di Emmanuele Massagli
L’affermazione di quello che il Jobs Act ha definito il “si-stema duale italiano”, ossia le tipologie di apprendistato a più alto tasso formativo (I e III livello), ha riattivato il dibattito sui meriti e i limiti dei sistemi formativi c.d. work-based, nei quali la maggior parte dell’orario ordinamentale è svolto fuori dalle mura scolastica, in assetto lavorativo.
È difficile, quando si affronta questo argomento, che il discorso non viri sulle potenzialità del sistema tedesco, l’originale “dua-le” al quale si è richiamato il legislatore italiano quando ha rifor-mato i contratti di lavoro nel 2015 (Jobs Act).
Il medesimo tentativo di emulazione si è osservato anche in altri Paesi europei, incoraggiati dalla Unione a contrastare gli alti tassi di disoccupazione giovanile adottando i modelli formativi dell’unico Paese occidentale che non ha visto decrescere gli occupati under 30 durante il decennio 2008-2018. Queste ri-forme sono state aiutate dallo stesso Governo tedesco, sempre molto efficiente nel sostenere economicamente e tecnicamente la replicazione delle prassi attive in Germania anche in altri Paesi (è
* Intervento pubblicato in Boll. ADAPT, 25 febbraio 2019, n. 8.
quello che sta accadendo nell’industria manifatturiera a proposito dell’Industry 4.0, anch’esso copyright di Berlino).
La riforma del 2015 ha segnato certamente un passo avanti nella normazione del nostro apprendistato e i numeri degli studenti che attivano questo contratto mentre frequentano un corso scolastico o di formazione professionale secondaria supe-riore (apprendistato di I livello, anche detto “scolastico”) o du-rante gli anni universitari (apprendistato di III livello, “di alta formazione”) ne sono la prova più evidente: dopo oltre quindici anni di regolazione (il moderno apprendistato è nato nel 2003 con la legge Biagi), quello che in molti Paesi europei è da tempo il canale di ingresso privilegiato nel mercato del lavoro va affer-mandosi anche in Italia.
Abbattuto il muro dei pregiudizi politici e degli ostacoli tecnici che hanno sempre depotenziato l’apprendistato (permangono in-vece i nodi ideologici e culturali), dovrebbe ora aprirsi un con-fronto sulle caratteristiche dell’apprendistato che vogliamo, sulla conformazione che deve avere la formazione work-based in Italia.
Il legislatore ha scelto di rifarsi, anche terminologicamente, al si-stema tedesco. È opportuna questa scelta?
Proprio l’osservazione delle migliori esperienze che sono andate affermandosi in questi anni (Piazza dei Mestieri a Torino, Come-ta a Como, Aslam nel Varesotto, IISS Gadda a Fornovo di Taro, IISS Alborghetti a Imola, il dottorato di ADAPT in tutta Italia, la triennale di Scienze dell’educazione a Bergamo…) suggerisce una risposta almeno dubbiosa, se non negativa. Nella tradizione ita-liana, infatti, è facilmente individuabile un sistema di apprendista-to che non coincide con quello tedesco, ma che nel secolo scorso ha avuto gli stessi, ottimi, risultati.
La differenza tra la via italica e quella germanica è da ricer-carsi nello spessore della dimensione pedagogica: la mag-gior parte dei programmi di apprendistato tedeschi non si
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pongono come obiettivo primario l’apprendimento. I datori di lavoro ricorrono a questo contratto non tanto per sviluppare competenze strategiche (investimento), ma come opportunità a basso costo per le urgenze del presente (necessità di produzione).
La deriva economicistica del dispositivo pedagogico dell’apprendistato è la più diffusa stortura del modello “ideale”
professato dalle istituzioni europee. Un limite probabilmente no-to ai tecnici di Bruxelles, che non hanno mai nascosno-to di suggeri-re questo contratto non tanto per le sue potenzialità formative ed educative, bensì per l’efficienza in termini di politica del lavoro, per la capacità di efficace placement dei giovani non solo alla fi-ne, ma anche durante il periodo di studi.
L’apprendistato italiano, quello che deriva dalla lunga storia delle botteghe medioevali, modernizzatasi negli ultimi due secoli nella forma delle scuole di avviamento professionale di origine religio-sa e, nel dopoguerra, negli istituti industriali che hanno formato la piccola imprenditoria italiana artefice del boom economico, è invece un dispositivo incentrato sulla educazione integrale del-la persona. “Integrale” perché non soltanto teorica e nozionisti-ca (scuola), ma anche pratinozionisti-ca e incentrata sulle competenze tra-sversali e professionali (lavoro). Ora che è caduto il muro della liceizzazione obbligatoria di ogni ordine scolastico proprio grazie alla ventata di novità pedagogica portata dall’apprendistato e, in misura minore, dall’alternanza (da gennaio “PCTO”), sarebbe davvero un errore storico dimenticare la nostra storia per replica-re un meccanismo nato in altro contesto, con diverse istituzioni e, soprattutto, scopi non coincidenti.
Non è in dubbio – anche rispetto ai profondi mutamenti deter-minati dall’impatto del progresso tecnologico sul mercato del la-voro in ordine a competenze richieste, frenetica obsolescenza delle professioni, necessaria trasversalità formativa – il metodo che caratterizza il contratto di apprendistato e, quindi,
l’alternanza formativa, la circolarità tra formazione e lavoro. Tut-tavia, è necessario che tale metodo sia funzionale a un fine supe-riore a quello della sola occupazione di breve durata, non abbia paura di puntare alla educazione integrale della persona. D’altra parte, un giovane integralmente formato è certamente anche oc-cupabile in un mercato del lavoro che sempre di più cerca perso-ne “sveglie” e non i “110 e lode”.
«Ecco perché scegliamo l’apprendistato di I livello». Intervista a Franco Bercella
*di Matteo Colombo
Bercella S.r.l. è un’azienda manifatturiera che si occupa dello svi-luppo e della produzione di materiali compositi per i settori aero-space, difesa e automotive, con sede a Varano de’ Melegari, in pro-vincia di Parma. È un’azienda di medie dimensioni, con settanta dipendenti, e una forte propensione all’export. Accoglie ragazzi in alternanza scuola-lavoro e, soprattutto, in apprendistato di I li-vello, strumento quest’ultimo che hanno deciso di adottare con convinzione, riconoscendolo come strumento utile per favorire una crescita integrata a livello territoriale. La presente intervista, realizzata con il titolare dell’azienda Franco Bercella, vuole ap-profondire i perché dietro la scelta di investire sull’apprendistato.
Come e quando nasce Bercella S.r.l.?
Sono sempre stato innamorato delle tecnologie, che sono anche il mio hobby. Lavoravo in Dallara, un’azienda che si occupa di automotive, e 23 anni fa ho deciso di mettermi in proprio per fon-dare una mia azienda. Con l’ingegner Dallara, che è un po’ il mio secondo padre, il quali mi ha aiutato sin da subito dandomi dei preziosi consigli fin da subito e abbiamo iniziato a lavorare
* Intervento pubblicato in Boll. ADAPT, 25 febbraio 2019, n. 8.
sieme. Ci occupavamo soprattutto di prototipazione rapida uti-lizzando, ed eravamo tra i primi in Italia, materiali compositi. La crescita dell’azienda è stata la crescita del territorio: attraverso una collaborazione fattiva con gli altri imprenditori della zona abbiamo contribuito a costruire delle realtà di eccellenza, da qualche tempo riconosciute come protagoniste della c.d. Motor Valley, la zona dell’Emilia dove hanno sede e producono Ferrari, Lamborghini, Ducati, solo per citare le più note. La nostra logica di crescita ha sempre avuto come orizzonte il territorio nel quale siamo inseriti, lavorando fianco a fianco con gli altri imprendito-ri, ed è per questo che abbiamo deciso di scommettere sull’apprendistato come leva per la crescita locale.
È quindi in quest’orizzonte territoriale che nasce l’interesse per l’apprendistato. Da quanto tempo utilizzate questo strumento, e perché?
Tutto ha inizio nove anni fa. L’istituto superiore Gadda, situato nella vicina Fornovo di Taro (PR), formava diplomati che, però, non riuscivano a trovare lavoro: la scuola li preparava per mestie-ri e gli dava competenze non mestie-richieste dal termestie-ritomestie-rio. Ci accor-gemmo, a un certo punto, che gli stessi venti diplomati giravano da un’azienda all’altra, cercando lavoro invano, o dimettendosi dopo poco tempo. Come imprenditori, decidemmo di collabora-re collabora-realizzando un corso di riqualificazione professionale della du-rata di 300 ore, dove aprimmo le nostre aziende agli studenti. Si imparava girando da un’azienda all’altra, con l’esperienza concre-ta e sul campo. Alla fine del percorso, tutti e venti i ragazzi erano occupati. Se mi permettete la metafora, gli “ingredienti” erano gli stessi: cos’era cambiato? La “ricetta” utilizzata: quei ragazzi, mes-si alla prova in un percorso formativo dove le competenze erano ottenute nella pratica lavorativa, erano diventati ottimi collabora-tori. Allora, tra noi imprenditori, ci chiedemmo: perché non
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dere sistema questo strumento, finora occasionale? Decidemmo quindi di collaborare con le scuole locali, in primis con l’istituto Gadda, per formare assieme i giovani, realizzando un sistema di partnership pubblico/privato. La scuola, nello stesso periodo, stava subendo un drastico calo di iscrizioni, gli studenti iscritti al-la prima cal-lasse diminuivano del 30% all’anno. È stato quindi in-teresse comune mettersi in gioco per creare, dialogando, ognuno a partire dalla propria specifica esperienza, un metodo con cui formare i giovani del territorio. E i numeri, per ora, ci stanno dando ragione: oggi gli studenti del Gadda aumentano del 300%.
Questo è un dato significato anche per le imprese: significa che stiamo lavorando per la competitività del nostro territorio, evi-tando che i giovani vadano altrove a studiare o lavorare, e for-mando giovani dotati di competenze capaci di renderli facilmente occupabili. Il metodo che abbiamo scelto per arrivare a quest’obiettivo è stato quello del “fare per imparare”: mettere a disposizione le nostre aziende, i nostri dipendenti, aprirli alla scuola, e di rimando entrare – noi stessi – a scuola, favorendo la creazione di laboratori tecnologici e collaborando con i docenti per la progettazione di una didattica veramente integrata, tra scuola e lavoro. Non c’è – o, meglio, non ci dovrebbe essere – un
“salto” tra scuola e lavoro, ma una continuità: ad esempio, noi assegniamo ai ragazzi delle superiori alcuni compiti che hanno poi un utilizzo pratico. E sui quali continuano a lavorare quando entrano in azienda. Lavoriamo quindi per la creazione di un uni-co euni-cosistema scuola-lavoro. Da qui, quasi naturalmente, la scelta dell’apprendistato di I livello, che da un paio d’anni utilizziamo per formare i giovani e accompagnare il loro ingresso in azienda.
Abbiamo assunto anche apprendisti di III livello, iscritti all’ITS Maker di Bologna, specializzato nell’automotive, o in collaborazio-ne con il Politecnico di Milano e l’Università di Parma.
L’apprendistato in Italia è diffuso soprattutto nella sua for-ma professionalizzante, che rappresenta quasi il 97% del to-tale degli apprendistati, mentre l’apprendistato di I e III li-vello sono in calo. Dal quadro d’insieme emerge quindi un apprendistato in cui non c’è formazione, constatazione questa che mette in dubbio il valore stesso dell’istituto, so-prattutto nelle sue versioni più formative. Quando poi si parla di apprendistato di I livello, la giovane età degli ap-prendisti fa sospettare che siano sfruttati o utilizzati per compiti poco formativi, in quanto non dotati delle giuste competenze. Qual è il percorso di formazione di un ap-prendista in Bercella S.r.l.?
Parte della “colpa” è di noi imprenditori, che spesso non ricono-sciamo il valore strategico della formazione, soprattutto di quella che non ha come orizzonte solamente i nostri dipendenti ma lo stesso territorio. Noi realizziamo percorsi d’apprendistato di I li-vello di durata biennale, in quarta e quinta. In terza invece i ra-gazzi svolgono un periodo d’alternanza scuola-lavoro. Il ragazzo in apprendistato non è qui per imparare un mestiere: indubbia-mente guadagna competenze utili per il proprio futuro profes-sionale, ma il primo obiettivo è quello di generare consapevolez-za. Consapevolezza di che cos’è il lavoro, di cosa vuol dire lavo-rare spalla a spalla con qualcuno che ti accompagna passo dopo passo in ciò che fai, consapevolezza del gusto di un lavoro fatto bene, del senso complessivo dell’impresa così com’è inserita nel proprio territorio. È questa consapevolezza che rende davvero occupabili: nel nostro settore, imparare il lavoro è un processo che dura anni. Anche i professionisti già formati, quando arriva-no da arriva-noi in azienda, hanarriva-no bisogarriva-no di un periodo di 7-8 mesi per cominciare a comprendere le nostre logiche. È impossibile pensare che un giovane, in due anni, mentre va a scuola, impari tutto quel bagaglio di competenze che si ottiene solo con
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l’esperienza. Può però guadagnare la consapevolezza di cosa si-gnifica il lavoro, di cosa sisi-gnifica per lui. Alla fine del percorso, può allora capire che la mia azienda non va bene per lui, e va in quella del vicino: ma ciò è comunque un bene, perché io ho con-tribuito a formare un lavoratore di qualità. Dato che la competi-tività si gioca tra territori, ho comunque raggiunto il mio obietti-vo. Questo lo scopo: per quanto riguarda poi il metodo, è la stes-sa modalità con cui si organizza il lavoro in azienda che genera processi d’apprendimento continuo. Noi in Bercella utilizziamo un “flusso di inserimento e formazione”, nel quale ogni nuova ri-sorsa è collocata. Si viene affiancati, a turno, a diversi lavoratori, per comprendere meglio le proprie inclinazioni e interessi, ma anche per avere uno sguardo globale su cos’è l’impresa. Non si è mai soli, e passo dopo passo, si è accompagnati in un percorso di crescita continuo, che diventa poi anche di condivisione della propria conoscenza, con i nuovi ingressi e con i colleghi. Alla ba-se c’è un’organizzazione del lavoro finalizzata ad esaltare il know-how aziendale e condividerlo attraverso flussi d’apprendimento dinamici. Ad esempio: un ragazzo entra in azienda in apprendi-stato, viene assegnato ad un ufficio, dove affianca un lavoratore senior. Poi viene spostato in officina, magari per una propria predilezione “tecnica”, e viene affiancato ad un altro lavoratore.
A sua volta, quando arriverà un altro apprendista, il primo potrà aiutarlo ad orientarsi. Anche in questo caso, infatti, l’elemento fondamentale è la consapevolezza. Consapevolezza di come muoversi all’interno dell’azienda, consapevolezza del proprio ruolo all’interno di un processo più grande. Questa consapevo-lezza si costruisce in due modi, tra loro complementari: attraver-so la formazione e l’organizzazione del lavoro. È all’interno di queste dinamiche che l’apprendistato vede esaltate le sue qualità.
Un altro elemento di metodo è coinvolgere apprendisti e studenti nella realizzazione di progetti aziendali: ad esempio, a un gruppo
è stato assegnato il compito di realizzare parte di un bastone per non vedenti, che verrà poi perfezionato e dato in beneficenza ad una onlus. Messi così in gioco, davanti alla realtà e riconoscendo il senso di quello che fanno, possono davvero esprimersi e cre-scere, umanamente prima che professionalmente. È la crescita della persona quella che ci interessa.
L’apprendistato di I livello è un sistema integrato tra scuola e lavoro. Nella vostra esperienza, qual è il ruolo della scuola e quale quello dell’impresa?
La scuola gioca un ruolo fondamentale, quello di dare ai giovani le nozioni e le conoscenze necessarie per il loro futuro professio-nale. Ma questo non basta, se non dialoga con il tessuto produt-tivo nel quale è inserita. Con l’apprendistato la didattica dialoga con l’impresa, e in questo è fondamentale il lavoro dei tutor for-mativi, della scuola e dell’azienda. Il loro obiettivo, insieme a quello dei professori e dei dipendenti, è infatti quello di “tenere assieme” nel processo d’apprendimento del giovane ciò che im-para dietro un banco con ciò che vede all’opera in azienda. Ma prima di tutto, la scuola è chiamata ad aiutare i giovani a cono-scere il territorio in cui vivono, e le aziende che in esso lavorano.
Le nostre imprese, viste da fuori, sembrano tutte uguali: bisogna viverle da dentro. E qui entra in gioco il ruolo degli imprenditori, che devo spalancare i propri cancelli a studenti e ai loro genitori.
Questo è orientamento! La conoscenza del tessuto produttivo del proprio territorio non vuol dire “piegare” la scuola al lavoro, ma aiutare processi di formazione che portano alla consapevolezza che sopra si richiamava. Abbiamo tutti bisogno di imparare a dia-logare e collaborare, per costruire assieme il nostro futuro, per il quale le competenze sono tanto importanti quanto i bilanci aziendali.
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Molti imprenditori riconoscono nell’apprendistato un “co-sto” e poco altro, oppure sono dubbiosi perché scoraggiati dalla burocrazia. Quale la sua opinione in proposito?
Per prima cosa, ritengo che quando un imprenditore si giustifichi dicendo che “non ha tempo”, stia sbagliando: tutti abbiamo lo stesso tempo a disposizione, dipende come lo impieghiamo e su cosa investiamo. Io seguo gli open day aziendali, aperti a studenti e genitori, che realizziamo il sabato mattina. Avrei altro da fare?
Certamente. Ma riconosco in quell’attività un investimento stra-tegico per il futuro del territorio, non solo come valore economi-co, ma sociale. L’apprendistato “costa”, prima di tutto, tempo e fatica: ma ogni imprenditore sa per esperienza che senza tempo e senza fatica non avrebbe potuto raggiungere nessun traguardo, una volta riconosciutone il valore. Il problema è allora tornare a riconoscere il valore di questi sistemi integrati scuola-impresa.
Ma è una sfida urgente: in un territorio dove le imprese sono ric-che e il tessuto sociale muore, c’è una bomba a orologeria, ric-che prima o poi esploderà. Se non si investe nelle competenze e nella formazione dei giovani, aiutando le scuole, i giovani andranno a studiare – e lavorare – altrove: è così che un territorio muore. In-vestendo invece nell’apprendistato, investiamo nel nostro futuro come imprenditori, oltre che come cittadini di questo territorio.
Una volta riconosciuto questo valore, si può affrontare qualsiasi sfida, anche perché non si è da soli: la prima cosa da fare è met-tersi in gioco, andare a parlare con le scuole, con gli imprenditori che hanno già realizzato questi progetti. Noi siamo contattati quotidianamente per consigli o richieste di supporto: è facendo rete che è possibile superare la logica dei costi economici e buro-cratici, abbracciando un orizzonte più ampio.
Quale futuro per l’apprendistato in Italia? Cos’è necessario per promuoverne la diffusione, e quali consigli potete dare ad altri imprenditori?
Se l’apprendistato è scelto esclusivamente a fini occupazionali, per abbattere il costo del lavoro e senza una formazione vera-mente integrata, non ha futuro. O almeno, non ne ha nella misu-ra in cui non è un “vero” apprendistato, cioè un percorso nel quale un giovane vede affiancato all’apprendimento “scolastico”
la diretta esperienza della realtà del lavoro, in una logica di inte-grazione reciproca. Sicuramente gli imprenditori devono collabo-rare tra loro, adottare uno sguardo che li vede proiettati fuori dal-le loro quattro mura, in una competizione globadal-le, per la quadal-le è necessario investire sul proprio territorio. Possono molto anche le realtà di rappresentanza datoriali, così come la politica, chiama-ta ad investimenti strategici per aiuchiama-tare lo sviluppo delle imprese.
È fondamentale anche lavorare molto sull’orientamento in uscita e favorire un “orientamento al lavoro”, con visite aziendali e una riflessione che nasce già in classe sul senso del lavoro. Altrettanto importante è investire sulla formazione dei tutor aziendali, sia per quanto riguarda la formazione interna che per promuovere il dia-logo con la scuola. Senza poi un coinvolgimento attivo dei siste-mi formativi, chiamati a mettersi anche loro in discussione, l’apprendistato non può prendere piede. Ad esempio sull’apprendistato di III livello siamo all’anno zero. Le università mi sembrano meno propense, rispetto alle scuole, a instaurare un dialogo, anzi: siamo noi che, bisognosi di giovani laureati, dob-biamo andare a chiedere. Sembra che il rapporto con le imprese sia un’opzione tra le altre, a conferma di una logica accademica ancora troppo autoreferenziale. Per fortuna non tutte le universi-tà sono così: però i numeri dell’apprendistato di III livello in Ita-lia mostrano come per ora l’istruzione terziaria sia ancora par-zialmente indifferente a questa logica di sviluppo territoriale e
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commistione tra teoria e pratica. È invece importante mettersi in gioco, collaborare, costruire assieme, tra imprenditori e tra im-prese e scuole, condividere le buone pratiche così come le diffi-coltà. La sfida dell’apprendistato, e del futuro dei territori, si vin-ce solamente assieme.
Sede di Bercella S.r.l. a Varano de’ Melegari