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La luce nella tradizione filosofica

II. 1. 1 Vedere è sapere

La relazione tra l’idea di vedere e di conoscere-sapere è intuitiva, e si trova riflessa con chiarezza nel lessico delle lingue indoeuropee. Anche gli antonimi testimoniano questo nesso concettuale. Il vedere – ovvero l’attività gnoseologica – è reso possibile dalla luce; l’oscurità, viceversa, è condizione di ignoranza1.

Nella lingua primitiva l’associazione vedere-conoscere trova naturalmente la sua forma in immagini archetipiche, e da lì in similitudini, e metafore che da queste immagini derivano e che, integrandosi l’una con l’altra, permettono agli uomini di definire e indagare meglio la realtà. Alla filosofia antica si deve la graduale esplorazione di questi originari modelli di pensiero e, per l’ambito della luce come per altri ambiti metaforici, è il pensiero platonico a costituire il primo e imprescindibile punto d’arrivo di questo processo: in esso i diversi fenomeni che sono alla base di un pensiero e di un linguaggio ancora intuitivi, iniziano a comporsi in un insieme più chiaro e corente1.

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Gaiser 1985, 22. Sulla centralità della funzione visiva nella cultura greca già Snell 1963, 20-24. Per una sintesi della discussione moderna sulla vocazione visiva del mondo greco e la bibliografia recente, si veda Napolitano Valditara 1994, 157s. n. 1. Sul simbolismo della luce nella letteratura e nella filosofia antica, cfr.Wetter 1915; Bidez 1932; Bultmann 1948; Beierwaltes 1957; Blumenberg 1957; Classe 1965; Tarrant 1970. Per un’indagine semantica sulla terminologia della luce come conoscenza presso i Greci, Ciani 1977, 169-78.

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Nel suo primo significato, fw`ı è la luce del giorno che circonda gli uomini: grazie a essa il mondo diventa distinguibile nell’articolazione delle sue parti, e quindi comprensibile; è la chiarezza della luce che rende possibile l’orientamento attraverso la vista, e permette così di afferrare e comprendere ciò che è. Reali sono le cose che l’uomo può afferrare con la vista nella loro forma e struttura, di cui può misurare con l’occhio le parti e i loro reciproci rapporti2.

Nella luce tutto è aperto e disvelato3: in ambito filosofico è Parmenide che, prima di Platone, esplora le potenzialità dell’associazione tra il disvelamento che la luce produce nel mondo fisico e il ‘disvelamento’ conoscitivo che si attua attraverso la filosofia. Il proemio del poema parmenideo, interamente dominato dalla contrapposizione oscurità/luce, recepisce probabilmente tratti dell’immaginario pitagorico4 e orfico5, ma è soprattutto rappresentativo della tendenza generale dello spirito greco a figurarsi aspetti diversi della vita e della realtà, e in particolare le categorie gnoseologiche, attraverso tale dicotomia che funziona appunto come un modello di pensiero da esplorare6.

Da questo carattere precipuo della luce come chiarezza che rende possibile il vedere, deriva anche l’assimilazione dell’organo della vista alla luce: l’occhio e la luce si corrispondono e integrano vicendevolmente poiché insieme creano la condizione di chiarezza e distinguibilità di ciò che esiste7. Parmenide assimila gli occhi alle «fanciulle figlie del Sole», le

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Bultmann 1948, 13s.

3

Per Esiodo Eos è poluderkhvı (Th. 451); il giorno dona ai mortali poluderke;ı favoı (Th. 755).

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Cfr. la testimonianza di Arist. Metaph. 896a 25ss., su cui Blumenberg 1957, 438. Un ruolo preponderante ai precedenti pitagorici a cui si rifà in parte Parmenide è attribuito da Burkert 1969.

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Un confronto tra il proemio parmenideo e i testi delle laminette orfiche è in Feyerabend 1984.

6

Beierwaltes 1957, 34ss.; Classen 1965, 97ss. Per la presenza simbolica di questa dicotomia in Eraclito, cfr. Vlastos 1955, 365 e n. 58.

7

La corrispondenza tra occhio e luce è formulata per la prima volta da Pindaro: lo splendore del sole è descritto come mavthr ojmmavtwn in Pae. 9, 1. Cfr. anche S. Ant. 879s.; E. IT 194.

JHliavdeı, le quali, lasciate le case della Notte, conducono il filosofo lungo la via del Giorno, che conduce alla conoscenza: essa ha come meta il regno della luce, «perché senza la luce non c’è l’uso della vista»; là il filosofo conoscerà la verità8.

La conoscenza è intesa come un modo del vedere, anche quando l’atto conoscitivo riguarda qualcosa di non materiale, poiché conoscere è cogliere con uno sguardo l’essenza invisibile di un oggetto, la quale conserva pertanto i nomi che già connotavano la forma visibile dell’oggetto: ijdeva, eij~doı9; il significato di questi termini si sposterà progressivamente a indicare non solo il risultato di un’ispezione esteriore ma anche l’oggetto di un’indagine che riguardi la forma e la struttura interna delle cose. Tramite l’analogia che associa all’o[mma tou~ swvmatoı il nou~ı come o[mma th~ı yuch~ı10

viene definitivamente a istituirsi un ponte metaforico tra vista e intelligenza: anche per quanto riguarda questo specifico tratto, sarà il linguaggio filosofico a mediare dal linguaggio comune termini ed espressioni legati all’atto della visione e ad adattarli in senso tecnico per descrivere il momento conoscitivo. Dall’ambito gnoseologico gli stessi termini saranno infine trasferiti a quello ontologico, a indicare l’essere inteso come il livello di realtà attingibile attraverso gli ‘occhi’ dell’intelletto.

Un’immagine in cui il legame metaforico tra vista e intelligenza trova una sua caratteristica declinazione, è quella che associa alla cecità fisica la condizione di ‘cecità’ interiore. Per Eraclito gli stolti pur avendo occhi e orecchie, non sanno né vedere né sentire; pur non essendo né ciechi né sordi, è come se lo fossero; pur essendo sempre presenti è come se

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Parm. fr. 28 B 1 Diels – Kranz, trad. it. di Giannantoni 1983. L’interpretazione delle

JHliavdeı come organi di senso è di Sesto Empirico, accolta da Freeman 1946, 142 e 146;

cfr. D’Alessio 1995, 142s.

9

Come il significato di ijdeva, eij~doı nota già Friedländer 1928, 16s. Una sintesi recente dell’assestamento filosofico di questi termini in rapporto a funzioni visive in Paquet 1977, 15ss.

10

Cfr. Plat. Symp. 219 a; Resp. 7, 533; Theaet. 164 a; Soph. 254 a; ma già in poesia: tuflo;n hj~tor in Pi. N. 7, 23; frh;n wjmmatwmevnh in A. Ch. 854; leuvssein novw/ in Parm. fr. 2 B 1 Diels – Kranz.

fossero assenti, non essendo capaci di intendere alcunché di ciò che vedono o sentono, perché «occhi e orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno anime barbare»11, cioè per coloro che sono incapaci di penetrare con le proprie anima e la propria mente il significato delle cose che i sensi percepiscono12.

In Parmenide l’immagine della cecità interiore si collega a quella della via da percorrere13: al cammino della ricerca che il viaggiatore dovrà esplorare al seguito della sua guida divina, sono contrapposte la vie diverse e confuse per le quali vagano quei mortali che, in preda all’ajmhcanivh, non sanno nulla, kwfoi; oJmw~ı tufloiv te, «sordi insieme e ciechi»14. La via come rappresentazione del processo del pensiero ovvero del progresso che si attua attraverso la conoscenza, è a sua volta un’immagine obbligata in ambito gnoseologico, come mostra l’affinità lessicale di oJdovı e mevqodoı. Parmenide la recepisce forse per influenza della tradizione pitagorica nella quale essa godeva probabilmente di un rilievo simbolico e mistico: sembra suggerirlo il fatto che su tombe pitagoriche di età posteriore, una “Y” incisa simboleggi il bivio di fronte al quale l’adepto doveva compiere la sua definitiva scelta di rettitudine15.

Attorno all’ambito della luce e della vista gravita una parte rilevante e significativa dell’immaginario che illustra la teoria

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Emped. fr. 22 B 107 Diels – Kranz, trad it. di Giannantoni 1983.

12

Per l’uso delle immagini in Eraclito, cfr. Snell 1963, 303ss. Sull’epistemologia eraclitea, cfr. Palumbo 1987, 33ss.

13

Sull’immagine della via nei Pesocratici, si veda Armisen 1981, 32ss. e Armisen-Marchetti 1989, 181s. n. 55; Becker 1937.

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Parm. fr. 6 B 3-7 Diels – Kranz. D’Alessio 1995, 170ss. prende in esame la coincidenza delle immagini di questo passo parmenideo con quelle di che, compaiono in Pindaro in Pea. 7b, 15ss.: il trattamento che il topos della via riceve nei due autori quasi e la sequenza quasi identica delle immagini (in entrambi la via della ricerca intellettuale indicata dalla divinità, lungo la quale si muove il viaggiatore ispirato, è contrapposta a quella che percorrono gli altri mortali definiti ‘ciechi’), fa pensare che Pindaro riecheggi Parmenide. Ancora D’Alessio 1995, 164s. prende in considerazione l’attestazione di quest’immagine in Parmenide in relazione al topos della ‘via poco calpestata’ nell’ambito della riflessione metaletteraria successiva.

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È la medesima rappresentazione su cui si fonda l’apologo di Prodico, in cui si vede Eracle esitare al bivio tra la via del vizio e quella della virtù. Analogamente l’eroe tragico cerca il cammino del suo destino per subirlo o per tentare di scamparlo: così per es. in S. Philoct. 1194; Ant. 539-4.

gnoseologica e ontologica in Platone, il quale – come abbiamo detto – raccoglie aspetti diversi dell’immagine originaria ridefinendoli in rapporto gli uni agli altri all’intero di una composizione più organica.

II. 1. 2 Platone: luce della conoscenza e luce del Bene.

Platone per primo nei libri VI e VII della Repubblica, attraverso un ricco repertorio di immagini che associano la verità alla luce, formula esplicitamente il legame tra luce, vista e possibilità di essere visti.

Il legame tra vista e luce è la condizione del vedere e essere visti: la vista ha la preminenza rispetto a altre funzioni sensoriali poiché la sensazione non si produce per contatto diretto bensì necessariamente tramite il mezzo-luce, è un legame più prezioso, raffinato e complesso. L’occhio riceve dal sole la capacità di vedere, che resterebbe inefficace senza luce; del resto esso è, tra gli organi di senso, quello che più ricorda nell’aspetto il sole16. Al sole, che dà agli oggetti la possibilità di essere veduti ma anche quella di generarsi, accrescersi e nutrirsi, è assimilato il Bene che è fonte di tutto l’essere nell’uomo e fuori dall’uomo, ed è ciò che dà la verità agli oggetti conoscibili e all’uomo il potere di conoscerli17.

Platone interseca piano gnoseologico con quello ontologico: come il sole, pur essendo la causa della capacità di vedere e della vita delle cose, non si identifica in esse, così il Bene, fonte di verità, bellezza, conoscibilità, non è nessuna di queste cose e sta al di là da esse18. Non si tratta di una mera similitudine: il concetto astratto nasce e si sviluppa a partire dalla metafora primitiva che ne costituisce l’essenza. Al ‘sole sensibile’, suscitatore dei colori nelle cose e del potere di vederli nell’occhio, quindi sorgente di luce e bellezza nella ‘regione sensibile’, è 16 Resp. 507a - 508b. 17 Resp.508e - 509b. 18

Resp.509b. In assenza di una trattazione specifica sulla luce nell’ontologia platonica, si è fatti riferimento a Ferguson 1921; Notopoulos 1944; Stenzel 1926, 235-57.

assimilato un ‘sole intelligibile’, il quale splendendo nella ‘regione intelligibile’ della realtà eterna e immutabile delle Idee, si configura come Idea suprema, Idea del Bene in sé, da cui raggiano tutte le altre Idee; la luce sensibile svolge la funzione di intermediario verso la luce intelligibile. In Platone si fonda dunque anche la rielaborazione filosofica dell’immagine della luce come simbolo del bene: essa si radica nell’archetipo eminentemente positivo del sole che conserva la vita, che apporta gioia e salute, che rende la vita una vera vita. È il paradigma platonico del sole, però, è sancire quest’associazione e a rigenerarsi in una lunga fortuna successiva, raccolta probabilmente anche in ambito stoico.

Per tornare alla luce della conoscenza, le tappe della scoperta che porta alla conoscenza sono marcate da metafore che sottolineano il carattere psicagogico dell’insegnamento della filosofia: la conoscenza della verità si configura in prima istanza come una purificazione dell’anima che prepari l’iniziazione alla vera scienza19; è proprio a un’iniziazione che Platone associa sovente la conoscenza, attraverso il ricorso all’immagine dell’arduo cammino da percorrere20. Analogamente la conoscenza è spesso assimilata a un’ascensione21, immagine fondamentale nella Repubblica, in particolare nel mito della caverna.22 Lì la conoscenza filosofica è rappresentata dall’uscita dalla caverna e dall’osservazione delle cose reali e del principio della loro vita e della loro conoscibilità, cioè della luce piena del sole, alla quale il prigioniero, una volta uscito si abitua gradatamente. Al termine di questa ascensione, gli ‘occhi dell’anima’ scorgeranno improvvisamente la verità23. L’associazione occhio/anima da qui diviene motivo pressoché topico in filosofia, che a Roma Lucrezio conoscerà e

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Phd. 67 a, c; 69 b; 81 b; 82 d; 114 c.

20

La somma conoscenza come iniziazione a un mistero costituisce una delle metafore fondamentali del mito in Phaedr. 248b; 249c; 250b-e; 251a; 252d.

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Resp. 514a – 517b; la metafora della via è anche in Resp. 476c; 479e; 490ab; 510b; 511b; 515e; 517b; 519d; 521c; 525d; 529a; 532b, e; 533c, d; 621c.; anche Symp. 210a, c; 211bc; Phaedr. 246d; 247a; 248a, c; 249d; 252c; 253a, b; 272b, c, d; 273a; Theatt. 175b, c; Soph. 228c; Ep. VII 340 c.

22

Resp.519c-d.

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utilizzerà24. Essa, come vedremo, è un’immagine caratteristica della letteratura filosofica che anche Seneca accoglie e converte ai propri fini specifici.

Uno degli elementi principali del mito della caverna è costituito dall’oscurità alla quale è assimilata la condizione di ignoranza degli uomini, i prigionieri incatenati nella penombra25. L’ignorante è associato a un cieco: Socrate fa riferimento a una condizione di cecità in cui si sente dopo aver studiato la fisica, poiché gli sembra di aver disimparato anche ciò che sapeva prima26; talvolta l’immagine è quella di un accecamento passeggero, dovuto a una luce troppo abbagliante: per esempio, coloro che tentano di contemplare l’intelletto, il nou~ı, con occhi mortali sono chi guarda direttamente il sole e, restandone abbagliato, finisce per trovarsi come di notte in pieno giorno27. Viceversa, colui che passa dalla contemplazione delle realtà divine a quella delle realtà umane, fatica a riabituarsi alle tenebre e mantiene perciò per un po’ di tempo l’aria goffa di chi ha la vista annebbiata e confusa28.Quando non è assimilata alla cecità, di ignoranza è comunque accostata a una condizione patologica in cui la vista risulti impedita o ottusa29.

Anche la distinzione tra scienza e opinione è illustrata con diverse metafore tese a sottolineare il carattere instabile dell’opinione, se pur retta30. Un’immagine molto frequente oppone l’opinione alla scienza come

24

Cfr. Lucr. 1,72-7, su cui Setaioli 1998, 493ss.

25

Resp. 514a - 515b. L’ignoranza/oscurità compare, peraltro, in numerosi altri passi: Phaed. 99b; Crat. 412b; Resp. 478c; 479c; 506a, c; 508d; 539e; 558d; Theaet 209e; Soph. 254a; Phileb. 48b; Leg. 738e; 837a; 875c; 952a.

26

Phd. 96 c: ou{to sfovdra ejtuflwvqhn w{ste ajpevmaqon kai; tau~ta a} pro; tou~ w/[mhn eijdevnai. Cfr. Phdr. 270 d, e; R. 411 d; 484 c; 506 c; Lg. 731 e; Ep. VII 335 b.

27

Leg. 897d: oiJ~on eijı h{lion ajpoblevponteı, nuvkta ejn meshmbriva/ ejpagovmenoi. Cfr. Phaed. 99d, e; Resp.516a.

28

Resp. 516e; 517a, d; 518a; 520c.

29

Platone usa l’aggettivo ajmbluvı, cfr. Resp. 442d; 490b; 508d; Parm. 165b; Theaet. 165d; 174 e; Soph. 232 e.

30

Cfr. in particolare Gorg. 454e; Simp. 202a; Resp. 475e - 480a; 534a; Theaet. 187d; 201bc.

la visione del sogno (o[nar) è contrapposta a quella della veglia (u{par)31. Il parallelismo è esplicitato nelle parole di Socrate nella Repubblica (533c) ma se ne trovano tracce in quasi tutti i dialoghi32. A sua volta la nozione di ajnavmnhsiı è sviluppata secondo un carattere eminentemente ‘visivo’: essa corrisponde alla conoscenza fondata nella visione del mondo iperuranio, di cui partecipavano le anime prima della nascita, conoscenza che si compie pertanto come ricordo, allorché l’anima – una volta sulla terra, dentro un corpo – si accorge della somiglianza tra le forme terrestri e i loro archetipi celesti.

Dunque, la conoscenza in Platone è una contemplazione: la metafora si radica nella trasposizione di espressioni comuni (come il verbo skopei~n nel senso di ‘esaminare’), sebbene non sia improbabile che essa risenta anche dell’influenza di pratiche misteriche elusine come l’ostensione delle statue sacre inondate di luce33. L’assimilazione della conoscenza a una forma di visione si riflette anche in immagini meno pregnanti e organizzate, che hanno nel testo platonico una mera funzione illustrativa: se la filosofia non apporta un sapere predefinito, bensì conduce l’anima a scoprire la verità che essa possiede in se stessa, la pretesa da parte di un maestro di introdurre una conoscenza già organizzata nell’anima ancora priva di scienza del suo discepolo, è assimilata ironicamente, nelle parole di Socrate, alla pretesa di infondere la vista in occhi che non vedono34.

Una similitudine originale associa la verità – che scaturisce dal confronto tra due idee, in questo caso a proposito della definizione della giustizia – alla scintilla che scaturisce dallo sfregamento di due pezzetti di legno.

31

L’opposizione o[nar/u{par in senso figurato è anche in Pi. O. 13,94-95; E. HF 517. Platone vi ricorre anche in senso proprio: cfr. Phaedr. 277e; Phileb. 36e;65 e; Teatht. 158b, c, d; Tim. 71e.

32

Lys. 218 c; Charm. 173 a; Men. 85c; Smp. 175e; Cra. 439c; Resp. 414d; 443b; 476c, d; 520c; Theaet. 201d; 202c; 208b; Philb. 20b; Tim. 52b; Leg. 656b; 695c; 746a; 800a; 857b; 969b. In Men. 100a, Socrate oppone non dissimilmente l’ombra alla realtà.

33

Robin 1929, 69.

34

Resp. 518c: fasi; dev pou oujk ejnouvshı ejn th/~ yuch~/ ejpisthvmhı sfei~ı ejntiqevnai, oi~Jon tufloi~ı ojfqalmoi~ı o[yin ejntiqevnteı.

Dopo Platone la tradizione filosofica dell’immagine della luce come metafora della conoscenza influenza anche il linguaggio figurato degli Stoici. Proprio il motivo platonico del sole, che è al cuore dell’immaginario platonico della luce, sia da riconoscere con molta probabilità anche al fondo della speculazione stoica sul sole, che pure si propone antiteticamente rispetto alla gerarchia platonica dell’essere di cui il sole, nella Repubblica, simboleggia il grado più alto. Il sole degli stoici è considerato hJgemoniko;n tou~ kovsmou35,mens mundi dal quale provengono l’ordine e la ratio divina, principio vitale verso cui tutto tende e che tutto unifica in un’ontologia che non ammette aspetti di trascendenza o gerarchia.

Possiamo soffermarci ancora su due testimonianze stoiche. Abbiamo già avuto modo di osservare che alla luce è ricondotta dagli stoici anche la fantasiva, per mezzo della quale l’uomo prende coscienza sia dell’affezione stessa che di ciò che la produce: così la luce, la quale rivela sé stessa e contemporaneamente le cose che illumina36. L’analogia, atta a rimarcare il carattere fortemente visivo della rappresentazione, si rafforza della prova etimologica: gli Stoici, sulla scorta di Aristotele, ricollegavano il termine stesso fantasiva alla radice della parola favoı. La stessa etimologia associata alla similitudine favoı/fantasiva è tradita anche da Sesto Empirico a proposito di Antioco di Ascalona, Stoicorum in hac re sectator: questa indicazione sembrerebbe comprovare l’origine stoica dell’immagine.37

Un’altra immagine della luce è riportata da Sesto Empirico, il quale riferisce che gli stoici avrebbero considerato il criterio di verità come criterio di giustizia delle altre cose, ma anche come criterio della propria stessa giustezza38. Due immagini sono introdotte per illustrare questo 35 In SVF 2,194. 36 Cfr. SVF 2,54, su cui Rolke 1975, 43. 37 Cfr. SVF 2,63. 38 SVF 2,118.

concetto, la similitudine della bilancia e la similitudine della luce: la verità è regolativa di sé e delle altre cose così come la bilancia indica l’equilibrio dei pesi sia per sé che per le altre cose, e come la luce rivela sé e gli altri esseri39. L’immagine qui ha la funzione di verificare la dottrina enunciata per mezzo di casi perspicui tratti dalla realtà conosciuta, per i quali sia istituibile un analogo rapporto. Il concorso di più immagini rende tanto più efficace la verifica: si tratta di un procedimento che Seneca erediterà dalla scuola.

II. 2 Luce come conoscenza nell’immaginario

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