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Linguistica e politica

1. INTRODUZIONE

1.3 Linguistica e politica

In base a quanto visto sulla storia degli studi romeno-albanesi, è lecito chiedersi come mai proprio in ambito albanese – la cui lingua, come il romeno, viene documentata per iscritto solo a partire dal XVI secolo83 e le cui origini restano quindi ancora avvolte nelle nebbie della storia – non si abbia la stessa attenzione relativa a un argomento di tale interesse per la lingua e la cultura del Paese delle Aquile.

Va innanzitutto precisato che gli stessi studi albanologici in Albania si sviluppano tardi84. Un supporto istituzionale al riguardo si ha solo a partire dal 1940 (un anno dopo l'occupazione italiana), con la creazione dell'Istituto Regio degli Studi Albanesi, che precede l'Accademia delle Scienze, quest'ultima fondata solo nel 197285 in pieno regime dittatoriale. È infatti a partire dagli anni '50-'60, ovvero durante la dittatura comunista di Enver Hoxha, che si conosce un vero e proprio decollo degli studi di linguistica storica albanese86. Tuttavia, questa disciplina risulta subito condizionata dal presupposto che gli Albanesi e la loro lingua discendono in linea diretta dagli Illiri e sono autoctoni sul

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

sec., l'ipotesi di un eventuale influsso dell'alb. sul rom. è verosimile. Il rotacismo invece è uno sviluppo indipendente nelle due lingue. b) Le somiglianze tra dacoromeno e tosco, a volte sottolineate da qualche studioso al fine di giustificare un'ipotetica migrazione dei parlanti toschi dagli spazi settentrionali, vanno considerate come sviluppi recenziori avvenuti dopo l'insediamento slavo nei Balcani. c) Il lessico comune albano-romeno presenta vari strati cronologici. d) Il lessico latino dei due idiomi, anche qualora provenisse da un latino balcanico (il cui grado di unitarietà resta ignoto), presenta caratteristiche maggiormente occidentali e urbane in albanese, più antiche di quelle in romeno. e) Gli sviluppi fonetici nei latinismi delle due lingue presentano somiglianze, ma anche differenze. f) Quanto al lessico comune prelatino, una parte di esso consiste in elementi antichi, anche se è impossibile definire da che lingua essi provengano; un'altra parte di tale lessico consiste in sviluppi recenziori, come testimoniato anche dai processi di formazione delle parole, identificabili internamente all'alb.

83 Anche se il primissimo documento albanese sopravvissuto alla storia consiste in una formula battesimale ("Formula e pagëzimit") dell'Arcivescovo di Durazzo Pal Ẽjlli (Engjëlli), datata 1462; mentre il primo testo sinora rinvenuto è una traduzione risalente al 1555 del Messale Romano ("Meshari") per opera del vescovo originario di Ljare (srbcr. Livari, comune di Antivari, Montenegro) Gjon Buzuku. Il primo documento romeno è la "Lettera del boiaro Neacșu" ("Scrisoarea lui Neacșu de la Câmpulung"), del 1521.

84 Alle problematiche legate a fattori extralinguistici trattate in questa sezione si aggiungono altre, di natura prettamente linguistica. Nella linguistica storica albanese si verifica la forte tendenza a sovrapporre due discipline che invece dovrebbero restare distinte: da una parte, la dialettologia albanese intesa come storia della lingua; dall'altra, lo studio in chiave indoeuropeistica delle origini di tale idioma. Esemplificando, sarebbe come se partendo dal bergamasco, dal barese e dal napoletano si cercasse di ricostruire il latino (in questo caso, non documentato) e, nel contempo, un modello di protolingua indoeuropea.

85 L'Istituto Albanologico di Pristina (Kosovo, allora parte della Jugoslavia) viene invece fondato nel 1953.

86 Scrive Schmitt (2012: 5): "Siccome la scienza albanese, nella sua forma istituzionalizzata, è nata dopo il 1945 [che coincide con l'ascesa al potere del Partito Comunista di Hoxha, N. d. A.], i modelli governativi e di pensiero sono fortemente influenzati dall'ideologia nazional-stalinista della dittatura di Enver Hoxha, che negli anni '70 venne esportata anche nelle regioni jugoslave abitate da albanesi. [...] In tal modo si spiega la continuità dei vecchi metodi nazionalisti di interpretazione della storia, anche dopo il rovesciamento del comunismo in Albania (1990-1991)".

territorio attualmente abitato87. Si tratta di un'ipotesi che risale ai primordi degli studi sulla lingua albanese88, ma che diviene tesi ufficiale consolidata durante l'autocrazia di Hoxha e resta tuttora invariata in qualsiasi pubblicazione in albanese, sia essa scientifica o divulgativa89. È ovvio che una simile tesi, nonostante poggi su basi scientifiche tutt'altro che solide90, rifletta una profonda motivazione politica: il ritratto degli Illiri come autarchici, guerrieri e antagonisti delle potenze straniere viene proiettato sul popolo albanese, definendo l'isolazionismo e la xenofobia91 con cui il totalitarismo di Hoxha intende forgiare il cosiddetto "uomo nuovo" su cui avere il controllo92. L'arroccarsi dietro l'illirismo e l'autoctonia territoriale vanno intesi anche come reazioni albanesi all'ultranazionalismo balcanico, propugnato da diversi Paesi vicini e legato a pretese territoriali relative al suolo dell'odierna Albania. La profonda politicizzazione della società albanese e un isolamento del sapere ormai non più imposto, bensì scelto spontaneamente93, restano comunque considerabili come parte dell'eredità monista enveriana, che come vecchi stendardi adombrano le coscienze e oscurano gli orizzonti di futuri, autentici dibattiti scientifici a porte e a menti aperte.

Una situazione non dissimile si verifica in territorio romeno e viene illustrata e riassunta in modo esauriente da Johannes Kramer (1999/2000: 106-163), qui di seguito riportato liberamente.

Da quando, nel XV sec., gli umanisti italiani cominciarono a interessarsi a un popolo balcanico che parlava una lingua latina, è sorto e poi si è sviluppato nel corso dei                                                                                                                

87 Le altre due ipotesi sono: a) quella secondo cui gli Albanesi discendono dai Traci (Weigand e Schramm), di cui si hanno poche iscrizioni, qualche toponimo e qualche nome proprio; b) quella che vede sia nel tracio sia nell'illirico elementi costitutivi dell'etnogenesi albanese (Jokl).

88 Risalenti al XVIII sec. con Leibniz e Thunmann. Il linguista che tuttavia si è impegnato maggiormente alla difesa di tale tesi è stato Çabej, seguito dai suoi colleghi albanesi.

89 Çabej (2008: 484) scrive: "Il carattere autoctono del popolo albanese sin dall'antichità, dimostrato con mezzi linguistici, la sua sede e la formazione della sua lingua in un territorio abitato prevalentemente da tribù o popolazioni illiriche è una delle prove della sua filiazione illirica" (l'ediz. orig. risale al 1969).

90 I motivi principali vengono riassunti in modo chiaro e succinto da Matzinger (2012: 38-39): a) Il materiale linguistico dell'illirico è troppo esiguo perché le possibili concordanze tra le due lingue possano fungere da testimonianza definitiva su una continuità diretta illiro-albanese. b) La toponomastica dell'Albania presenta sviluppi fonetici più recenti rispetto a quelli del vocabolario ereditato albanese. c) Le concordanze lessicali (e strutturali) tra albanese e romeno testimoniano un rapporto stretto tra queste lingue già durante la loro preistoria. La tesi di Matzinger, assieme a quella di una parte consistente di studiosi non albanesi, sostiene che gli Schipetari provengono dalla parte interna dei Balcani.

91 Arshi Pipa apud Schmitt (2012: 5) scrive: "Le scienze linguistiche e letterarie, la storia, la geografia, il folklore e l'etnologia vennero coltivate non solo per fornire una conoscenza sul passato, ma anche per diffondere e istigare la xenofobia, la slavofobia, l'isolazionismo, la compattezza etnica e l'unità linguistica".

92 Il massimo organo repressivo al tempo era il servizio segreto di Stato, in alb. Sigurimi, al quale corriponde il rom. Securitate.

93 Schmitt (2012: 6-7) spiega questo fenomeno grazie alla gerarchizzazione estrema della scienza secondo l'età: non è l'abilità, bensì l'età a determinare il livello scientifico. Egli aggiunge: "In tali circostanze, i giovani studiosi difficilmente riescono a farsi sentire all'interno del sistema della ricerca; gli intellettuali dallo spirito critico vengono tenuti distanti dal lavoro scientifico".

secoli un vivace dibattito fra gli studiosi intorno all'origine dei Romeni. Già verso la fine del XVIII sec. si erano delineate le tre tesi principali, che perdurano tuttora. Tra queste predomina quella dell'autoctonia o della continuità94, secondo cui la popolazione (daco)romana della Dacia non sarebbe migrata in massa a sud del Danubio al tempo di Aureliano, ma sarebbe rimasta, almeno in parte, in loco a nord del Danubio, sicché il romeno rappresenterebbe la diretta continuazione del latino provinciale della Dacia95. Tale ipotesi viene propugnata da quasi tutti gli studiosi romeni. Kramer descrive in modo esemplare i seguenti nomi rappresentativi: "Puşcariu (1940), il portavoce del più acceso nazionalismo96 e strenuo fautore della continuità, dipingendo una grande "romenità" ininterrotta dal tempo di Roma al presente97; Rosetti (la sua opera comincia ad apparire negli anni '30, ma l'edizione definitiva è del 1986), che rappresenta al meglio la posizione                                                                                                                

94 Le altre due tesi sono le seguenti: a) La teoria della migrazione, nota come tesi di Rösler (Romänische Studien, Leipzig 1871) secondo cui i Romeni discenderebbero da popolazioni romanze provenienti da sud del Danubio, in particolare dalla Dacia di Aureliano (e da aree vicine come i bacini della Morava e del Timok, avendo l'imperatore ritirato dalla Dacia transdanubiana tutti o quasi tutti i Romani) e rifugiatesi a nord in seguito alla pressione slava, sicché il romeno continuerebbe il latino provinciale della Mesia, quindi il latino balcanico. Tale tesi viene abbracciata da Miklosich, Tomaschek, Paris apud Solta (1980: 67) e Densusianu (1901: 288 s.). Essa è stata eccezionalmente difesa inoltre da Philippide (1925-1927), per questo stroncato dalla successiva critica romena "ufficiale", e da André Du Nay, studioso prob. romeno ma che opera dietro pseudonimo. Lacea (1924/1926: 368-370) testimonia nel XIV sec. insediamenti romeni di origine sud-danubiana in Transilvania. Secondo lui, sia i dati linguistici sia quelli storici indicano che i Romeni dello Şchei di Braşov avevano una patria comune con i Meglenoromeni, specialmente con quelli provenienti dalla Ţârnareca, a sud del Danubio, nella Bulgaria orientale. b) La teoria della fusione, secondo cui dopo il ritiro delle forze romane, a nord del Danubio sarebbe rimasta una popolazione residuale romanizzata, che nel primo Medioevo sarebbe stata rafforzata dall'afflusso di genti romanze da territori a sud del Danubio (perciò, il romeno mostrerebbe comunque in prevalenza tratti linguistici nord-danubiani). Quest'ultima teoria viene condivisa da Solta (1980: 67-71) e da Banfi (1991: 74-75), partendo dal parere di Puşcariu secondo cui la patria originaria dei Romeni doveva trovarsi su un territorio esteso ai due lati del Danubio. Bartoli (1933: 223) aggiunge l'esistenza di una quarta tesi: "Altri studiosi pensano che la culla del romeno sia da cercare a sudovest (o quasi a occidente) della Dacia di Traiano. Più precisamente, alcuni pensano alla Dalmazia romana, o almeno all'area transalpina di questa regione; e altri alla Pannonia inferiore e ad aree vicine". Bartoli (1933: 223-224) conclude che un'indagine (recente per i suoi tempi) fondata sui materiali, in parte nuovi, della raccolta delle iscrizioni cristiane di E. Diehl (Inscriptiones latinae christianae veteres, Berolini 1925-1931) relativa a casi del tipo agrestis (fase antica) ~ silvaticus (fase seriore) e di altre simili coppie (aggiungendo che "il procedimento dell'indagine è chiarito a suo luogo, con figure simili a quelle che si vedono nell'opera pubblicata in onore di Milan Rešetar: Ragusa di Dalmazia, 1931"), pur non riuscendo a provare nessuna delle ipotesi, reca indizi favorevoli alla tesi della continuità e a quella occidentale, e sfavorevoli a quella della migrazione (secondo cui la culla del romeno sarebbe a sud del Danubio). Bartoli pertanto non esclude la possibilità di una doppia culla. M. G. Nandriş apud Bartoli (1933: 224) afferma che non è necessario ammettere che l'origine dei Romeni sia stata solo occidentale od orientale (tesi della continuità) ma che piuttosto sono prob. esistiti più centri d'irradiazione, argomentando che il nome del Danubio in romeno (Dúnărea) è stato conservato in modo diretto, nonostante i romenisti, compreso Tagliavini, pensino il contrario.

95 Bartoli (1933: 223) aggiunge: "[...] Le dottrine della continuità [...] affermano che nei confini della Dacia di Traiano, che coincidevano quasi esattamente con quelli dell'odierno Regno di Romenia, il latino e poi il romanico e infine il romeno non hanno subito nessuna interruzione. Oppure ne hanno subite soltanto nelle aree più esposte alle comunicazioni: nei centri urbani e nelle vallate dei fiumi. Per compenso, in quelle aree il latino era, secondo alcuni studiosi, più antico, cioè vi era penetrato anche prima della conquista di Traiano". Un sostenitore della tesi della continuità è inoltre Bonfante (1973: 69-75).

96 Anche con venature razziste (egli fu secondo Kramer un ammiratore del nazionalsocialismo tedesco).

standard della linguistica romena sotto la dittatura comunista, devotamente allineata alla tesi della continuità fra Daci e Romeni, che divenne una sorta di slogan politico, come dimostrano le seguenti parole di Ceauşescu pronunciate nel 1980 a un congresso di storici: 'I nostri antenati, i Daci, hanno formato con i Romani il popolo Romeno, hanno qui fondato un forte stato e condotto dure lotte per uno sviluppo indipendente'; Sala (1998), la cui opera, nonostante sia apparsa dopo la caduta del regime, non si distacca dalla linea dei suoi predecessori, in quanto la tesi della continuità rimane il fulcro delle sue argomentazioni"98. Stadtmüller (1966: 34) già scriveva al riguardo: "La tesi della continuità, sulla quale i fattori extrascientifici hanno un ruolo decisivo, resta un mito nazional-politico difeso a tutti i costi".

Fig. 2. Illyés (1988: 77a).                                                                                                                

In realtà ci sono diversi fattori importanti che contraddicono la tesi romena della continuità (v. fig. 2 e 3):

1) I territori abitati originariamente dai Romeni, quelli dove si è formata la loro lingua, erano la Valacchia e la Moldavia, che non facevano parte della provincia romana della Dacia, anzi non sono mai appartenuti all'Impero Romano.

2) Mancano tutti i presupposti per ipotizzare un'autentica, profonda romanizzazione della Dacia fra il 106 e il 271 d. C. Dopo la sconfitta di Decebalo, i Daci sopravvissuti erano in gran parte fuggiti, e il territorio era stato ripopolato da genti provenienti da ogni parte dell'impero, che non parlavano latino, ma greco o la loro propria lingua99.

Fig. 3. Illyés (1988: 79a).

3) Il lessico cristiano di base romeno proviene dalla latinità sud-danubiana.

4) In romeno sono presenti parole della tarda latinità, che non potevano esistere prima del 271 (camisia, fossātum, mānicāre)100.

                                                                                                               

99 Kramer (1999/2000: 142-161). Banfi (1991: 71) specifica che l'abbandono della Dacia non è da intendersi come automatica cancellazione dell'elemento latino o latinizzato a nord del Danubio quanto piuttosto come un ridimensionamento della presenza di popolazioni latinizzate nei territori transdanubiani. Egli comunque riconosce che la Dacia perse il sistema difensivo romano in quanto le legioni vennero smobilitate e trasferite lungo il limes danubiano, ed è in questi territori sulla riva destra del fiume che si sviluppò il protoromeno.

100 Kramer (1999/2000: 142-161). Secondo Du Nay (1996: 254) il romeno contiene le vestigia degli sviluppi tipici del latino tardo e i tratti caratteristici del latino balc. (intorno ai secc. IV-VII d. C.). Inoltre, le

5) In romeno mancano elementi germanici antichi. La stragrande maggioranza di tali elementi è giunta per mediazione del tedesco, grazie ai contatti (a partire dal XII-XIII sec.) con le genti sassoni stanziate in Transilvania e Banato. Ancora più recenti risultano gli elementi tedeschi penetrati in Transilvania, Banato e Bucovina tramite l'amministrazione austriaca e talvolta anche tramite il giudeo-tedesco (jiddisch)101.

6) Le concordanze con l'albanese102.

7) Il carattere bulgaro (e, in minor misura, serbo) dell'elemento slavo del romeno103. Una caratteristica condivisa da tutti i dialetti romeni (romeno settentrionale o cosiddetto "dacoromeno", istroromeno, aromeno e meglenoromeno) è la somiglianza delle più antiche influenze slave. Ciò sarebbe stato difficilmente possibile qualora i progenitori dei Romeni avessero vissuto, oltre che in Serbia e in Macedonia, anche a nord del Danubio, nella Dacia carpatica. Tutti i dialetti romeni condividono una settantina di voci di origine slava che contengono caratteristiche fonetiche propriamente slave risalenti a un periodo antecedente il X sec., il che dimostra che queste voci dovevano esistere nel romeno comune. Tali                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

concordanze con diversi dialetti d'Italia lo portano a ipotizzare contatti quotidiani con genti latinofone della Penisola Italica, risalenti al Medioevo. In tale periodo, il confine (limes) nordorientale dell'Impero era la parte bassa del Danubio, fortemente difesa dall'esercito romano. Più tardi, nei secc. V-VI, fu l'Impero Bizantino a difendere le frontiere in questione contro le scorrerie di popolazioni barbariche. Durante tutto questo periodo, non erano quindi possibili contatti frequenti con la riva sinistra del Danubio. Perciò, dopo la fine del III sec., la lingua di un popolo latinofono a nord di tale fiume non si sarebbe potuta sviluppare allo stesso modo in cui avvenne con il romeno. Di conseguenza, durante il periodo del latino tardo, gli antenati dei Romeni vivevano all'interno dell'Impero Romano, ossia a sud del Danubio.

101 Banfi (1991: 71-72).

102 Tali concordanze secondo Banfi (1991: 72) "non possono essere attribuite unicamente al sostrato comune, ma devono essere spiegate con un periodo di simbiosi protoromeno-albanese". Secondo studiosi quali Illyés (1988: 248) e Du Nay (1996: 256) la lingua balcanica che rappresenta il sostrato del romeno è il protoalbanese. Schumacher (2012: 47-58) invece parla di prestiti dal protoalbanese al latino/romanzo balcanico.

103 Banfi (1991: 73). Illyés (1988: 249-150) suggerisce che è incoerente riconoscere che il romeno comune (o antico) si sia formato durante il X sec. d. C. e nel contempo affermare che esso sarebbe il discendente dell'intera popolazione latinofona che una volta abitava la Penisola Balcanica. Tale popolazione venne esposta all'invasione e conquista slava, il che, al più tardi durante il VII sec., fece sì che le sue ampie aree originarie si riducessero a territori più ristretti. L'influsso slavo a suo parere fu relativamente debole sui Vlacchi poiché, vivendo principalmente come pastori sulle montagne della Serbia e della Macedonia, essi non furono assimilati dagli Slavi, come invece doveva essere accaduto alle altre popolazioni romanizzate, ad eccezione di quelle della costa dalmata. Siccome gli Slavi avrebbero prediletto, per un lungo periodo, le montagne più basse, le valli e le pianure, ciò avrebbe permesso anche la sopravvivenza della lingua e dell'identità degli Albanesi. Illyés (1988: 251) e Du Nay (1996: 253) asseriscono che l'influenza dello slavo meridionale (bulgaro) sul romeno settentrionale (ossia sul cosiddetto "dacoromeno"), che raggiunge l'apice nei secc. XI-XIII, non poteva essere esercitata nel territorio dell'odierna Romania. Illyés (1988: 251-252) sostiene che gli elementi lessicali bulgari mutuati nel romeno settentrionale in tale periodo riguardano spesso l'organizzazione sociale e statale nonché la religione e la gerarchia ecclesiatica. Durante tale periodo, l'influsso slavo risulterebbe invece molto più debole in aromeno. Di conseguenza, dopo l'interruzione dei contatti tra i parlanti aromeno e quelli parlanti romeno settentrionale, i primi avrebbero continuato essenzialmente lo stesso stile di vita, relativamente isolati dagli Slavi, mentre i secondi avrebbero conosciuto un cambiamento di un certo livello per quanto riguarda la loro situazione sociale, ovvero una partecipazione nella vita sociale della popolazione bulgara. P. es. nel 1186 gruppi massicci di Vlacchi della Bulgaria presero parte nell'organizzazione del Secondo Impero Bulgaro.

slavismi sono dovuti a un determinato tipo di contatto risalente a un certo periodo e in un certo territorio, per cui i parlanti romeno comune appartenevano a una comunità omogenea, che non poteva comprendere né le pianure a nord del basso Danubio né il territorio compreso dai Carpazi né quello a est di questi ultimi104.

8) Il fatto che il romeno, in base alla classificazione eseguita da Schaller105 nel contesto della Balkansprachbund, sia una lingua balcanica di primo grado (assieme all'albanese, al continuum delle parlate macedoni106 e al bulgaro), data la frequenza di balcanismi107 in essa documentati, inspiegabili qualora la sua formazione fosse localizzata in un largo territorio sia a nord che a sud del Danubio. In tal caso, il romeno dovrebbe avere meno balcanismi del serbo, quest'ultimo invece considerato da Schaller108 come lingua balcanica di secondo grado per il suo numero più ridotto di tratti tipicamente balcanici. Inoltre, in romeno ci si aspetterebbe una presenza di differenze regionali nel numero di balcanismi tipici, come avviene p. es. nel continuum bulgaro, dove si hanno più balcanismi nei dialetti macedoni rispetto alle parlate del nordest. Così, per quanto riguarda il romeno settentrionale (v. fig. 4) si dovrebbe avere una presenza minore o meno pronunciata di balcanismi nei suoi dialetti meridionali, mentre nel romeno parlato più a nord e a nordest, in particolare a nord del Danubio [il cosiddetto "dacoromeno", N. d. A.], tali balcanismi dovrebbero essere ancora più esigui. Tuttavia, non è così: ad oggi, dai territori della valle del Timok (sudovest) a quelli della Moldavia (nordest), il romeno settentrionale è uniforme nei suoi tratti balcanici109.

9) Lo sviluppo della lingua romena attraverso le sue quattro varianti dialettali principali (romeno settentrionale o "dacoromeno" e istroromeno da una parte, aromeno e meglenoromeno o meglenitico dall'altra). Le caratteristiche del romeno comune o antico (rom. română comună o străromână, ted. Urrumänisch), il quale dovrebbe essersi già formato durante il X sec. d. C., sono state stabilite analizzando i quattro dialetti odierni.

                                                                                                                104 Illyés (1988: 250).

105 Apud Banfi (1985: 43-44).

106 Schütz (1989: 88) vi aggiunge il dialetto torlacco del serbo.

107 Ai balcanismi primari, secondo la distinzione di Schaller apud Banfi (1985: 42-43), possono essere ascritti i seguenti tratti comuni (o parzialmente comuni) nelle diverse lingue balcaniche: a) corrispondenze tra i sistemi vocalici; b) presenza della vocale indistinta /ǝ/; c) coincidenza tra genitivo e dativo; d) posposizione dell'articolo; e) comparazione analitica degli aggettivi; f) formazione speciale, definita "numerale locativale" da Reichenkron apud Banfi (1985: 42), della numerazione da 11 a 19, mediante la struttura "numero" + "preposizione indicante su" + "numerale dieci"; g) perdita (parziale) dell'uso dell'infinito; h) formazione del futuro mediante struttura perifrastica; i) raddoppiamento dell'oggetto; l) uso di forme pronominali ridotte, in posizione enclitica, in funzione di pronomi possessivi.

108 Apud Banfi (1985: 44).

Tuttavia, in essi, in quanto successori del latino, non vi sono differenze rilevanti110. Il carattere uniforme della lingua romena indica un suo sviluppo all'interno di un'area-fulcro

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