create.20

La definizione di libertà è costruita sui due concetti di indipendenza/autonomia e intrinseca necessità. Ne consegue che la sola res libera che possiede le condizioni del manifestarsi della libertà è Dio o la Sostanza. Tuttavia, continua l'autrice, in KV 2, 26 [9] si parla di libertà esplicitamente in riferimento all'uomo, una tra le «cose create» alle quali il passo precedente negava recisamente ogni libertà.

Da tutto ciò che si è detto si può ora comprendere molto facilmente quale sia la libertà umana, che dunque definisco così: è una stabile esistenza che il nostro intelletto acquista attraverso l'immediata unione con Dio, per produrre in sé stesso idee, e fuori di sé opere ben convenienti con la sua natura, senza, tuttavia, che i suoi effetti siano sottoposti ad alcuna causa esterna dalla quale possano essere mutati o trasformati. Così, da ciò che è stato detto, appare anche quali siano le cose che sono in nostro potere e che non sono sottoposte ad alcuna causa esterna. Abbiamo anche mostrato, e in modo diverso da prima, l'eterna e stabile durata del nostro intelletto e, infine, quali siano gli effetti che dobbiamo stimare al di sopra di tutti gli altri.21

Anche in questo passo la libertà coincide con l'indipendenza dalle cause esterne: l'intelletto, unendosi immediatamente con Dio produce nell'uomo due effetti: a livello teorico idee, a livello pratico azioni in accordo con la natura umana, non esposte al condizionamento delle cause esterne. Anche l'Etica, continua la Giancotti, oltre a riprendere lo statuto ontologico della Sostanza con la relativa definizione di libertà, «conferma la definizione della libertà umana già data della Korte Verhandeling». Stando a passi come E4C4; E5P36, 40, più la mente ama Dio, cioè gode della beatitudine, tanto più intende, ovvero tanto meno patisce, quindi tanto maggiore è la sua potenza sugli affetti. La libertà, secondo la lettura dell'autrice, consiste perciò nell'indipendenza da qualcosa d'altro da noi, e dagli effetti che esso può produrre su di noi. Tuttavia, la dipendenza ontologica dell'uomo descritta in passi come E1D5 e 7; E2P10; E4P2, 3 e 4 «contraddice nettamente»

20 Spinoza. Opere a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini. Traduzione e note di Filippo Mignini e Omero

Proietti, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2007, p. 117.

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l'indipendenza/autonomia dalle cause esterne nella quale risiede l'essenza della libertà umana.22 Individuata perciò in un primo momento una contraddizione, l'autrice passa in un secondo momento a cercare di chiarire «cosa può significare tout court indipendenza e quindi libertà» fermo

restando il presupposto teorico insopprimibile della dipendenza ontologica dell'essere umano23. Per

farlo la Giancotti prende le mosse dal concetto di «potenza individuale» espresso in maniera paradigmatica da E5P39: se la mente conosce adeguatamente, il corpo di cui la mente è idea è causa adeguata delle proprie azioni. Ovvero, se la libertà della mente si identifica con la conoscenza adeguata del reale, il corpo di quella mente sarà causa adeguata delle proprie azioni cioè

«indipendente dalle cause esterne e quindi libera»24 Come era già stato sottolineato,25 vi è un

aspetto teorico o mentale della libertà e uno pratico o fisico. Il primo corrisponde all'assunzione di consapevolezza dell'ordine necessario del reale nel quale siamo inseriti e al quale non possiamo sottrarci: così, infatti, l'autrice interpreta l'espressione spinoziana «ordinare e concatenare le affezioni del corpo secondo l'ordine dell'intelletto e riferirle all'idea di Dio». Il secondo, invece, alla «capacità di essere attivi rispetto al mondo esterno, di andare contro [...] il meccanismo di

condizionamenti esercitati su di noi dal rapporto coi corpi esterni».26 La libertà umana, pertanto, si

realizza come consapevolezza della necessità ma si sviluppa come «tendenza a rendersi indipendenti dalle cause esterne». La contraddizione, pertanto, stando all'interpretazione dell'autrice, intercorre tra lo statuto ontologico dell'uomo e il lato pratico della libertà.

Le conclusioni della Giancotti sono le seguenti: La «definizione generale» della libertà è «l'indipendenza ontologica che implica l'assenza di determinazioni esterne, nel rispetto della necessità intrinseca alla natura della res libera».

1. Questa «forma assoluta» di libertà consta solo alla Sostanza o Dio.

2. L'identificazione di libertà e indipendenza ontologica ha «validità generale» tuttavia la libertà dell'uomo, essere ontologicamente determinato e all'esistenza e all'azione, corrisponde alla consapevolezza della sua dipendenza e allo sforzo pratico a ridurre i margini della sua dipendenza che resta insopprimibile.

22 Giancotti, Teoria e pratica della libertà. p. 262 ssg. A questo punto l'autrice apre una parentesi che riprenderà solo in

chiusura circa «l'organo di produzione di questa indipendenza o libertà». Nella KV è l'intelletto e non la ragione a produrre la beatitudine: «non penso che la sola ragione sia capace di liberarci da tutte queste [scil. le passioni]» (KV II, 14, [2]); «la ragione non ha alcun potere di condurci al nostro bene» (KV II, 14, [1]). La posizione in E appare meno tranchat: «Nella vita, dunque, è anzitutto utile perfezionare l'intelletto o la ragione» (E4 App. Cap.4). Secondo l'autrice il criterio di distinzione tra ragione e intelletto rispetto al tema della libertà può consistere nell'attribuire alla prima «un ruolo preminente nel processo di acquisizione della libertà e di elaborazione delle norme pratiche di una vita libera»; mentre al secondo l'identificazione con «la fruizione della libertà stessa», «espressione di un possesso stabile» «piuttosto che di un'acquisizione esposta a rischio, come fondamentalmente resta la ragione» Teoria e

pratica della libertà pp. 262, 274.

23 Ivi p. 270. 24 Ivi p.267 sg. 25 Cfr infra p. 5.

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3. Il concetto di libertà dell'uomo, alla luce dell'ontologia del sistema spinoziano, «si palesa come idea regolativa di una pratica che si esplica in contraddizione alla dipendenza naturale»

4. La teoria della libertà si fonda quindi su una contraddizione.27

Alla luce di tutto ciò sembra necessario porsi la seguente domanda: come mai l'autrice ha letto nel pensiero spinoziano questa contraddizione? O meglio: quali sono gli elementi teorici che la hanno portata ad un tale esito interpretativo? Avanzerei la seguente risposta che è contenuta nel primo punto appena esposto. Il motivo sta nel fatto che ella parte da una «definizione generale di libertà» come indipendenza ontologica. Il fatto che tale definizione sia assunta appunto come generale la costringe a renderla valida per Dio e per l'uomo; e poiché quest'ultimo ha uno statuto ontologico che è quello della determinazione esterna tanto all'esistere quanto all'agire, conseguentemente, i due concetti entrano in un'insanabile contraddizione logica. Da una parte, cioè, Spinoza definirebbe la libertà come totale indipendenza ontologica dalle cause esterne che – definendo la sostanza come causa sui spetta solo ad esse; dall’altra, invece, prospetta per l’uomo la possibilità della libertà come conoscenza di questa dipendenza e tendenza pratica di sopprimerla che però è in contraddizione con lo statuto ontologico del soggetto di questa libertà.

L'autrice stessa, tuttavia, notava che Spinoza non sarebbe stato d'accordo con una simile interpretazione critica e a i suoi contemporanei che già lo accusavano di assurdità rispondeva:

[…] se vorrete esaminare attentamente il mio pensiero, vedrete che tutto è in esso appianato.28

Per mostrare l’illiceità della sovrapposizione del concetto di libertà di Dio a quello dell’uomo

che opera la Giancotti vorrei avvalersi delle tesi di autori che come M.J. Kisner29 prima e con

ancora più lucidità da E. Marshall30 dopo, hanno sostenuto con argomenti persuasivi che nel

pensiero spinoziano esistono due concetti ben distinti di libertà, o, se si preferisce, due accezioni del medesimo termine non riducibili l'una all'altra. La prima accezione del termine, come anticipato, è

quella della «libera necessità»31 della sostanza ed è contenuta nella celebre E1Def.7: libera, è quella

cosa che «ex sola suae naturae necessitate existit, et a se sola ad agendum determinatur». Questa definizione «forte», nota Marshall, prevede due condizioni distinte: l'autodeterminazione all'essere

27 Ivi p. 277 sg.

28 Epistolario a cura di A. Droetto, Giulio Einaudi Editore, Torino 1951, Ep. LVIII p. 251.

29 M. J. Kisner, Spinoza on Human Freedom. Reason, Autonomy and Good Life. Cambridge University Press,

Cambridge 2011, soprattutto cap. I pp. 17-45.

30 E. Marshall, Man is a God to Man. How Human Beings Can Be Adequate Causes. In Essays on Spinoza's Ethical

Theory, Edited by M.J. Kisner and A. Youpa, Oxford University Press, Oxford-New York 2014, pp. 160-177.

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(being self-caused) e l'autodeterminazione all'azione (self-determined in actions). Senza dubbio, come già notava la Giancotti, se per Spinoza essere liberi significasse soddisfare entrambe le condizioni, per l'uomo non vi sarebbe alcuna possibilità di conseguire nessuna libertà. La seconda accezione «debole» del termine, invece, concernente tutti i modi in generale ma, l'uomo in particolare, prevede che quest'ultimo sia libero solo in quanto attivo, cioè causa adeguata delle proprie azioni, il che è possibile solo avendo idee adeguate. Secondo Marshall, questo nuovo senso in cui viene declinato il termine «libertà» corrisponde alla seconda condizione della definizione precedente: se l'uomo non può determinare se stesso all'essere, può però darsi la possibilità che si autodetermini all'azione.

Ora, il contributo che vorrei proporre per argomentare contro la lettura di una presunta contraddizione nella teoria della libertà spinoziana riguarda il suo carattere di parzialità e mai di totalità. Più precisamente, secondo l’interpretazione della Giancotti, lo sforzo di liberazione che l’uomo compierebbe dovrebbe avere come fine la totale emancipazione dall’influenza delle cause esterne: libera, infatti, è solo quella cosa che si determina ad agire da se sola. Nelle pagine seguenti, pertanto, per scagionare Spinoza dall’accusa di contraddittorietà, cercherò di mostra come, per il nostro autore, la libertà umana si configuri sempre come una parziale e mai completa emancipazione dalla potenza delle cause esterne a favore della propria.

Nelle pagine seguenti, pertanto, si cercherà, attraverso un confronto diretto col testo dell'Etica e con la letteratura critica in merito, di mostrare le condizioni di possibilità e i contenuti della libertà che Spinoza prospetta come possibilità reale e non teorica per l'uomo; ovvero, come, secondo il nostro autore, sia possibile raggiungere la libertà e in cosa essa consista. Una volta raggiunto quest'obbiettivo si potrà mostrare l'illiceità della sovrapposizione della definizione di libertà di Dio a quella dell'uomo compiuta dalla Giancotti che già gli autori citati in precedenza ci hanno invitato a distinguere. Dopo più di tre secoli e mezzo di sforzi interpretativi sui testi del nostro autore, pensare di poter dire qualcosa di veramente nuovo sulla libertà in Spinoza, tema “principe” della sua filosofia, sarebbe quanto mai fuori luogo; tuttavia, ciò non implica l'impossibilità, o l'inutilità, di continuare a meditare le pagine spinoziane e, dove se ne dà l'occasione, provare a perfezionare ed eventualmente correggere le nostre interpretazione. Se poi, in questo, si sarà imparato qualcosa utile per la vita, non si sarà fatto un torto al pensiero di Spinoza, ma, anzi, gli si sarà stati fedeli.

Ora, come è noto ad ogni lettore non superficiale dell'Etica, essendo al libertà l'obiettivo di quest'opera - e non solo - Spinoza espone la sua dottrina nel corso dell'intero testo: dalla prima sino all'ultima parte. Per ottemperare agli obbiettivi del presente lavoro, pertanto, sarà necessario seguire le catene dimostrative con le quali l'autore costruisce passo passo la sua teoria della libertà. Ciò non

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significa voler tentare un'esposizione complessiva dell'intera opera - obiettivo quanto mai velleitario e già brillantemente riuscito a molti – bensì, provare a dare una lettura tematica dell'opera che, per i motivi suddetti, dovrà prendere in considerazione alcuni temi che l'autore espone e discute nel corso di tutta l'opera. In particolare, prenderò le mosse dalla dichiarazione di E2P49S secondo la quale la libertà umana dipende dalla conoscenza che la mente ha di Dio. In primo luogo, pertanto, e a ciò è dedicato il secondo capitolo, cercherò di ripercorre i punti principali – senza alcuna pretesa di completezza - della teoria spinoziana della conoscenza di primo genere di E2 per mostrare come essa costituisca la base teorica della teoria degli affetti passivi in E3 e quest'ultima, a sua volta, quella della dottrina della schiavitù di E4. Delineate così nelle sue linee essenziali le ragioni della passività umana, nel terzo capitolo, invece, cercherò di ricostruire come l'uomo possa emanciparsi - per quanto gli è consentito dalla sua potenza – da questa condizione di schiavitù in cui necessariamente, o per natura, vive. Ciò, in primo luogo, è reso possibile dalla conoscenza dell'idea adeguata dell'essenza di Dio: la libertà, infatti, identificandosi con la conoscenza adeguata, corrisponderà alla conoscenza di Dio e a tutto ciò che da essa potrà essere ulteriormente dedotto e aumenterà all'aumentare delle progressive deduzioni di idee adeguate: ogni idea che deriva da un'idea adeguata, infatti, afferma Spinoza in E2P40, è anch'essa necessariamente adeguata. In particolare, tutto ciò che la mente umana dedurrà dalla sola idea adeguata dell'essenza di Dio corrisponderà alla libertà della ragione, che potrà si aumentare ma non potrà condurre l'uomo alla summa libertas: la beatiudo. Per far ciò la mente dovrà compiere un ulteriore passaggio e dall'idea adeguata dell'essenza di Dio dedurre l'idea, necessariamente adeguata, dell'essenza singolare del proprio corpo: solo così, infatti, all'uomo sarà possibile, per quanto sarà in suo potere, conosce le cose col terzo genere di conoscenza e godere dell'amor Dei intellectualis o beatitudo che corrisponderà alla massima potenza della mente, quindi, al massimo grado di libertà cui l'uomo potrà assurgere. Libertà che, in ultima analisi, non sarà mai totale: l'uomo, infatti è “ontologicamente” soggetto ad affetti passivi, pertanto detta libertà non potrà essere concepita che parziale e il suo grado dipenderà dalla potenza dell'uomo che si definisce solo in quanto egli

conosce adeguatamente le cose32. Il terzo genere di conoscenza, infatti, afferma esplicitamente

Spinoza «non absolute tollit [scil. gli affetti passivi] saltem efficit, ut minimam mentis partem constituat».33 L'uomo, afferma il nostro autore, per patire sempre meno dagli affetti passivi ed essere sempre più libero, deve sforzarsi di conoscere adeguatamente le cose «quantum fieri potest»:34 per quanto è possibile, quindi, senza l'immaginaria chimera della totale autodeterminazione; pertanto, in questo motto mi è sembrato di poter ravvisare l'essenza del

32 E5P29S.

33 E5P20S. 34 E5P4S.

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messaggio spinoziano.

II

Imaginatio: la schiavitù umana

Probabilmente la totalità degli interpreti è concorde nel considerare l'Etica non solo il

capolavoro, ma «il punto d'approdo delle riflessioni di Spinoza»35, e conseguentemente, il TIE e la

KV come scritti "preliminari" o comunque "immaturi" rispetto alla piena maturità raggiunta dall'Etica. Questo, quindi, autorizza ad intendere le posizioni di quest'opera come il pensiero di Spinoza. Quest'assunzione, tuttavia, non limiterà affatto l'analisi dell'ultimo capitolo nel quale si cercherà di capire se nella concezione della libertà, Spinoza abbia, o no, cambiato idea nell'arco della sua vita.

II.1 La definizione di libertà

La prima occorrenza positiva della libertà umana nel testo dell'Etica, si ha in E2P49S, il che potrebbe apparire a prima vista paradossale tenendo conto che si tratta di un luogo celeberrimo per lo scopo esattamente contrario: E2P48 e 49, infatti, nega alla mente umana qualunque «volontà

assoluta o libera»36. Nello Scolio in questione, Spinoza, in primo luogo propone «alcuni

avvertimenti» «per spiegare le proposizioni precedenti», invitando i lettori a «distinguere accuratamente» prima «tra l'idea o concezione della mente, e le immagini delle cose che immaginiamo» e poi «tra le idee e le parole con cui indichiamo le cose». In secondo luogo, ed è questa la parte più ampia del passo, si occupa di formulare e rispondere ad eventuali obiezioni che potrebbero essere mosse a questa sua «dottrina». Infine aggiunge: «per eliminare ogni scrupolo, ho creduto che valesse la pena indicare alcuni vantaggi di questa dottrina» ovvero, quanto la sua conoscenza «sia utile per la vita». Dei quattro punti che elenca il primo è quello per noi fondamentale:

35 M. Messeri, L'epistemologia di Spinoza. Saggio sui corpi e le menti. Il Saggiatore, Milano 1990, p.29.

L'espressione dell'autore citata è riferita alla «natura del pensiero» ma, oltre ad essere valida per il tema della libertà, credo possa esserlo in senso assoluto.

36 Tutte le citazioni in traduzione italiana dell'Etica, salvo indicazioni diverse, sono di Baruch Spinoza. Etica. Testo

latino dell'edizione di Carl Gebhardt, traduzione di Gaetano Durante, prefazione di Giorgio Agamben, Neri Pozza Editore, Vicenza 2014.

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1. In quanto insegna che noi agiamo per il solo volere di Dio e siamo partecipi della natura divina, e ciò tanto più quanto più perfette sono le azioni che facciamo e quanto sempre più conosciamo Dio. Questa dottrina, dunque, oltre a rendere l'animo del tutto tranquillo, ha anche il vantaggio d'insegnarci in che cosa consista la nostra suprema felicità o la nostra beatitudine, cioè nella sola conoscenza di Dio, dalla quale siamo indotti a fare soltanto quelle azioni che ci sono consigliate dall'amore e dalla pietà. Donde comprendiamo chiaramente quanto si allontano dalla vera stima della virtù quelli che, quasi in cambio della più dura servitù, si aspettano di essere decorati da Dio coi premi più alti in ricompensa della loro virtù e delle loro azioni migliori, come se la virtù e il servizio di Dio non fossero la felicità stessa e la suprema libertà.

Al lettore pratico dell'Etica, di fronte a questo passo, non sfugge certamente la grande densità di temi che esso contiene ed anticipa: non a caso Spinoza stesso avverte che questi «vantaggi» non sono che «alcuni», «giacché i principali s'intenderanno meglio da ciò che diremo nella quinta parte». Per questo motivo, in questa sede mi concentrerò su alcuni aspetti soltanto.

Nel breve esergo di E2, Spinoza si era proposto di spiegare, tra le cose infinite che seguono necessariamente dall'essenza di Dio, «solo quelle che possono condurci quasi per mano, alla conoscenza della mente umana e della sua somma beatitudine». Questo passo è ora completato da quello precedente. Innanzitutto non sembra necessario individuare alcuna differenza tra la summa beatitudo all'inizio di E2, e la summa felicitas sive beatitudo e la summa libertas di E2P49S: l'aggettivo summa è riferito ora alla beatitudo, ora alla felicitas, ora alla libertas e, almeno quì, sembra avere una valenza più che altro retorica. Da questo passo emerge quindi, che nella conoscenza di Dio risiede la felicità o beatitudine, che corrisponde alla libertà; inoltre, la virtù corrisponde a questa felicità e libertà. Perciò, se è la conoscenza di Dio che rende possibile la libertà, per determinare il significato di quest'ultima sarà necessario capire innanzitutto come sia possibile per la mente umana ottenere tale conoscenza; successivamente quale sia l'oggetto, ovvero cosa significhi conoscere Dio; infine come sia effettivamente possibile, e in che termini tale conoscenza conferisca all'uomo la libertà. Alla fine di questa «via perardua» (E5P42S) che si snoda attraverso la complicata architettura delle proposizioni dell'Etica, e lungo la quale la definizione appena vista verrà progressivamente precisata, sarà possibile provare a definire effettivamente cosa sia, e come si esplichi operativamente, la vera libertas umana.

II.2 Sensibilità e inadeguatezza

E2P40S2 è certamente uno dei passi dell'Etica più celebri, per l'esposizione dei tre generi di conoscenza. In questo luogo, solo il terzo genere, o scienza intuitiva, viene esplicitamente associato

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a Dio: esso «procede dall'idea adeguata di certi attributi di Dio alla conoscenza dell'essenza adeguata delle cose». Tuttavia, come si mostrerà, la conoscenza adeguata di Dio, attraverso l'idea dei suoi attributi – l'estensione in particolare – consta già al secondo genere di conoscenza, la ragione; mentre quella inadeguata appartiene all'immaginazione. In E1P15S, infatti, Spinoza contrappone alla conoscenza immaginaria di Dio, composto, «a guisa dell'uomo, d'un corpo e d'un'anima e sottoposto alle passioni», quella frutto dell'intelletto, cioè la «vera conoscenza di Dio», inteso come un «essere assolutamente infinito», cioè una «sostanza costituita da un'infinità d' attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna e infinita» (E1Def.6).

Alla conoscenza di Dio relativa alla ragione è deputato il capitolo successivo; qua, attraverso alcuni luoghi di E2, mi limiterò a ripercorrere la trattazione spinoziana dell'immaginazione, nella misura in cui è utile ai fini del presente lavoro; in particolare il suo aspetto "classico", o di passività. E' noto, infatti, che dai primi spunti di riflessione di Appuhn del 1926, alle opere di Gueroult, De Deugd, Mignini, Cristofolini, e Bostrenghi, solo per citare le maggiori sul tema, si è sviluppata una linea interpretativa che non si è limitata a cogliere il pur sempre innegabile aspetto passivo del primo genere di conoscenza, ma vi ha anche letto una teoria positiva che ne valorizzasse il lato

attivo.37 I mali, per esempio, possono provenire solo dalle cause esterne, ma ciò non implica

automaticamente che tutte le cause esterne producono in noi affetti da ritenersi mali, alcuni, infatti, anche se passivi possono accidentalmente aiutare il nostro sforzo attivo.38 E ancora, la letitia da cui è affetto l'uomo in quanto conosce le cose col terzo genere di conoscenza, dichiara esplicitamente Spinoza, aumenta tanto più quante più persone immaginiamo che siano modificate dalla medesima affezione; l'immaginazione, pertanto, per la quale l'uomo è e resta passivo, potrà coadiuvare lo

sforzo attivo umano.39

Se, per E1Def.3 e 6 la «sostanza» è «ciò che è in sé ed è concepito per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa dal quale debba essere formato», e che questa sostanza è Dio, ovvero «l'essere assolutamente infinito», costituito «da un'infinità di attributi ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna e infinita», ne consegue che oltre Dio – giacché è infinito, «non si può dare né si può concepire alcuna sostanza» (E1P14-15). Le cose singole, quindi, non potendo essere concepite come sostanze, verranno ad essere modi, cioè «affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per il cui mezzo» sono concepiti (E1Def. 5) e non potranno né

37 Cfr. C. Appuhn, Notes sur la theorie de l'imagination dans Spinoza, «Chronicum Spinozanum», IV, 1926, pp.

257-260; De Deugh, C., The Significance of Spinoza's first kind of knowledge, Van Gorcum and C. Assen 1966; M Gueroult Spinoza. II L'ame (Etique II), Aubier Montaigne, Paris, 1969; F. Mignini, Ars imaginandi. Apparenza e

rappresentazione in Spinoza, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1981; P. Cristofolini, La scienza intuitiva di Spinoza, Edizioni ETS, Pisa 2009; D. Bostrenghi, Forme e virtù della immaginazione in Spinoza, Bibliopolis,

Napoli 1996.

38 E4App.Cap.6 e 8.

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essere né essere concepiti senza Dio. Le cose, o «res particulares», sono infatti «affezioni degli attributi di Dio, ossia modi mediante i quali gli attributi di Dio sono espressi in maniera certa e determinata» (E1P25C). Secondo il modo di procedere tipico di Spinoza, dal generale per scendere poi nel particolare, in E2P10C, da queste premesse, egli deduce che «l'essenza dell'uomo» - nient'altro che una delle res particulares - «è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio.

L'essere della sostanza infatti (per la prop. preced.)40, non appartiene all'essenza dell'uomo. «Essa è

dunque (per la prop. 15 della I parte) qualche cosa che è in Dio e che senza Dio, non può né essere né essere concepito, ossia (per il cor. della prop. 25 della I parte) essa è un'affezione, o un modo, che esprime la natura di Dio in una certa e determinata maniera».

In queste poche proposizioni, Spinoza mirava a stabilire quello che, con un'espressione non sua, potremmo chiamare lo "statuto ontologico dell'uomo". La serie di proposizioni di E2P9C e 11-13, invece, punta a dimostrare che «l'uomo è costituito di mente e corpo», che essi sono uniti, e che cosa si debba intendere per tale unione (E2P13C e S). Dalle medesime E1Def.5 e E1P25C, Spinoza deduce in E2P1 e 2, che il pensiero e l'estensione sono attributi di Dio, ossia «Dio è cosa pensante» e «cosa estesa». I pensieri e le cose singolari sono, infatti, «modi che esprimo la natura di Dio in una maniera certa e determinata»; Dio, perciò, essendo l'attributo «ciò che l'intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza» (E1Def.5), consta di un attributo il cui concetto è implicato da tutti i pensieri e le cose singolari. Così, nello scolio della celebre E2P7, Spinoza, non afferma soltanto che la sostanza estesa e quella pensante sono la medesima cosa «compresa ora sotto questo, ora sotto quell'attributo», ma anche che «pure un modo dell'estensione e l'idea di questo modo sono una sola e medesima cosa, ma espressa in due maniere diverse». Con il medesimo modo di procedere già osservato, dal generale al particolare, in P11 Spinoza afferma che «la prima cosa che costituisce l'essere attuale della mente umana non è altro che l'idea d'una cosa singola esistente in atto». Che l'uomo pensi era già espresso in forma assiomatica all'inizio di E2 ma, giacche per E2P10C «l'essenza dell'uomo è costituita da certi modi degli attributi di Dio», né consegue che il pensiero dell'uomo è costituito da modi del pensiero. Ora, per E2A3, un modo del pensiero implica l'idea di tale modo che le è precedente. Perciò, «la prima cosa che costituisce l'essere della mente umana è un'idea». Inoltre, in forza di E2P7S, già richiamata sopra, una cosa singolare e la sua idea sono la medesima cosa. In E2P8C Spinoza concludeva che finché una cosa singolare non esiste, non può esistere nemmeno il suo «essere oggettivo», cioè la sua idea; perciò, quest'idea che costituisce l'essere della mente umana deve essere una cosa esistente in atto. Inoltre, deve trattarsi di una cosa «finita»: E2A1 e P10 che su di esso si basa, affermano infatti che «l'essenza dell'uomo non implica l'esistenza necessaria», esso è un modo, e non è causa sui come la

40 E2P9.

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sostanza. Quindi, come si esprimerà Spinoza nelle due proposizioni successive, «l'oggetto dell'idea costituente la mente umana» (E2P12-13), cioè «la prima cosa che costituisce l'essere della mente

umana è l'idea d'una cosa singolare esistente in atto» (E2P11D)41.

Nella P13, Spinoza chiarisce che questa «cosa singolare» non è altro che «il corpo umano»,

«ossia un certo modo, esistente in atto, dell'estensione, e nient'altro42»: Il corpo è l'oggetto della

mente, e quest'ultima è l'idea del corpo. Nello scolio della proposizione precedente, Spinoza deduce un concetto la cui importanza è difficilmente sovrastimabile: «tutto ciò che accade nell'oggetto dell'idea costituente la mente umana dev'essere percepito dalla mente umana, ossia di ciò sarà data necessariamente nella mente un'idea: se, cioè, l'idea costituente la mente umana è un corpo, nulla potrà accadere in questo corpo che non sia percepito dalla mente». Da E1P20 e 34, sappiamo che l'essenza, l'esistenza e la potenza di Dio coincidono; inoltre, essendo Dio causa di sé, tutto ciò che «concepiamo essere» in suo potere «è necessariamente» (E1P35). Essendo, perciò, Dio «cosa pensante» (E2P1), esso «può pensare infinite cose in infiniti modi»; quindi in Dio si darà «necessariamente l'idea tanto della sua essenza, quanto di tutte le cose che seguono necessariamente dalla sua essenza.» Ora, essendo le cose, e le idee ad esse corrispondenti, le medesime cose concepite sotto due attributi diversi, ciò che accade nell'oggetto di un'idea, se concepito sotto l'attributo del pensiero è un'idea che sarà data in Dio, «in quanto egli ha l'idea di quest'oggetto» (E2P9CD). Ma per Spinoza, affermare che Dio ha un'idea, o che la ha la mente umana, è equivalente: quest'ultima, essendo un modo dell'attributo divino del pensiero, «è una parte dell'intelletto infinito di Dio»; perciò, dire che la mente umana ha un'idea, corrisponde a dire che Dio ha detta idea «in quanto è spiegato mediante la natura della mente umana» (E2P11C). Quindi, di ciò che accade nel corpo, si darà un'idea in Dio, ma, essendo la mente umana modificazione di un attributo di Dio, allora, l'idea in Dio sarà la medesima nella mente umana.

Con questo complicato impianto "ontologico", Spinoza ha spiegato, come anticipato sopra, che l'uomo consta di mente e corpo, che essi sono uniti, e cosa si debba intendere per la loro unione. In particolare, esso fornirà la base per l'analisi della conoscenza immaginativa che svolgerà nelle proposizioni dalla 14 alla 31.

Quest'ultime sono precedute dal cosiddetto «trattatello di fisica»43, la cui necessità è spiegata

in P13S. Che il corpo sia oggetto della mente, ed essa idea del corpo, è, per Spinoza, «cosa

41 Escluse la breve Prefazione di E2 e la Definizione 3 con la sua Spiegazione, in P11 è contenuta la prima occorrenza

del termine mens di E2, senza che prima ne sia stato chiarito il significato. In effetti, in tutto il testo dell'Etica «non c'è una definizione generale di mens, ma soltanto (E2P11) l'indicazione di ciò che costituisce (constituit) la mente umana»: Cristofolini, op.cit. p. 36.

42 In E1P25C, già richiamato sopra, Spinoza deduceva che le res particulares sono modi o affezioni degli attributi di

Dio; Su di esso si fonda E2Ass.1: «Intendo per corpo un modo che esprime in una maniera certa e determinata l'essenza di Dio, in quanto è considerata come una cosa estesa».

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comunissima e vale ugualmente per gli uomini e per gli altri individui, i quali, benché in gradi diversi, sono tutti animati, [...] tutto ciò che abbiamo detto dell'idea del corpo umano si deve dire necessariamente dell'idea di qualunque cosa.» Per Spinoza, evidentemente, tutte le cose singolari sono dotate di mente, e hanno in sé un'idea che, per quanto inadeguata, corrisponde ad un'autoriflessione mentale; perciò, il criterio distintivo tra l'uomo e gli altri individui, non può consistere nella presenza o meno della mente. Ma è pur vero che la mente umana differisce dalle

altre, e ne è superiore.44 Essendo la mente idea del corpo, la superiorità di una mente sull'altra

dipende dalla superiorità del suo oggetto45. Tuttavia, per conoscere adeguatamente la natura della

mente, bisognerebbe conoscere prima quella del corpo,46 ma, continua Spinoza, «io qui non posso

spiegarla ampiamente, né ciò è necessario per quello che voglio dimostrare». Ci si potrebbe chiedere, infatti, quale sia l'obiettivo di Spinoza. La risposta è contenuta nella breve Prefazione di E2 dove egli aveva esplicitamente avvertito i lettori, che quanto sarebbe seguito, non avrebbe riguardato tutte «le cose che son dovute seguire necessariamente dall'essenza di Dio», ma sarebbe stato limitato alle «sole cose che possono condurci, quasi per mano, alla conoscenza della mente umana e della sua beatitudine suprema». Egli, perciò, vuole conoscere della natura del corpo, quel tanto che gli basta per dedurne la natura della mente, e da qui, la via per ottenerne la beatitudine o

libertà.47 Quindi, le «poche cose sulla natura dei corpi» che egli esporrà, saranno quelle necessarie

e sufficienti al suo scopo.48

Che il corpo sia affetto, non è per Spinoza oggetto di dimostrazione, infatti, in E2A4 e 5, ciò è assunto come un dato assiomatico: noi sentiamo che il corpo viene affetto e, oltre alle affezioni del corpo e ai modi del pensare, non percepiamo altre cose singole. I corpi, modi finiti dell'estensione (E2Def.2), oltre a distinguersi in ragione del moto e della quiete (E2L2), possono essere semplici, o composti da altri corpi semplici (E2A2). Questi ultimi posso aderire gli uni agli altri, o muoversi (Def. dopo A2). Ora, i corpi composti sono duri, molli, o fluidi, e ciò dipende dall'ampiezza delle superfici con le quali le parti dell'individuo, o corpo composto, aderiscono le une alle altre. Se sono piccole, sarà più facile che le sue parti si muovano e quindi il corpo sarà

44 Cfr. Cristofolini, op.cit. p.38.

45 Qui Spinoza fa un'anticipazione importante ma che sarà comprensibile appieno solo alla fine dell'esposizione della

sua filosofia: quanto più un corpo può fare o patire più cose assieme, tante più cose la sua mente sarà in grado di percepire, inoltre la mente sarà in grado di conoscere distintamente, quanto più le azioni del suo corpo dipenderanno da lui solo e quanto meno dai corpi esterni.

46 Messeri, (op. cit. p. P 214) ha puntualmente precisato che il fatto che Spinoza ritenga la natura della mente più

comprensibile alla luce della natura del corpo non deve essere interpretato come una supposta priorità ontologica sul pensiero in quanto le condizioni ontologiche di materia e pensiero sono pari.

47 Cfr. Sangiacomo, Malattia del Corpo e Emendazione dell’Intelletto in cui si mostra come tale indagine sulla natura

del corpo si ponga in continuità con quella del TIE e in che modo, soprattutto pp. 14 sg.

48 Cfr. anche Scribano, Macchine con la mente. Fisiologia e metafisica tra Cartesio e Spinoza, Carocci Editore, Roma

2015, p. 129. Secondo l'autrice, ciò che c'è di cartesiano della fisiologia di Spinoza, deriva dalle parti dell'Homme dedicate alle conseguenze sulla mente delle modificazioni del corpo.

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mollo; duro se le superfici sono ampie e quindi i corpi potranno essere mossi difficilmente; fluidi, quelli composti da parti in movimento le une rispetto alle altre. (E2A3). Quanto detto fin' ora, per Spinoza, vale in assoluto: essendo la sostanza infinita, non c'è limite all'aggregazione dei corpi. Se i corpi semplici, o cose singolari, o individui, concorrono assieme a produrre un effetto, essi costituiranno un'altra cosa singolare o individuo (E2Def.7); inoltre, se viene conservato il medesimo rapporto di moto tra le parti componenti un individuo, esso si conserverà nonostante le sue parti siano in movimento (E2L5-7). «La natura», perciò, non è che «un solo individuo, le cui parti, cioè tutti i corpi, variano in infiniti modi senz'alcun cambiamento dell'individuo totale» (E2L7S).

Alla luce di questa grandiosa visione della natura49, il corpo umano, oggetto dei sei postulati

prima di P14, non è che uno degli infiniti "stadi di aggregazione" dei corpi. Esso, infatti, «è composto di moltissimi individui (di natura diversa), ciascuno dei quali è assai composito» (E2Post.1). Da A3 di cui sopra, deriva Post.2 sulla natura del corpo umano, per il quale, gli

individui che lo compongono possono essere fluidi, molli o duri.50 Il quinto postulato, invece

afferma:

5. Quando una parte fluida del corpo umano è determinata da un corpo esterno in modo da colpire spesso un'altra parte molle, ne cambia la superficie e le imprime, per così dire, certe vestigia del corpo esterno che la spinge.

L'importanza dei postulati, nota Vinciguerra, è stata spesso e ingiustamente sottovalutata. Fra tutti, il quinto è quello in assoluto più importante, perché su di esso si basa la dottrina dell'immaginazione. Ma a cosa corrispondono le parti dure, molle, e fluide di cui parla Spinoza? Ora, è noto che una simile classificazione delle parti del corpo, risale già al De partibus animalium aristotelico in cui si afferma che «fra le parti omogenee degli animali, alcune sono molli e fluide, altre dure e solide» (2, 647b). Tuttavia, al tempo di Spinoza questo linguaggio è "moneta corrente" per chi si occupa di fisiologia: lo si riscontra, ad esempio, in Campanella, Glisson e Cordemoy, ma soprattutto Descartes. Quest'ultimo, nel Traitè de l'Homme (AT XI, p. 173), afferma che: «la sostanza del cervello» è «molle e pieghevole». Le parti fluide, o liquide - che è lo stesso -, sono invece «il sangue, gli umori, e gli spiriti»; solide, invece, «le ossa, la carne, i nervi, e le pelli» (AT XI, p.247). A sua volta, Cordemoy, riprende la terminologia cartesiana delle parti molli, dure, e fluide, e sostiene che «il cervello è di una materia sufficientemente molle per ricevere con facilità

certe impressioni»51.

49 Cfr. Ep. XVII: «ogni corpo, in quanto modificato in un certo modo, è parte di tutto l'universo, si accorda con il suo

tutto, ed è connesso in modo coerente con tutti gli altri».

50 Cfr. Vinciguerra, La semiotica di Spinoza. Saggio sui corpi e le menti, Edizioni ETS, Pisa 2012, p. 27 n.13. 51 Scribano, op. cit. p 130 e 230.

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Nelle opere di Spinoza, la terminologia propria della fisiologica cartesiana, della quale, si

può inferire dalla sua biblioteca, ne avesse una profonda conoscenza52, traspare già nel TIE in cui

sostiene che «la memoria [...] non è altro che la sensazione delle impressioni del cervello». Nella KV, invece, vi è un solo breve accenno agli spiriti animali, ma si tratta di un tema decisamente diffuso nella letteratura coeva da non poterne inferire una derivazione cartesiana che, invece, è chiara nei CM del 1663: «ma siccome immaginare non è altro che sentire le tracce che vengono lasciate nel cervello dal movimento degli spiriti, movimento che è eccitato nei sensi dagli oggetti, tale sensazione non può essere altro che una confusa affermazione» (CM, I,1). Non è questo il luogo per fornire un'interpretazione di quest'ultimo denso passo, tuttavia, ciò che bisogna notare è

che la fisiologia spinoziana si muove in un contesto decisamente cartesiano.53 Tutto ciò non è certo

sfuggito a quegli interpreti che, per tornare alla domanda dalla quale si era partiti, hanno identificato le parti fluide con gli spiriti animali, quelle molli con il cervello, e quelle dure nelle ossa. Gueroult, ad esempio, nota la Scribano, nel suo celebre commento a E2 identifica le parti fluide con gli spiriti

animali più «per comodità» che non per ragioni testuali consistenti54. Secondo Vinciguerra, tuttavia,

si tratta di un'operazione esegetica indebita. Come si è detto sopra, E2P11-13 si riferiscono alla mente umana in termini che in realtà sono validi per tutte le cose; allo stesso modo, non ostante il passo in questione sia inserito all'interno dei postulati riguardanti esplicitamente il corpo umano, vi

si affermano proprietà comuni ad atri individui.55 Per quanto si possa essere d'accordo sull'illiceità

di una simile identificazione, tuttavia, l'argomento di Vinciguerra non sembra colpire l'obiettivo: può essere vero che Post.5 riguardi tutte le cose, ma anche che nell'uomo le parti dure, molli, e fluide si identifichino con le ossa, il cervello, e gli spiriti animali.

Più stringenti sembrano invece le osservazioni di E. Scribano. L'autrice riconosce che «tutto quel che si può dire è che nel corpo umano, che è il corpo di cui si parla, esistono parti molli capaci di trattenere tracce che vengono impresse sulla loro superficie da parti fluide». Ciò significa, in sede interpretativa, che non si deve cercare di capire a cosa corrispondano anatomicamente le «parti» di cui parla Spinoza, ma «bisogna dare un senso storicamente adeguato al silenzio di Spinoza

sull'organo "molle" deputato alla ritenzione delle tracce che la mente percepisce».56 Secondo la

Scribano, la reticenza di Post.5 è da interpretare come una precauzione spinoziana: egli, come La Forge prima di lui, non volle correre il rischio di affidare le sorti della sua filosofia a quella di argomenti anatomici sui quali si discuteva alacremente in quegli anni. La Forge, infatti, che era stato uno dei più fedeli sostenitori della teoria cartesiana della ghiandola pineale, dopo l'incontro

52 Ivi p125.

53 Ivi p. 126-8.

54 Scribano op. cit. p. Gueroult op. cit. p. 55 Vinciguerra, op. cit. p.28 e 30.

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con Stenone nel 1665, si era mostrato disponibile a mettere in discussione il ruolo centrale della ghiandola come luogo dove mente e corpo interagiscono. Rinunciare alla ghiandola pineale come sede dell'anima, per La Forge, avrebbe sì comportato molto dal punto di vista fisiologico, ma nulla da quello filosofico. E giacché ciò che gli premeva maggiormente era mantenere il concetto – squisitamente filosofico – di rapporto tra mente e corpo come sola corrispondenza tra pensieri ed

eventi fisici, la sua scelta risulta comprensibile.57

E' noto che E5Pref. contiene una decisa critica all'ipotesi cartesiana della ghiandola pineale: essa «da una parte [...] non si trova situata nel mezzo del cervello in modo tale da poter essere girata qua e là tanto facilmente e in tanti modi, e, d'altra parte, che non tutti i nervi si prolungano sino alle cavità del cervello». Queste osservazioni, l'una relativa alla posizione centrale della ghiandola, l'altra circa il suo essere centro collettore di tutti i nervi, sono due delle quattro che La Forge cita nel suo Traitè, frutto del precedente incontro con Stenone in occasione del suo discorso pronunciato in

casa di Thèvenot nel 1665, e che pubblicherà col titolo Discours sur l'anatomie du cerveau.58

Queste corrispondenze testuali sono la prova che Spinoza era tutt'altro che all'oscuro di quanto stava accadendo in campo anatomico negli anni successivi alla morte di Descartes; proprio per questo, quando deve fare riferimento a dettagli anatomici e fisiologici essenziali alla costruzione della sua teorica della conoscenza, si riferisce genericamente al "corpo", senza sbilanciarsi correndo il rischio di compromettere la sua filosofia affidandola a basi anatomiche che potrebbero di li a

poco rivelarsi false.59

Il Post.5 introduceva per la prima volta il concetto di vestigium, come "traccia" impressa sul corpo umano da un corpo esterno, tuttavia, fin da E2A4 e 5 Spinoza aveva esposto sotto forma di assioma il fatto che il corpo fosse soggetto di affezioni che, anche se in questi luoghi non è detto esplicitamente, non possono che essere di corpi esterni. Con Post.5, perciò, egli sta specificando e precisando in cosa consiste un'affezione del corpo. Il passo successivo di questa precisazione è, come noto, E2P17S:

Per attenerci, inoltre, alle parole in uso, chiameremo immagini di cose le affezioni del corpo umano le cui idee ci rappresentano corpi esterni come a noi presenti, anche se esse non riproducono le figure delle cose, E quando la mente contempla i corpi in questo modo diremo che essa li immagina.

Nel Post.5 i passaggi che descrivono l'affezione del corpo sono due: il corpo esterno modifica le parti fluide del corpo, che a loro volta modificano quelle molle "imprimendole" con delle vestigia del corpo esterno. Adesso, invece, si parla solo genericamente di affezione del corpo. Quest'ultima,

57 Ivi p. 134.

58 Ibid. 59 Ivi p. 136.

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espressa mediante il termine «immagine» richiama l'idea che il corpo esterno lasci sul corpo umano una sua "impressione" o vestigia, cioè un'immagine di se. Tuttavia, con questo concetto egli salta il passaggio dalle parti fluide a quelle molli. Se questo è vero, può essere un'ulteriore prova di quanto gli interessi filosofici di Spinoza fossero preponderanti rispetto a quelli fisiologici: prima usa una teoria fisiologica, semplificandola non identificando le parti dure, fluide, e molli con nessun dettaglio anatomico in particolare, poi la semplifica ulteriormente saltando un passaggio. Se con Post.5 Spinoza scendeva nel particolare dell'affezione del corpo esposta in A4 e 5, adesso torna a semplificare le cose: le vestigia dei corpi esterni non sono tout court le immagini di cose, tuttavia non sono nemmeno diverse: si tratta piuttosto di due "modelli" diversi per esprimere lo stesso concetto. In ogni modo, il lettore dell'Etica sa già che in quanto segue questi passi, il concetto che avrà più fortuna sarà quello delle immagini di cose come affezioni del corpo. In forza dell'unione della mente col corpo, come l'ha spiegata Spinoza fino a E2P13, è chiaro come mai ad un'affezione del corpo, corrisponda nella mente un'idea di tale affezione: quest'ultima è idea del corpo e deve sapere tutto ciò che accade nel suo oggetto, perciò, quando il corpo riceve le immagini di un corpo esterno - cioè viene affetto da esso – la mente avrà l'idea di questa immagine, e perciò potrà essere propriamente detto che «immagina».

Gli interessi filosofici "traditi" dalla semplificazione che Spinoza opera con E2P17S, sono esposti nelle proposizioni successive fino a P31, dove termina la trattazione della conoscenza di primo genere. Attraverso le affezioni del corpo, e le idee ad esse corrispondenti, la mente conosce: se stessa (P23), il corpo umano (P19), e i corpi esterni (P16). Tuttavia, anche se la mente può avere le idee delle idee delle affezioni del corpo (P22), esse non implicano la conoscenza adeguata della mente umana (P29); inoltre, sia la conoscenza «delle parti costituenti il corpo umano» (P24), sia «del corpo umano stesso» (P27), implicata dall'idea di un'affezione del corpo, non sarà adeguata ma confusa.

La conoscenza che, con un termine parzialmente spinoziano può essere detta "sensibile"60, è

inadeguata in primo luogo perché è rappresentativa:61 deriva

da oggetti singolari che ci sono rappresentati dai sensi in modo mutilato, confuso, e senz'ordine per l'intelletto.62

Conoscere una cosa esterna come idea o immagine di un'affezione del corpo, non significa

60 Cfr. Scribano, op. cit. p. 143.

61 Sangiacomo, Nota sul ruolo dell'essentia corporis nell'Etica di Spinoza, in Isonomia-Storica Rivista online di

Filosofia, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, 2013, p. 4.

62 E2P40S2 «per sensus mutilate, confuse, et sine ordine ad intellectum repraesentatis»; cfr. anche E1App.: «Nam cum

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conoscerla "direttamente", bensì averne coscienza attraverso la mediazione del corpo: la cosa esterna lascia una sua "impressione" sul corpo, e attraverso di esso la mente ne ha coscienza. L'idea della cosa esterna è quindi una "copia" «confusa e mutilata» a causa del "passaggio" attraverso il

corpo; quest'idea, perciò, non spiega la natura della cosa – cioè la sua essenza63 – perché in realtà è

l'idea di un'affezione del corpo, quindi un'idea inadeguata.

Ma il fatto che al corpo sia affidato questo ruolo di mediatore dei dati sensibili, fa sì che ciò che "arriva" alla mente dipenda dal corpo, ovvero dalla sua "disponibilità" a essere modificato:

le idee che abbiamo dei corpi esterni indicano più la costituzione del nostro corpo che la natura dei corpi esterni: il che ho spiegato con molti esempi nell'appendice della prima parte.64

In secondo luogo, quindi, la conoscenza "sensibile" è inadeguata in quanto soggettiva: giacché l'idea inadeguata della cosa esterna, che abbiamo attraverso l'affezione del corpo, dipende dalla "disponibilità" del corpo a essere modificato, ed essendo i corpi di ciascuno diversi l'uno dall'altro, anche le modificazioni di ciascun corpo saranno differenti e, conseguentemente, anche le idee corrispondenti saranno le une diverse dalle altre. In E1App., richiamata dal passo precedente, Spinoza afferma:

Benché, infatti, i corpi degli uomini si accordino in molto punti, essi tuttavia sono discordi in moltissimi altri, e, quindi, ciò che all'uno pare buono, all'altro sembra cattivo; ciò che per l'uomo è ordinato, per l'altro è sgradito, e così via per tutte le altre cose [...].

Questi passi, certamente tra i più celebri dell'intera opera spinoziana, contengono una vera e propria contrapposizione tra la concezione delle cose derivante dell'immaginazione e una intellettuale. L'uomo che possiede quest'ultima, - e come si ottenga sarà oggetto del capitolo successivo - sa che Dio

esiste necessariamente; che è unico; che è e agisce per la sola necessità della sua natura; che è causa libera di tutte le cose, e in qual modo lo sia; che tutte le cose sono in Dio e dipendono da lui in modo che senza di lui non possono né essere né essere concepite; e infine che tutte le cose sono state predeterminate da Dio, non già invero mediante la sua libera volontà o il suo assoluto beneplacito, ma mediante la natura assoluta di Dio ossia mediante la sua infinita potenza.65

63 Cfr. E4Def.8; Sangiacomo, La libera necessità. Note sul compatibilismo in Spinoza, «Filosofia Politica», 25, 2011, 1,

pp. 85-106; p. 7.

64 E2P16C2. 65 E1App.

(23)

La maggior parte degli uomini, a cui Spinoza si riferisce anche in termini di «volgo», o «ignoranti», invece, ha una concezione di Dio e delle cose che «sovverte totalmente la natura». Tutti gli uomini nascono nell'ignoranza delle cause delle cose, e nella consapevolezza dell'appetito col quale cercano il loro utile; tuttavia, in forza dell'ignoranza originaria, scambiano i loro appetiti per libera scelta, e si illudono di perseguire con le loro azioni dei fini, mentre invece stanno semplicemente ricercando ciò cui sono stati determinati ad appetire. Per questo, essi, comunemente, "interpretano" il comportamento altrui, e la natura, solo mediante il concetto di finalità. Essi, inoltre, trovano «in sé e fuori di sé» i mezzi per raggiungere i loro fini; ma dal fatto che detti mezzi non sono artificiali, gli uomini derivano l'idea che esistono «uno o più rettori della natura», della cui «maniera di sentire» - ignorandola - «hanno dovuto giudicare in base alla propria». Questi Dei, frutto della proiezione sulla natura del pregiudizio teleologico, infatti, dirigono «tutte le cose per l'uso degli uomini». Ora, questo pregiudizio teleologico è anche responsabile di «tutte quelle nozioni con le quali [scil. gli uomini] pretendono di spiegare le nature delle cose»: dal fatto che essi credono che ogni cosa sia fatta per il loro utile, essi interpretano tutto in funzione loro, ovvero, di quanto una cosa li affetta in maniera più o meno gradevole. Da qui deriva, per esempio l'idea di ordine: se le cose rappresentate mediante i sensi possono essere facilmente immaginate e ricordate, allora saranno dette ben ordinate, al contrario confuse. Tuttavia, continua Spinoza, l'ordine che gli uomini vedono nella natura, in realtà, è solo nell'immaginazione degli uomini – cioè nell'idea dell'affetto del corpo. Parimenti «se, per esempio, il movimento che i nervi ricevono dagli oggetti percepiti mediante gli occhi contribuisce alla salute, allora gli oggetti che ne sono la causa sono detti belli»; brutti, invece quelli che «suscitano un movimento contrario». E attraverso gli affetti delle narici, della lingua, del tatto, e delle orecchie, si spiegano concetti come quello di odoroso o fetido, dolce o amaro, duro, molle o ruvido, e quello di armonia, che tanta fortuna ha avuto nella conoscenza immaginaria di Dio e del movimento dei corpi celesti. «Tutto ciò», conclude Spinoza,

mostra abbastanza che ciascuno ha giudicato delle cose secondo la disposizione del suo cervello, o piuttosto ha preso le affezioni della sua immaginazione per le cose stesse.66

Gli uomini, comunemente, si adagiano nella falsità implicata dalle idee inadeguate. Falsità - occorre dirlo - dovuta sì dalle idee inadeguate, ma estrinseca ad esse: la falsità di un'idea di un affetto del corpo, infatti, non consiste in nulla di positivo, ma è tale solo in relazione al suo oggetto. La mente che ha idee inadeguate, cioè che immagina, non erra perché immagina, bensì essendo priva delle idee che facciano ondeggiare l'immaginazione (E2P33,35 e 49S). Per questo motivo gli uomini non dubitano delle idee inadeguate, e confondono queste idee o immagini delle cose prodotte

66 Ibid.

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