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Linguaggio ed emozione, mezzi e fini dell’ominazione

La formatività inconscia Gaetano Bonetta

6. Linguaggio ed emozione, mezzi e fini dell’ominazione

La razionalità, come usa dire il più diffuso dei luoghi comuni, distingue gli uomini dagli animali, che invece sono vittima della loro incontrollabile e istintiva emozionalità. E questo è quanto di più falso ci sia. L’uomo sem- bra essere tutto ragione e coscienza razionale, ma, come abbiamo abbon- dantemente sottolineato, è ben altro. Ragione ed emozioni viaggiano di pari passo, perché con c’è azione dell’uomo, anche la più razionale o la più irragionevole, che non prenda spunto e origine da una emozione. Inoltre, quando subiamo un cambiamento d’emozione, dobbiamo automatica- mente cambiare ambito di azione. Di ciò sembra non si voglia avere la giu- sta contezza e si insiste nell’accreditare l’esclusivo tratto di razionalità di un’azione. Così, si fa una palese e grave negazione delle emozioni, siano esse positive siano esse negative. A trarre vantaggio da simile negazione, quindi, è la creazione di alienati e reificati modelli standard di riferimento interpretativo e comportamentale che, come se fossero dogmi di fonte tra- scendentale, codificano il sentire e l’azione secondo presunti principi di ra- zionalità. Quest’ultima, che è logicamente “confezionata”, è fondata su premesse che costituiscono una indelebile e massiva “visione del mondo”, la quale a sua volta è fortemente interiorizzata e serve a sclerotizzare la re- altà e la sua fissità.

Una credenza o cognizione che ha notevole seguito, e fors’anche credi- to, e che va sicuramente aggiornata, riguarda la trasformazione del cervello umano, che secondo certa vulgata è stata caratterizzata prevalentemente dalla mitizzazione del pollice che si oppone e poi dalla fabbricazione e dall’uso degli strumenti. Di altro parere è Maturana, il quale, pur accon- sentendo all’incidenza dello sviluppo della manualità e del pollice opponi- bile, propende per la sempre più raffinata arte di sbucciare le graminacee e in particolare per l’accentuato uso delle mani per accarezzare affettiva- 102

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mente qualsiasi parte del corpo e per l’espressione di sentimenti e di emo- zionalità attraverso il linguaggio. Egli sostiene che la “peculiarità dell’essere umano non sta nella manipolazione, bensì nel linguaggio e nel suo colle- gamento con l’emozionalità”, che comunamente ad esso si attribuisce qua- le “sistema simbolico di comunicazione”. Va molto più in là. Esprime “co- ordinazione di azione”, ma non “una qualunque coordinazione di azione”, bensì alcune “coordinazioni di azioni consensuali”. La consensualità otte- nuta con il linguaggio, che crea condivisione, si regge sul sentimento di af- fetto, sull’amore. E il linguaggio, come tale, è mezzo e fine della nostra ominazione. Nella conservazione del nostro “fenotipo ontogenetico”, del nostro modo di vita, il linguaggio ha promosso e realizzato la creatività esi- stenziale della quotidianità sempre più de-brutalizzata e umanizzata che ha permesso “la conservazione del nuovo nella conservazione del vecchio”, nell’esaltazione dell’affetto. E con il tempo il linguaggio si è fatto anche fattore di civilizzazione: con essa ha coinciso, aggiungiamo noi. E quindi, ancora, il linguaggio si è fatto elaborazione espressiva dell’emozione. E lo stare assieme dell’umanità è uno stare assieme emotivo, mosso da una dif- fusa emozionalità che si esprime storicamente, che acquista forme e valen- ze antropologiche e culturali, che sviluppa aggregazioni e forme superiori di socialità universalizzante.

Per Maturana, una grande emozione, una sensualità emotiva, pervade e orienta l’umanità: l’amare. Malgrado crisi e regressioni, arresti e disfaci- menti sociali, è questa, dell’amore, l’emozione su cui si fondano il piano di una condivisa e universale sensualità e la civile convivenza che speri- mentiamo da secoli. Senza l’amore non ci sarebbe stato l’edificio dell’uma- nità civilizzata. “L’amore è l’emozione che costituisce quell’ambito di azio- ni nel quale le nostre interazioni con l’altro rendono l’altro un altro legit- timo nella convivenza”. Solo le “interazioni ricorrenti nell’amore ampliano e stabilizzano la convivenza; le interazioni ricorrenti nell’aggressione, inve- ce, interferiscono e spazzano la convivenza”. Per tale motivo, il linguaggio non può avere avuto come ambito quello dell’aggressione, che divide e li- mita la convivenza, ma quello delle coordinazioni dei comportamenti con- sensuali e condivisi. Per tale motivo l’amore o l’affettività è l’emozione che genera il sociale. È l’unica dimensione che consente il riconoscimento dell’altro che è uguale a noi pur nella sua manifesta, ma legittima, singo- larità intesa come specificità e unicità di tutti gli uomini uguali. Per cui, “senza l’accettazione dell’altro nella convivenza non c’è fenomeno sociale”. Solo gli uguali che si riconoscono e che vivono l’intersoggettività affettiva

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possono creare e adottare il linguaggio, che a sua volta aiuta a perfezionare l’espressione dell’amore individuale e sociale. Il linguaggio non è un sem- plice strumento di comunicazione inter-personale, ma l’invisibile collante che regge e caratterizza la convivenza. Questo linguaggio nasce quando na- sce l’uomo, quando stare nel linguaggio, vivere il linguaggio, creare con il linguaggio divennero parti fondanti del modo di stare e di essere nel mon- do, di vivere nel mondo che abitiamo. Da qui diviene patrimonio del- l’umanità, costituisce il lignaggio homo, ove il linguaggio non è un mezzo di espressione dell’amore, ma è amore, così come l’amore è linguaggio. L’amore è fin dal suo inizio l’emozione centrale della storia evolutiva uma- na.

L’uomo è impastato di amore, l’umanità è un planetario impasto d’amore, nell’amore si nasce e dall’amore si dipende. L’amore è la connes- sione del tutt’uno. E ciò è così vero che non si può assolutamente smentire che oggi la sofferenza umana è prodotta dalla negazione dell’amore affet- tivo e che anche le più generali patologie sanitarie provengono dai deficit d’amore. Quella negazione dell’amore affettivo che è stata “celebrata” da Franz Kafka nel suo noto racconto La tana, ove si narra la sofferta esisten- za di un uomo che è stata ridotta alla ricerca ossessiva e angosciata dell’au- to-conservazione senza rapporto umano, esaltando e realizzando il “natu- rale” destino di ogni persona concepito come solitudine deprivata da qual- siasi reciprocità umana. È questa del grande scrittore praghese l’immagine nitida, ma al tempo stesso tetra e devastante, di cosa possa essere una vita individuale scavata nei labirinti della solitudine e di cosa possa significare la fuga dalla partecipazione al consorzio umano in termini di sofferenza psichica e mentale.

Alla luce di quanto finora raccontato, e in particolare degli ultimi con- tributi di Maturana, appaiono chiare l’importanza e la decisività delle re- lazioni sociali, intersoggettive, affettive, umane. È questo l’ambito o il luo- go non-locale ove l’uomo si riproduce, cambia, si trasforma. “In ragione di ciò, tutta la storia individuale umana è sempre un’epigenesi nella con- vivenza umana. Vale a dire che ogni storia individuale umana è la trasfor- mazione, da una struttura ominide contingentemente fondatrice a una storia particolare di interazioni che si produce costitutivamente nello spa- zio umano”, ove si è generato il linguaggio e istituito il suo uso come parte integrante e caratterizzante del nostro modo di essere e di vivere.

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