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La literacy decostruttiva nello studio dei classici della pedagogia

Nel documento Decostruire i classici della pedagogia (pagine 66-92)

La lettura decostruttiva

È bene precisare che la decostruzione non è propriamente un metodo ma è solo una “strategia generale” in cui ogni esperienza di lettura decostruttiva si presenta come un evento, specifico e al contempo generale, orientato alla rottura della totalità del libro e alla liberazione della scrittura, la quale è strutturata dal gioco di rinvii delle tracce e dalla disseminazione del senso.

Non è un metodo aggiunto da fuori, ma è un esercizio di giustizia e di democrazia che consiste nel lasciar agire gli elementi preesistenti nel testo in modo da ri-scriverli (“reinsciverli”) secondo una diversa configurazione di senso, poiché qualsiasi testo – è bene evidenziarlo – è sempre “in decostruzione”, anche se la nostra tradizione metafisica ha sempre cercato di mascherarne l’eterogeneità con la contraffazione fono-logocentrica.

La decostruzione ha luogo, è un evento che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità. Ciò [ça] si decostruisce. Qui il ça non è una cosa impersonale che si opponga a una qualche soggettività egologica. È in decostruzione (Littré diceva: “Decostruirsi (..) perdere la propria costruzione”). E il “si” di “decostruirsi”, che non è la riflessività di un io o di una coscienza, si fa carico di tutto l’enigma.202

Se volessimo sintetizzare le caratteristiche della pratica decostruttiva potremmo riferirci a due definizioni dello stesso Derrida: “Si trattava [a partire da ‘Della Grammatologia’] di disfare, scomporre, desedimentare delle strutture (ogni tipo di strutture: linguistiche, ‘logocentriche’, ‘fonocentriche’ […] socio-istituzionali, politiche, culturali e, anzitutto e

202 J. Derrida, Lettera ad un amico giapponese, op., p. 11. Sull’argomento del “metodo”, cfr.: J. Culler,

Sulla decostruzione (1982), tr. it., Bompiani, Milano 20022; R. Gasché, Metodologia decostruttiva, in Id.,

Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione (1986), tr. it., Mimesis, Milano 2013, pp. 157- 216; C. Norris, Deconstruction: Theory and Practice, Routledge, London 20023; M. Ferraris, Note su

decostruzione e metodo (1984), in Id., Postille a Derrida, Rosenberg & Sellier, Torino 1990, pp. 107-113; Id., La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Unicopli, Milano 1986; M. McQuillan Introduction: five strategies for deconstruction, in Deconstruction: A Reader, Edinburgh University Press, Edinburgh 2000, pp. 1–43; P. Lombardo, Decostruire, in M. Lavagetto (a cura di), Il testo letterario, Laterza, Bari 2007, pp. 219-246; P.V. Zima, Derrida e la decostruzione (1994), tr. it., Solfanelli, Chieti 2007.

66 primariamente, filosofiche)”203; “‘decostruire’ la filosofia diventa un pensare la

genealogia strutturata dei suoi concetti”204.

Io cerco, inscrivendo violentemente nel testo ciò che tentava di guidarlo dal di fuori, di rispettare il più rigorosamente possibile il gioco interno e regolato dei filosofemi o epistememi, facendoli slittare senza maltrattarli fino al punto della loro non pertinenza, del loro esaurimento, della loro chiusura. In tal modo, “decostruire” la filosofia diventa un pensare la genealogia strutturata dei suoi concetti nella maniera più fedele e interna possibile, ma anche da un certo aldifuori che essa non può qualificare e nominare; diventa un determinare ciò che tale storia ha potuto dissimulare o interdire, quando si è fatta storia, appunto, attraverso questa repressione. È qui che, mediante una circolazione nello stesso tempo fedele e violenta fra il didentro (dedans) e il difuori (dehors) della filosofia – cioè dell’Occidente –, si produce un lavoro testuale che dà un gran piacere a farsi. Scrittura interessata a sé, che offre da leggere i filosofemi – e quindi tutti i testi che appartengono alla nostra cultura – come sintomi […] di qualcosa che non ha potuto presentarsi nella storia della filosofia, e che d’altra parte non è presente in nessun luogo, perché ciò di cui si tratta qui, è di mettere in questione precisamente quella determinazione dell’essere come presenza in cui Heidegger ha riconosciuto il destino della filosofia.205

Il riferimento è alla repressione che il Libro mette in atto sulla struttura della traccia, sulla scrittura, sul testo. Sul posizionamento strategico del “margine”, Derrida è ancora più esplicito:

Tanto meno dobbiamo rinunciare a concetti che ci sono indispensabili per scuotere oggi l’eredità di cui fanno parte. All’interno della chiusura, con un movimento obliquo e sempre pericoloso, che incessantemente rischia di ricadere al di qua di ciò che esso decostruisce, bisogna circoscrivere i concetti critici di un discorso prudente e minuzioso, stabilire le condizioni, l’ambito e i limiti della loro efficacia, disegnare rigorosamente la loro appartenenza alla macchina che essi permettono di decostruire; e ad un tempo la falla da cui si lascia intravvedere, senza che ancora si possa darle un nome, il chiarore dell’oltrechiusura. […]

I movimenti di decostruzione non sollecitano le strutture dal di fuori. Essi sono possibili ed efficaci, aggiustano il loro tiro proprio abitando queste strutture. Abitandole in un certo modo, poiché si abita sempre e ancor di più quando non lo si sospetta. Operando necessariamente dall’interno, ricavando dalla vecchia struttura tutte le risorse strategiche ed economiche della sovversione, ricavandole da quella in modo strutturale.206

In un paragrafo Della grammatologia, dal titolo L’esorbitante. Questioni di metodo, Derrida fornisce delle preziose indicazioni sugli assunti teorici che guidano la decostruzione il cui lavoro deve, innanzitutto, assolvere il “compito” di realizzare una “lettura critica” in grado di produrre una “struttura significante” del testo, senza ipotesi di “fuori testo”.

Qualsiasi autore, ad esempio Rousseau, infatti, – come abbiamo già spiegato – “scrive in

203 Ivi, p. 10.

204 J. Derrida, Posizioni, op., p. 46. La teoria della decostruzione crea una simbiosi tra struttura e genealogia

perché si basa sull’intreccio tra l’espacement e la temporalizzazione (differimento e ripetizione).

205 Ibidem.

67 una lingua e in una logica di cui”207 il suo modello pedagogico, “il suo discorso non può

dominare assolutamente il sistema, le leggi e la vita proprie”208. Rousseau e i suoi testi

particolari sono soltanto “effetti” del testo generale, quindi, “al di là di ciò che si crede di poter circoscrivere come l’opera di Rousseau, e dietro di essa, non c’è mai stato altro che scrittura; non ci sono mai stati altro che supplementi, significati sostitutivi inscritti in una catena di rinvii differenziali”209 che, come sappiamo, è la struttura della traccia, altro

nome della différance.

Solo per esemplificare, Rousseau costruisce i suoi “libri” sul suo “discorso” di contrapposizione tra una natura buona e una cultura che la corrompe ma, questi testi passati al vaglio critico di una lettura decostruttiva rivelano la presenza di una diversa linea teorica: la logica del supplemento che significa rapporto di mutuo soccorso e di co- implicazione tra natura e cultura, in accordo con quel meccanismo

di “supplementarietà” inarrestabile che è il testo generale – di cui parleremo nel paragrafo finale di questo capitolo. Pertanto, “Rousseau iscrive dunque la sua testualità nel testo. Ma la sua operazione non è semplice. Essa gioca d’astuzia con un gesto di cancellazione; e le relazioni strategiche così come i rapporti di forza tra i due movimenti formano un disegno complesso”210, ossia il testo eterogeneo già in decostruzione a cui mira la lettura

decostruttiva.

Un testo non è mai il semplice risultato né della volontà del suo autore né della “causalità per contagio” del contesto storico-sociale, e ciò è determinato dal fatto che il testo non appartiene mai completamente alla storia della metafisica fono-logocentrica perché c’è sempre un’eccedenza data dalla sua appartenenza al testo generale, il quale è ciò che rende possibile il costituirsi dell’identità del libro ma al contempo la corrompe e ne impedisce la chiusura.

Se in modo un po’ convenzionale, chiamiamo qui discorso, la rappresentazione attuale, vivente, cosciente di un testo nell’esperienza di coloro che lo scrivono o lo leggono, e se il testo deborda continuamente questa rappresentazione con tutto il sistema delle sue risorse e delle leggi proprie, allora la questione genealogica eccede largamente le possibilità che ci sono date oggi di elaborarla. […] l’appartenenza storica di un testo non è mai in linea retta. Né causalità per contagio. Né semplice accumulazione di strati. Né pura giustapposizione di pezzi presi a prestito.211 207 Ivi, p. 181. 208 Ivi, pp. 181-182. 209 Ivi, p. 182. 210 Ivi, p. 187. 211 Ivi, p. 119.

68 Questo debordare rende inefficace il tentativo ermeneutico di decifrare in modo lineare tutti i livelli di senso del testo in relazione ai diversi contesti in cui è racchiuso, dal biografico allo storico-sociale, ecc.

Tuttavia, se questo metodo del “commento raddoppiante” appare inadeguato in quanto troppo ingenuo nel credere alla possibilità di rispecchiare “il rapporto cosciente, volontario, intenzionale, che lo scrittore istituisce nei suoi scambi con la storia”, altrettanto illusorio, e per lo più fuorviante, risulta anche l’approccio ermeneutico che cerca di ritrovare il vero senso di un’opera tra i molteplici fattori presenti nel suo “fuori testo”, perché – come abbiamo già osservato – “non c’è fuori testo”, nel senso che non si esce dal “testo generale” e dalla sua struttura differenziale di rinvii in cui non si dà mai niente di presente. Ricordiamoci della critica che Derrida muove al tentativo logocentrico di ritrovare il senso di un testo in un referente o in un significato trascendentale rigorosamente separati.

Produrre questa struttura significante non può evidentemente consistere nel riprodurre, attraverso il raddoppiamento riservato e rispettoso del commento, il rapporto cosciente, volontario, intenzionale, che lo scrittore istituisce nei suoi scambi con la storia cui appartiene grazie all’elemento della lingua. Senza dubbio questo momento del commento raddoppiante deve avere il suo posto nella lettura critica. A non riconoscerne e rispettarne tutte le esigenze classiche, il che non è facile e richiede tutti gli strumenti della critica tradizionale, la produzione critica rischierebbe di farsi in un senso qualsiasi e di autorizzarsi a dire più o meno qualsiasi cosa. Ma questo indispensabile parapetto non ha mai fatto altro che proteggere, non ha mai aperto una lettura. E tuttavia, se la lettura non deve accontentarsi di raddoppiare il testo, essa non può legittimamente trasgredire il testo verso qualche altra cosa, verso un referente (realtà metafisica, storica, psico-biografica, ecc.) o verso un significato fuori testo il cui contenuto potrebbe aver luogo, avrebbe potuto aver luogo, al di fuori della lingua, cioè, nel senso che noi diamo qui a questa espressione, fuori della scrittura in generale.212

La lettura decostruttiva ricerca la “struttura significante” intra-testuale senza appiattire il testo sul voler-dire dell’autore, sulla sua vita ecc. ma neppure scavalcando il testo stesso per ridurlo a illustrazione di un senso posto altrove, e questo è il caso dell’interpretazione psicanalitica di Rousseau proposta da Laforgue in cui si “eccede allegramente verso un significato psico-biografico il cui legame col significante letterario diviene perciò perfettamente estrinseco e contingente”213.

A distanza di ventitre anni, Derrida ritorna sulla questione del “commento raddoppiante” in Verso un’etica della discussione214, in cui, pur riconfermando la sostanza degli

212 J. Derrida, Della grammatologia, op., p. 182.

213 Ivi, p. 183. Cfr. J. Derrida, Il fattore della verità (1980), tr. it., Adelphi, Milano 19892, in cui il

decostruttore francese critica l’interpretazione lacaniana de La lettera rubata di Poe di cadere nella trappola del semantismo: il testo come illustrazione di una verità teorica precostituita.

69 argomenti già esposti in Della grammatologia, enfatizza di più l’impossibilità di prescindere da questo tipo di approccio almeno nella fase iniziale della lettura. Senza “la relativa stabilità dell’interpretazione dominante del testo commentato”215, generalmente

dispensata agli alunni dall’insegnante diligente che si attiene al suo compito istituzionale, non sarebbe possibile alcuna interpretazione meno convenzionale e non decollerebbe neppure il lavoro decostruttivo.

[…] “commento raddoppiante”. Mi sono servito di queste parole per designare ciò che, a un livello assai classico ed elementare della lettura, assomiglia di più a quanto tradizionalmente si chiama “commento”, o addirittura parafrasi. Il momento parafrastico, anche se fa appello a una competenza minimale […] è già una lettura interpretativa. […] bisogna essere ben attrezzati, bisogna capire e scrivere, e perfino tradurre il francese il meglio possibile, conoscere il meglio possibile il corpus di Rousseau e tutti i contesti che lo determinano (le tradizioni letterarie, filosofiche, retoriche, la storia della lingua francese, la società, la storia, insomma tante altre cose).216

Un commento raddoppiante che risponda alle “esigenze classiche”217 e che utilizzi gli

“strumenti della critica tradizionale”218, della quale “l’università deve assicurarne la più

rigorosa trasmissione e conservazione”219 nel rispetto della sua funzione politico-

istituzionale. L’insegnante deve proporre “una lettura-scrittura che, puntando su una fortissima probabilità di consenso nell’intellegibilità di un testo, in ragione della stabilizzata solidità di numerosi contratti, pare solo parafrasare, svelare, riflettere, riprodurre un testo, ‘commentarlo’ senz’altra iniziativa attiva o arrischiata”220.

La stabilità dell’interpretazione dominante è il risultato di “stratificazioni già differenziali di grandissima stabilità nel rapporto di forze e secondo le gerarchie o egemonie che presuppongono e che mettono in opera”221, in una lezione che si ripete ma che non è mai

la stessa. Ricordiamoci che anche la stabilità della costruzione dominante è solo una configurazione momentanea del gioco dei rinvii differenziali del testo generale.

Questa stabilizzazione è relativa, anche se talvolta è così grande da apparire immutabile e permanente. È il risultato momentaneo di tutta una storia di rapporti di forza (intra- ed extra- semantiche, intra- ed extra- discorsive, intra- ed extra-letterarie o-filosofiche, intra- ed extra- accademiche, ecc.). Perché questa storia abbia avuto luogo, nelle sue turbolenze e nelle sue stasi, perché rapporti di forza, tensioni o guerre abbiano avuto luogo, perché durante un tempo determinato egemonie si siano imposte, bisogna certo che ci sia stato gioco in tutte queste strutture, quindi instabilità e non-identità a sé, non trasparenza […] In breve, con “commento

215 Ivi, p. 214. 216 Ivi, pp. 214-215. 217 Ivi, p. 214. 218 Ibidem. 219 Ibidem. 220 Ivi, p. 217. 221 Ivi, p. 215.

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raddoppiante” ho voluto designare la decifrazione “minimale” del “primo” accesso che pertiene o compete a strutture relativamente stabili (quindi destabilizzabili!) a partire dalle quali possano essere intraprese le più avventurose questioni e interpretazioni a proposito di conflitti, tensioni, differenze di forza, egemonie che hanno dato luogo a quella provvisoria installazione. Ancora una volta, ciò non sarebbe possibile se una non-identità a sé, una différance e una relativa indeterminatezza non aprissero lo spazio di questa storia violenta. […] non è l’indeterminatezza in sé, ma la determinatezza più stretta possibile delle figure del gioco, dell’oscillazione, dell’indecidibilità, vale a dire delle condizioni differenziali [différantiales] della storia determinabile.222

Riassumendo, è indispensabile partire da una lettura preliminare di tipo ermeneutico per poi passare da questa interpretazione, in cui l’insegnante sembra non distaccarsi dal testo per riprodurne il suo significato, alla lettura “produttiva” dell’approccio decostruttivo. Bisogna conoscere “le interpretazioni dominanti e convenzionalmente ammesse – ammette Derrida – per aver accesso a quanto Rousseau pensava di voler dire e a quanto il lettore-tipo pensava di poter capire, per poi analizzare il gioco o la relativa indeterminazione che ha potuto dar luogo alla mia interpretazione, per esempio quella della parola ‘supplemento’”223. La lettura ermeneutica è importante perché ha già una

portata demistificante: ricorda “che le norme dell’intelligibilità minimale non sono assolute e antistoriche, che sono solo più stabili di altre. Dipendono da condizioni socio- istituzionali, dunque, da rapporti di potere non naturali, per essenza mobili e fondati su strutture convenzionali complesse che è possibile per principio analizzare, decostruire e trasformare”224.

Dopo il prerequisito della conoscenza/consapevolezza storico-ermeneutica che costruisce utili “raddoppiamenti”, può cominciare il lavoro di “destabilizzazione” decostruttiva:

([…] perché prima di diventare un discorso, una pratica organizzata che assomiglia a una filosofia, a una teoria, a un metodo che essa non è, su quelle stabilità instabili o su quella destabilizzazione di cui fa il suo tema principale, la “decostruzione” è anzitutto quella destabilizzazione in corso nelle, se si potesse dir così, cose stesse; ma non è negativa. Anche per il “progresso” c’è bisogno di destabilizzazione. E il de- di decostruzione non significa la demolizione di quanto si costruisce, ma l’annuncio di quanto resta da pensare al di là dello schema costruttivista o decostruzionista). È tutto il dibattito, ad esempio, sul curriculum, la “literacy”, ecc.225

La decostruzione è dunque una “pratica organizzata” che non si aggiunge al testo, il quale è già in decostruzione; “il de- non significa tanto una modalità negativa che intacca una costruzione” quanto “uno smarcamento rispetto allo schema fondamentalista/anti-

222 Ivi, pp. 216-217. 223 Ivi, p. 215. 224 Ivi, p. 219. 225 Ivi, pp. 217-218.

71 fondamentalista, allo schema costruttivista o allo schema ontologico dell’essere come stanza”226.

Per quanto riguarda il cenno al dibattito americano, ma anche europeo, sulla necessità di rivedere il curriculum formativo alla luce del concetto di literacy, possiamo presumere che Derrida suggerisca di inserire anche la lettura-scrittura decostruttiva tra le competenze di base nell’ordine della lettura e della scrittura. E qui ritorna la giusta ambizione della proposta pedagogica italiana – precedentemente illustrata – di coniugare l’approccio ermeneutico con quello decostruttivo, o meglio, il “commento raddoppiante” con “la pratica organizzata”, ma a-metodica, della destabilizzazione decostruttiva. Se pensiamo all’insegnamento della storia della pedagogia, attraverso i classici, possiamo dedurre che non si possa, ad esempio, separare il lavoro di decostruzione del testo da quello studio preliminare, tanto caldeggiato dalla già citata koinè ermeneutica, per la quale, come scrive Cambi – ripetiamolo – all’insegna della “triade testo, interpretazione,

tradizione o storia, […] si parte dal testo, da quel testo e dalla sua lettura, poi lo si analizza

a più livelli (linguistico, sociale, storico ecc.) per coglierne gli echi e le tensioni anche extratestuali e in questo lavoro si procede secondo una logica interpretativa fatta di progressivi approfondimenti, di connessione con elementi biografici, storici, di tradizione culturale”227.

Questa concezione della literacy come unione del commento raddoppiante (o interpretazione) con la lettura decostruttiva risale, per certi aspetti, già alla fine degli anni ’60 quando Derrida parlando delle scienze umane scriveva:

Vi sono dunque due interpretazioni dell’interpretazione, della struttura, del segno e del gioco. L’una cerca di decifrare, sogna di decifrare una verità o un’origine che sfugge al gioco e all’ordine del segno, e vive come un esilio la necessità dell’interpretazione. L’altra, che non è più rivolta verso l’origine, afferma il gioco e tenta di passare al di là dell’uomo e dell’umanesimo, poiché il nome dell’uomo è il nome di quell’essere che, attraverso la storia della metafisica e della onto- teologia, cioè attraverso l’intera sua storia, ha sognato la presenza piena, il fondamento rassicurante, l’origine e la fine del gioco. […] Da vari indizi si potrebbe arguire che oggi queste due interpretazioni dell’interpretazione – che sono assolutamente inconciliabili anche se noi le viviamo simultaneamente e le conciliamo in una oscura economia – si dividono il campo di ciò che chiamiamo, in maniera tanto problematica, le scienze umane.

Per parte mia non credo, benché queste due interpretazioni debbano accusare la loro differenza e acuire la loro irriducibilità, che oggi ci sia da scegliere.228

Non c’è “da scegliere” tra le due vie ma, al contrario, “è necessario tentare prima di tutto

226 Ivi, nota di Derrida, p. 245.

227 F. Cambi, Ermeneutica e pedagogia: il confronto attuale, op., p. 66.

228 J. Derrida, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane (1966), in Id., La scrittura

72 di pensare il terreno comune, e la differanza di questa differenza irriducibile”229.

Dunque, un testo che è già in decostruzione e due letture: una animata dalla “brama di pienezza metafisica”230 che mira a leggere bene le righe nel quadro “di una riepilogazione

(résumption) unitaria del senso”231; l’altra che destabilizza il senso ricercando il gioco

della concatenazione delle parti eterogenee e differenziali, cioè “ciò che, nei volumi già si scriveva tra le righe”.

La fine della scrittura lineare è esattamente la fine del libro […] si tratta meno di affidare scritture inedite alla veste di libro che, finalmente, di leggere ciò che, nei volumi già si scriveva tra le righe. È per questo che cominciando a scrivere senza linea, si rilegge anche la scrittura passata secondo un’altra organizzazione dello spazio. […] Dato che cominciamo a scrivere in altro modo, dobbiamo rileggere in altro modo.232

Scrivere e leggere “senza linea” e a partire dalla consapevolezza che non si va fuori dal contesto perché “i legami tra le parole, i concetti e le cose, la verità e il riferimento non sono assolutamente e puramente garantite da qualche meta-contestualità o meta- discorsività”233. Il contesto è unico, eterogeneo e sempre disconnesso ed è trasformato

Nel documento Decostruire i classici della pedagogia (pagine 66-92)

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