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Metafisica della luce nelle Epistulae?

Cap. III Immagini della luce nelle Epistulae morales: la luce della virtus

III. 2 Metafisica della luce nelle Epistulae?

Abbiamo fin qui osservato la duttilità dell’immaginario della luce nel contribuire, nella predicazione senecana, a delineare la virtus stoica nei suoi tratti precipui: l’autonomia, la stabilità per la quale essa non è suscettibile di aumento o diminuzione, il suo rapporto col bene che in essa si identifica, la sua partecipazione alla natura divina che eleva l’uomo dalla sua condizione.

Seneca recupera altresì elementi rilevanti dell’immaginario platonico della luce, che per la paradigmaticità delle sue formulazioni continua a operare, se pur in maniera latente, nello sviluppo di ogni forma di simbolismo che associ la luce al bene morale. Abbiamo rilevato come il simbolismo della luce in ambito platonico si traduca in una vera e propria metafisica della luce, ovvero in una concezione che individua nella luce una radiazione della sostanza eterea e divina del cielo e degli astri, e in particolare del sole, una sostanza che per la sua natura particolare è intermediatrice tra il mondo sensibile e il mondo intelligibile delle Idee. In una delle Epistulae morales in particolare, ci imbattiamo in uno sviluppo dell’immaginario senecano della luce di particolare interesse in relazione a questo aspetto della metafisica platonica. Si tratta dell’epistola 41128.

La lettera si apre con un altro incoraggiamento da parte di Seneca a Lucilio nei suoi sforzi verso la bona mens: essa è raggiungibile da ciascuno

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per mezzo delle sue proprie forze. L’affermazione dell’autosufficienza della virtus a realizzarsi, in conformità all’etica stoica, è anche in questo caso collegata alla natura divina di cui ha parte, non tuttavia attraverso il ricorso ai fondamenti della fisica stoica bensì tramite un’evocazione del divino radicata piuttosto nell’esperienza interiore. Infatti – continua Seneca – un sacer spiritus abita in noi come observator et custos dei nostri pensieri parole azioni, buoni o cattivi. Senza il suo aiuto nessuno può elevarsi al di sopra della fortuna129.L’immagine dell’observator et custos è sviluppata con particolare enfasi, come un perentorio richiamo all’impegno morale: nella forza della coscienza come stimolo al perfezionamento, Seneca qui trova il punto d’avvio per una riflessione teologica.

Il tema dominante dell’epistola è infatti il divino nell’uomo: Seneca evoca diverse esperienze del divino naturale – un bosco foltissimo, le profonde grotte scavate nella roccia, le sorgenti dei fiumi – e ad esse accosta il mirabile spettacolo di un uomo saggio e sereno130:

interritum periculis, intactum cupiditatibus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, superiore loco homines videntem, ex aequo deos131.

Quest’uomo merita la nostra spontanea ammirazione perché sovraumana la sua essenza: nel suo corpusculum è scesa una vis divina; una caelestis potentia vivifica l’anima umana e le consente di disporsi saldamente; un numen la sostiene e la mantiene in contatto con la superiore fonte da cui essa trae origine132. Un’articolata similitudine solare interviene a illustrare questo pensiero:

129 epist. 41,2. 130 epist. 41,3s. 131 epist. 41,4. 132 epist. 41,5.

Non potest res tanta sine adminiculo numinis stare; itaque maiore sui parte illinc est unde descendit. Quemadmodum radii solis contingunt quidem t err am s ed ibi sunt unde mi ttunt ur, sic animus magnus ac sacer et in hoc demissus, ut proprius [quidem] divina nossemus, conversatur quidem nobiscum sed haeret origini suae; illinc pendet, illuc spectat ac nititur, nostris tamquam melior interest133.

A rafforzare la similitudine, il motivo della luce ritorna subito dopo in forma di metafora: l’animus saldo non risplende se non della sua luce, l’autonoma facoltà morale: nullo bono nisi suo nitet134. Il bene proprio dell’uomo, a lui connaturato, è infatti la ratio in animo perfecta, poiché eminentemente razionale è la natura dell’uomo135. Nella ratio che l’uomo possiede, egli fa esperienza di un bene innato, avvertito però come virtualità di bene. Ma avvertire questo embrione in sé gli dà la certezza di un bene che, una volta attuato perfettamente, supera la limitatezza della sua condizione umana, proiettato verso un bene non relativo e transitorio come quello umano, ma assoluto, incorruttibile, eterno, appunto ‘divino’136.

La similitudine del sole riecheggia la celeberrima immagine platonica di Rep. 507b - 509c che, come si è detto, assimila ontologicamente il sole al Bene intelligibile. La stessa struttura analogica (luce : sole :: intelligibile : Bene) è ripresa anche da Plotino in Enn. 8, 4, 8 – sebbene a un livello ontologico inferiore (luce : sole :: anima : intelligibile) – in una formulazione molto affine a quella senecana. Di fatto la presenza di quest’immagine sembra implicare nell’epistola 41 una concezione psicologica ed escatologica dell’anima a sua volta non scevra da spunti platonici. A questa si accompagna l’eco di altri motivi platonici: 133 epist. 41,5. 134 epist. 41,6. 135 epist. 41,7s. 136 Cfr. Scarpat Bellincioni 1986, 25ss.

in Tim. 41e - 42b Platone descrive il Demiurgo che spartisce le anime in numero eguale agli astri ed assegna ciascuna anima al suo astro; a quest’astro l’anima farà ritorno dopo la morte per condurre lì una vita di letizia; celeberrima è la formula platonica dell’uomo come ‘pianta celeste’ in Tim. 90 a, una pianta che ha le sue radici in alto, là dove splendono gli astri, dèi immortali, e protende i suoi rami verso la terra. Su questi fortunati motivi poetico-dottrinali si era innestata una visione marcatamente dualistica del mond, che si era progressivamente sviluppata in ambito tardoellenistico nella forma ingenua delle religioni misteriche, nelle teorie astrologiche di origine orientale ovvero nella forma articolata della riflessione filosofica e delle diverse sfumature delle correnti gnostiche. In questa visione del mondo anche il simbolismo della luce aveva assunto nuovo significato: la tradizionale associazione luce / bene era stata riletta in chiave dualistica, secondo la concezione di un bene ultramondano, inteso primariamente come immortalità dell’individuo. Un mondo celeste della luce, della vita intesa come immortalità, si contrapponeva al mondo della morte e dell’oscurità, una forza cosmica in lotta con la luce. Il mondo della luce del giorno non occupava più una posizione mediana fra i due estremi, ma veniva ad appartenere già alla sfera di una provvisoria morte. All’interno di questa nuova visione dualistica era nata una dottrina escatologica, quella del ‘viaggio dell’anima’, che esercitò notevoli influssi nel mondo greco-romano e certo anche sull’antico e medio stoicismo137.

Il ‘viaggio dell’anima’ è un motivo che Seneca non riprende esplicitamente nell’epistola 41, tuttavia sono visibili elementi che costituiscono indizi significativi della sua presenza latente: l’origine astrale dell’anima e il suo soggiorno sulla terra impura; il suo definitivo ritorno alle stelle. Il motivo della terra come luogo di esilio e patria provvisoria dell’anima ritorna con particolare insistenza: Seneca si compiace di

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contrapporre ai conflitti, alle impurità, all’opacità fisica e morale di questo nostro pianeta, luogo della violenta passionalità degli uomini, alla splendida purezza dei cieli, alla visione del sole e della luna che rivelano un ordine eterno e indefettibile138. Analogamente il motivo del corpo umano che, in quanto parte del pianeta terrestre, legato alle sue vicende, alla sua impurità e corruttibilità, è ‘carcere’ e ‘sepolcro’ dell’anima: nel vir bonus c’è qualcosa di così grande e sublime, appunto l’animus, da non poter essere confuso col misero corpusculum in cui è imprigionato.

In questa concezione fortemente dicotomica, la morte è la suprema liberazione, la catarsi definitiva dell’anima che lascerà il corpo e tornerà a dio: questo è uno dei temi principali dell’epistola 120, che possiamo chiamare in causa a sostegno dell’interpretazione della visione escatologica che emerge nella 41139:

Maximum, inquam, mi Lucili, argumentum est animi ab altiore sede venientis, si haec in quibus versatur humilia iudicat et angusta, si exire non metuit; scit enim quo exiturus sit qui unde venerit meminit. Non videmus quam multa incommoda exagitent, quam male nobis conveniat hoc corpus.140

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Per es. in ad Helv. 8,6.

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È una delle epistole più rilevanti dal punto di vista filosofico e per la fisionomia della dottrina senecana dell’intero corpus e, insieme a 121 e 124, fa parte del liber ventesimo, non coeso tematicamente ma in cui anche le lettere non filosofiche forniscono un adeguato contesto a queste tre più notevoli. Dal punto di vista tematico, Inwood 2007, 306 rileva come il tema del bene colleghi strettamente epist. 117 e 118, che insieme anticipano temi di 120, 121, 124. Sull’escatologia senecana, cfr. Marchesi 1910, 177-83; Benoit 1948; Motto 1955; Cattin 1956; Faggin 1967; Mazzoli 1967, 203-62 e 1984, 953-1000; Bocciolini 1979; Colakis 1985

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Anche nell’epistola 120 il motivo della luce è ricorrente. Essa è il simbolo della bellezza splendente delle azioni generose o coraggiose in epist. 120,5 o dell’uomo virtuoso in 120,13141:

fecit multis intellectum sui et non aliter quam i n tenebris lumen ef fulsi t advertitque in se omnium animos, cum esset placidus et lenis, humani divinisque rebus pariter aequus.

L’eccellenza del vir bonus si radica nel suo animus, conscius sibi melioris naturae142.

Tornando all’epistola 41, ai tratti di una visione dualistica e di un’escatologia ispirata all’ontologia platonica si oppongono altri elementi del contesto, che suggeriscono un’interpretazione più rispettosa di una visione stoica del mondo, materialistica e panteistica. Innanzitutto, la contemplazione del divino nella natura suggerisce una dimensione universale della presenza del divino, cosicché anche tale presenza nell’uomo è riconoscibile come compimento ‘naturale’ di un unitario meccanismo cosmico143. Questa può essere chiave di lettura di ciò che segue: l’animus, ovvero l’interiorità morale, costituisce la polarità soggettiva rispondente a una più vasta polarità oggettiva, il cosmo, fatta della stessa sostanza: esse sono omogeneamente congiunte dall’unico logos che le sorregge. Anche pendere termine tecnico della fisica stoica, rinvia immediatamente alla nozione stoica della realtà come intreccio fatale che dipende dalla ragione onnicomprensiva, esplicazione della provvidenza divina. Lo testimonia un’occorrenza famosa di questo verbo in epist. 65,12 dove Seneca contrappone alla teoria platonica e aristotelica delle cause molteplici a cui ricondurre la generazione del mondo, nella sua immagine scissa e gerarchizzata nei vari gradi dell’essere, l’immagine del

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Per il motivo della luce del vir bonus, cfr. anche epist. 4,1; 79, 14 e 16; 115,3.

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epist. 120,18.

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cosmo stoico unitario e coeso, la materia, interamente penetrato da un’unica forma fondamentale di causalità, la ragione.

Il motivo del sole nella metafisica platonica, come si è detto, è celeberrimo e ha una lunga fortuna successiva tanto da essere probabilmente al fondo anche della speculazione stoica sul sole come hJgemoniko;n tou~ kovsmou, dalla quale però gli stoici escludono qualunque tratto di trascendenza o di gerarchia ontologica. Probabilmente Seneca nell’epistola 41 non vuole allontanarsi nelle intenzioni dalla dottrina stoica ma, per esaltare l’anima come causa della vita intelligente e delle qualità morali e mentali dell’uomo, ricorre a una metafora ‘obbligata’, che si impone con tale forza alla coscienza da imprigionare il concetto che essa collabora a formare. L’opposizione anima / corpo, che anche l’immagine della luce contribuisce a rafforzare, può a sua volta non essere incompatibile col tradizionale materialismo stoico. Anima e corpo si contrappongono ma non necessraiamente devono appartenera ordini ontologici diversi: lo status corporeo dell’anima per gli stoici non impedisce in sé che un netto dualismo si configuri sul piano etico.

Conclusioni

Sebbene non sia attestata in Seneca una teoria della letteratura organicamente espressa, la coerenza del suo atteggiamento sul piano della dottrina estetica si radica in un costante riferimento al sistema di pensiero stoico, attraverso l’autorevolezza del quale Seneca reperisce una sorta di garanzia a priori del proprio impianto teorico. Così facendo, però, abbiamo visto che il filosofo si trova a fare i conti, in campo estetico, con la tradizione di scuola: la concezione stoica di un ideale di linguaggio trasparente, adatto a esprimere la verità del pensiero morale, imponeva la svalutazione delle istanze stilistiche e la loro subordinazione all’integrità dell’espressione. Seneca non si discosta mai esplicitamente da questa posizione di condanna dell’elemento stilistico-formale e quando prende in considerazione lo stile della predicazione filosofica lo fa sempre in relazione diretta al suo fine, che è di ammaestramento alla virtù e di esortazione a una condotta attivamente morale. Così, nella teoria senecana, anche l’uso delle immagini nella prosa filosofica è giustificato solo sulla base della funzione didattica che esse possono svolgere in tale contesto e dell’utilità pedagogica che ne deriva: ho cercato di mostrare come questo sia il tratto che spicca maggiormente nelle notazioni sulla letteratura e sullo stile presenti nelle Epistulae.

Tuttavia, proprio la ricerca di un’eloquenza che, attraverso la bellezza e la ricercatezza delle espressioni, sappia dare risalto non a sé stessa bensì ai contenuti che mira a comunicare, permette parallelamente a Seneca di operare una rivalutazione degli aspetti stilistico-formali. Il filosofo sostiene con convinzione la necessità di un’admonitio che agisca psicagogicamente su chi ascolta, e concepisce l’uso di un linguaggio energico, che sappia farsi forte dei mezzi della persuasione al fine di rispecchiare e trasmettere la verità del contenuto filosofico.

Quanto allo specifico uso delle immagini all’interno della prosa filosofica, abbiamo visto che esso è giustificato innanzitutto al fine di

sopperire all’egestas linguae, ma soprattutto è concepito come un imprescindibile mezzo di sostegno della debolezza intellettiva: la principale funzione delle immagini per Seneca è appunto quella di demonstrare attraverso la loro concretezza e vividezza. Esse trovano pertanto il loro definitivo riscatto come strumenti utili al filosofo per mettere a fuoco problemi e argomentazioni, all’ascoltatore per appropriarsi i concetti con maggiore immediatezza.

A questa concezione fa da pendant, nella concreta prassi stilistica di Seneca filosofo, un uso costante delle immagini. Quelle che sviluppano il motivo della luce trovano nel corpus delle Epistulae due principali ambiti di applicazione: la conoscenza e la virtus.

La prima di queste associazioni, quella che assimila luce e conoscenza, è un risultato di quel ‘pensare per immagini’ che è all’origine stessa del linguaggio filosofico: ho ripercorso nella parte introduttiva di questo lavoro le idee che nella speculazione psicologico-estetica e nella cultura retorica disponibili a Seneca, avevano stabilito un nesso tra immaginazione e meditazione filosofica, e di concerto l’affinità tra il poeta e il filosofo, accomunati dalla capacità di ‘scorgere il simile’ attraverso le apparenze della varietà fenomenica. Nel poeta, secondo Aristotele, questa capacità è alla base dell’arte della metafora, ed è nativa, non insegnabile. A propria volta, il pensiero filosofico si svolge in origine attraverso metafore: così come si è visto, questo tipo di immagini traducono il pensiero astratto, per la prima volta, in contenuto sensibile. Le metafore divengono pertanto uno strumento naturale della predicazione filosofica.

È il caso appunto della luce come metafora della conoscenza: la natura della luce come chiarezza che rende possibile il vedere e l’intuitiva associazione dell’atto conoscitivo all’atto della visione, dell’anima agli occhi, sono elementi esplorati dalla lunga tradizione retorica e filosofica che nella mia ricerca ho cercato di ripercorrere. Anche Seneca rientra in questa tradizione filosofica, che aveva avuto nei dialoghi di Platone –

molto più che nell’elaborazione della scuola stoica – il suo momento centrale.

Certo, nel caso di Seneca, il quale non è l’inventore del sistema filosofico che espone, la metafora della luce come conoscenza non conferisce ex novo una forma al pensiero, ma serve piuttosto a vivificarlo, ad animarlo, permettendo al filosofo di ripercorrerne i nessi secondo le proprie categorie mentali attraverso un apparato di immagini consolidate dalla tradizione. A loro volta, metafore poco evidenti o quasi completamente lessicalizzate, limitate a un solo verbo o sostantivo, si riattivano per mezzo dei procedimenti stilistici che Seneca mette in atto nella sua prosa filosofica. Sulla base dei testi presi in considerazione, mi sembra si possano individuare come segue:

1. Accumulazione di immagini dallo stesso campo figurativo al fine di rafforzarne l’evidentia, come nell’epistola 88, dove un complesso sistema di richiami collega i motivi della luce come conoscenza, dell’accecamento, dell’orientamento: insieme essi collaborano alla costruzione di un impianto metaforico coeso e coerente, che serve a guidare il lettore nello sviluppo dell’argomento.

2. Interazione del motivo della luce con motivi tratti da altri ambiti metaforici: nell’epistola 94 la complessa costellazione metaforica che si sviluppa intorno all’associazione vista fisica / vista interiore, è rafforzata dall’innesto del motivo tipicamente senecano della salute / malattia come condizioni morali.

3. Trapasso continuo dal piano connotativo a piano denotativo, come nell’epistola 48, dove la metafora dell’iter, che interagisce strettamente con quello della luce dell’orientamento morale, è anticipata dal riferimento di cornice al viaggio di Lucilio; l’immagine resta evidente al lettore funziona poi da Leitmotiv nello sviluppo dell’epistola.

Per quanto riguarda l’applicazione del campo metaforico della luce al tema della virtus, l’analisi della fenomenologia presa in considerazione

ci mostra una più complessa compenetrazione tra l’aspetto letterario e l’aspetto propriamente logico-teoretico. Ho operato nel mio studio una distinzione dei materiali essenzialmente tecnici o dossografici da quelli che propriamente letterari; sulla base di questo criterio mi sembra che il rapporto tra le immagini della luce e il contenuto filosofico si possa definire come segue:

1. Un primo tipo è costituito da metafore puramente ornamentali che, proprio perciò, non si fa carico di particolare significato dottrinale. È il caso della luce come attributo dell’eccellenza del sapiens: questo motivo, che è convenzionale già in Cicerone e che è presente nelle Epistulae in moltissime occorrenze, è stato citato a proposito di epist. 120,13, un’occorrenza che può essere ricollegata a una più estesa presenza dell’immaginario della luce nella medesima epistola.

2. Un secondo tipo, più significativo, è rappresentato da formulazione analogiche le cui implicazioni sono intese a contribuire alla determinazione del senso della dottrina enunciata. Tali metafore si possono distinguere a loro volta in due sottocategorie:

a. vi sono analogie essenziali alla giustificazione della dottrina enunciata, come quella di epist. 31,2: Seneca riconduce il rapporto che intercorre tra bene e virtù ai precetti della fisica stoica in cui tale rapporto si radica, assimilando i processi invisibili dell’interiorità umana a quelli visibili del mondo naturale, e in particolare alla luce, fenomeno visibile per eccellenza. La mixtura lucis di cui hanno parte le cose luminose richiama la teoria della kra~siı tra lo pneu~ma e le parti del cosmo che esso compenetra, teoria che sul piano fisico fonda la dottrina etica della partecipazione delle cose buone al bene, ovvero la ratio divina che le compenetra. Un altro caso di questo tipo di occorrenze è quello di epist. 66,20, dove la grandezza assoluta della virtus in rapporto agli incommoda è assimilata alla potenza luminosa del sole: esso, con l’intensità della sua luce, rende impercettibile ogni fonte di luce minore. Anche qui l’analogia, perfettamente organica alla

dottrina enunciata, funziona in base ai principi della fisica stoica che identificavano lo hJgemonikovn del cosmo nel sole.

b. viceversa in altre analogie, sebbene si stabiliscano anch’esse sulla base di una stretta correlazione fra immagine e contenuto filosofico, prevale l’aspetto icastico. In questa sottocategoria ricadono i casi di epist. 92,5 e 17, dove l’intensità luminosa del sole è tertium comparationis comune a due similitudini, le quali però illustrano due rapporti diversi, quello tra virtus e commoda e quello tra virtus e incommoda: Seneca indulge in variazioni su uno stesso motivo il cui sviluppo, pur contribuendo alla determinazione di senso dell’insegnamento enunciato nell’epistola, mostra come l’equilibrio tra istanze teoretiche e istanze letterarie si sbilanci a favore delle seconde. 3. Un terzo tipo di immagini è il più caratteristico dell’usus senecano: è costituito dai casi in cui una metafora è adottata per rivitalizzare o per corroborare l’impatto di una teoria senza che ciò sia inteso a determinare la sostanza della teoria stessa. Anche in questo caso ho individuato due distinte applicazioni:

a. talvolta Seneca introduce elementi e idee coerenti con la teoria presentata. È il caso di epist. 21,2 dove la concezione stoica dell’autosufficienza della virtus prende corpo in una similitudine che gioca sul contrasto tra due diverse manifestazioni luminose: la lux

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