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Il 1964 fu soprattutto l’anno dell’esplosione della pop art a Venezia. La sua presenza alla Biennale e soprattutto il Gran Premio attribuito a Robert Rauschenberg fecero scaturire polemiche a non finire, che dilagarono in città con la velocità e il rumore di un “BRATATATA” di Lichtenstein.

Le opere più pop erano in realtà esposte in una mostra collaterale (che sarebbe poi stata definita “clandestina” da Paolo Rizzi167

) organizzata dai mercanti Leo Castelli e Ileana Sonnabend all’ex Consolato degli Stati Uniti a San Gregorio, con l’intento di rendere più visibile la presenza americana anche al di fuori dei Giardini della Biennale, dove invece il padiglione si limitava a presentare due tendenze: la prima era una reazione espressiva ma geometrica all’espressionismo astratto, nelle opere di Morris Louis e Kenneth Noland, e la seconda il superamento dello stesso espressionismo astratto da parte di Robert Rauschenberg e Jasper Johns, che ne mantenevano il carattere pittorico aggiungendovi però forme e oggetti reali; per questo erano in realtà più assimilabili al new dada che alla pop art. Entrambe queste correnti facevano parte di un crescente ritorno al realismo in atto dalla fine degli anni cinquanta, che voleva opporsi ad alcuni caratteri dell’espressionismo astratto: il carattere elitario, l’interesse per il sublime, la concezione eroica dell’artista. I nuovi realismi volevano al contrario riportare l’arte nella società, anche di massa, occuparsi della vita quotidiana, e concepivano l’artista come un ricettore e un testimone del proprio tempo, procedendo di conseguenza verso la meccanizzazione delle tecniche per far scomparire la soggettività dell’autore. Riprendendo le ricerche dada ma anche cubiste e costruttiviste, il nouveau réalisme francese (raccolto dal 1960 intorno al critico Pierre Réstany) e il new dada americano utilizzavano quindi il collage, l’assemblage, il riciclaggio, il calco, il prelievo, la copia. Questa seconda tendenza tuttavia non perse l’eredità gestuale e pittorica dell’espressionismo astratto, venendo anche per questo classificata come un’estetica “calda” (perché centrata anche sul piacere della pittura, sull’errore e sul caso, oltre che su una componente emotiva), a cui venne contrapposta quella “fredda” della pop art, composta da immagini più nette, meccaniche, asentimentali e acritiche. Infatti anche se la pop di Andy Warhol, Roy Lichtenstein e James Rosenquist riprende dal new dada l’interesse per l’oggetto quotidiano e il rifiuto dell’astrattismo e dell’importanza data all’artista, estremizza questi caratteri fino a spegnerli nell’indifferenza verso le problematiche della società dei consumi, che viene celebrata in dipinti dalla figurazione meccanica e mimetica. Come ha puntualmente

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riassunto Catherine Grenier, l’espressionismo astratto si interessava al soggetto che desidera, i nuovi realisti al meccanismo del desiderio, la pop art all’oggetto del desiderio168

.

Come anticipato sopra, il Gran Premio della XXXII Esposizione Internazionale d’Arte andò a Rauschenberg, che esponeva solo quattro lavori al padiglione degli Stati Uniti; appena si seppe del premio gli organizzatori provvidero a farvi trasportare in fretta e furia altre sue opere esposte a San Gregorio, forse fiutando le imminenti polemiche e cavalcando l’onda dello scandalo: in questo modo l’evento ebbe maggiore visibilità e la scelta della giuria fu in qualche modo più “giustificata”, anche se le polemiche sorsero persino dall’interno della giuria internazionale stessa169.

Lo stesso anno Rauschenberg aveva anche realizzato le scenografie per un balletto di Michael Cunningham con musiche di John Cage, di scena alla Fenice.

Il livello delle opere presentate dagli Stati Uniti era altissimo; oltre agli artisti già citati, esponevano anche John Chamberlain, Claes Oldenburg e Jim Dine, popolando la Biennale di follie immaginative Pop: spazzolini giganti, fumetti enormi e oggetti quotidiani.

La critica gridò allo scandalo. Il Presidente della Bevilacqua La Masa Diego Valeri pubblicò un articolo su “Il Gazzettino” definendo la 32ma Esposizione Internazionale d’Arte “la Biennale dei Beatles”, attribuendo alla band di Liverpool un’accezione ovviamente negativa. Dopo un incipit malinconico in cui ricordava le prime Biennali da lui visitate quando era ancora una matricola universitaria (e in cui tra l’altro ammetteva che “la maggior parte di quelle pitture e sculture fossero campioni di una non salvabile mediocrità borghese e floreale”170

), così scriveva della Biennale del 1964:

“Già ho accennato alla monotonia dello spettacolo, nel suo complesso. Si va d’una in altra sala senza avvertire un mutamento e neppure una variazione di motivi, d’invenzioni, di modi stilistici. Tutti vestiti di elegantissimi stracci, tutti pettinati alla Beatles, questi artisti dei cinque continenti. Le eccezioni, che non son molte, ma pur ci sono, fanno colpo, fanno scandalo. Se, ad esempio, aggirandovi per questo labirinto, posate per caso lo sguardo su una piccola Natura morta di Morandi (venuta dal Museo di Rio de Janeiro), ricevete uno choc come davanti a un mostro di compostezza, di misura, di grazia, di bellezza, di poesia.

Lo scandalo maggiore, però, resta quello che non scandalizza nessuno, e viene dalla constatazione che la pittura e la scultura hanno ripudiato, in ogni parte del mondo, l’amore e la legge della realtà, si son sottratte all’obbligo di osservare e interpretare e rappresentare e “stilizzare” gli aspetti, le

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C. Grenier, Nuovi realismi e pop art(s), in Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli

anni ’50 a oggi, a cura di Francesco Poli, Electa, Milano 2003, p. 29.

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E. Di Martino, Storia della Biennale di Venezia, 1895-2003: arti visive, architettura, cinema, danza, musica,

teatro, op. cit., p. 59.

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forme, i moti della realtà. Naturalmente, e nello stesso momento, si son separate, straniate dalla gioia di vivere, che non può esistere senza una profonda adesione a ciò che esiste per volontà e opera di Dio. Sono immerse nelle caligini o risucchiate nei vortici dell’angoscia universale; la quale nove volte su dieci è, ben s’intende, una semplice posa, una maschera di comodo o, diciamo più riguardosamente, una ipotesi di lavoro”.

Valeri aggiungeva poi che mentre la critica si era espressa negativamente, il pubblico al contrario aveva apprezzato la Biennale, dato che non gli pareva vero “di essere o figurare di essere à la page, in grado di capire quello che effettivamente non capisce, e in cui d’altronde non c’è niente da capire”. L’articolo si concludeva così:

“E adesso andiamo a dirgli, ai visitatori della Trentaduesima, che Semeghini e Hartung, Marino e Moore, per non ripetere il nome di Morandi, sono infinitamente più nuovi di Mimmo Rotella: intendo dei suoi collages di manifesti murali scelti, con intenzioni umoristiche ma con risultati agghiaccianti, tra i più ignobili e cretini. Rotella, ahimè, è, più che novo, novissimo.

Ma allora io dico che son da preferire mille volte, sotto il riguardo della novità, gl’ingegnosissimi giocattoli messi in opera dal Gruppo N o dal Gruppo T: macchinette che (sia o no legittima la loro presenza qui) almeno per un momento c’incantano e ci fan tornare bambini”.

Subito sotto, nella stessa pagina dello stesso numero de “Il Gazzettino”, si riportavano le parole di Paolo Rizzi che il giorno prima al Rotary Club di Venezia aveva tenuto una conferenza intitolata addirittura “XXXII Biennale: si può ancora parlare di arte?”. Rizzi era partito dall’analisi di un quadro di Rauschenberg con un orologio incastrato al centro e aveva parlato poi della Pop Art e della Biennale in corso:

“Oggi l’arte d’avanguardia, ed in particolare la pop art, si pone lo scopo di aggredire psicologicamente lo spettatore, di causargli uno choc estetico, di giuocare sottilmente sulle sue reazioni inconscie, di turbarlo, di sconcertarlo. In altre parole, l’arte diventa una informazione di ordine estetico, un messaggio che tanto più riesce a colpire il fruitore quanto più reca in sé un quoziente di novità. In questo senso l’arte viene avvicinata alla cartellonistica pubblicitaria, la quale ha lo scopo di choccare lo spettatore. (…) Se l’arte è così intesa, si capisce perché Rauschenberg abbia appiccicato il suo famoso orologio al centro del quadro e perché l’abbia inclinato. Rauschenberg voleva choccare: e si sa che per choccare occore qualcosa che si ponga come un controsenso. L’arte di avanguardia è diventata, sulla scia di questi concetti, una specie di rincorsa affannosa al nuovo, all’assurdo, al paradossale”171

.

Rizzi non negava totalmente l’invito a guardare anche agli oggetti più banali secondo criteri estetici: come nell’Ottocento si guardava un tramonto, oggi si poteva guardare un’automobile slegata dalla sua funzione, “in una composizione che astragga questi oggetti dalla loro

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banalità e li trasformi in più alti mezzi d’espressione”. Purtroppo però secondo Rizzi questo veniva fatto solo per esaltare l’irrazionale e scioccare il pubblico. Venendo alla Biennale aveva detto:

“Quello che è il lievito dell’arte, cioè la moralità, cioè il senso dell’umanità, della civiltà, della storia, è pressoché assente. Qui sta la grave pecca della Biennale, che giustifica tutte le perplessità. Si può essere più o meno d’accordo con la pop art, con gli orologi incastrati in mezzo al quadro, con i manifesti strappati di Marilyn Monroe, con le macchinette elettriche semoventi, con le costruzioni di meccano: tutto ciò può essere o meno accettato in nome della civiltà del consumo. Ma è lecito pretendere dagli artisti qualcosa di più che un giuoco intellettualistico, che un divertissement ironico da ragazzi viziati”.

Il motivo principale di tanta avversione da parte della critica va rintracciato nella delusione data dalla constatazione che il primato artistico europeo era ormai concluso: nel luglio 1964 Pierre Mazars aveva lanciato un allarme contro la “colonizzazione artistica americana in Europa”, chiamando la Francia a farsi promotrice di una specie di mercato comune europeo delle arti172. Quest’appello era stato giudicato patetico e grottesco dallo stesso Paolo Rizzi, che poi l’avrebbe invece rivalutato alla luce dell’effettiva “conquista” del mercato dell’arte da parte della Pop. L’accusa di “colonialismo culturale americano” mossa alla Biennale poteva in parte essere compresa se si considera che nello stesso anno era scoppiata la guerra del Vietnam: si temeva che gli Stati Uniti perseguissero un’analoga politica “colonialista” anche in campo artistico, secondo una polemica che era già stata posta in atto in precedenza per l’espressionismo astratto.

Secondo Enzo Di Martino, chi risentì davvero dello “strapotere” di cui vennero accusati gli Stati Uniti fu invece l’Inghilterra, che esponeva opere pop dell’artista Joe Tilson, passato pressoché inosservato nonostante la qualità dei suoi lavori173.

In realtà, la Pop Art portò finalmente una rivoluzione nell’ambiente veneziano, e le sue influenze sugli artisti locali furono quasi immediate, a differenza dell’informale e dell’arte cinetica, il cui processo di “metabolizzazione” aveva richiesto molto tempo. Il primo a recepire gli spunti pop fu Fabrizio Plessi, che fino all’anno prima operava su una linea di ricerca vicina all’astrattismo gestuale informale, e già dal 1964 avrebbe virato fortemente la sua produzione. Nonostante fosse stata fortemente osteggiata dalla critica infatti, numerosi artisti veneziani (ad esempio Eulisse, Giordani, Giorgi, Ovan) avrebbero presto rielaborato le

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P. Rizzi, La cipolla pop, op. cit..

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E. Di Martino, Storia della Biennale di Venezia, 1895-2003: arti visive, architettura, cinema, danza, musica,

influenze pop, a volte deviando anche vigorosamente le proprie ricerche. La Pop Art ebbe in definitiva il grande merito di rivelare l’assurdità del dibattito tra astrattisti e figurativi, mostrando un modo completamente diverso di usare la figurazione..

Come notato da Nico Stringa infatti prima dell’arrivo della pop a Venezia c’erano praticamente solo due poli: l’informale di Vedova, astratto gestuale e espressionista, e la liricità fantastica di Santomaso (tra l’altro proprio nel 1964 entrambi questi artisti compirono una svolta, il primo iniziando a realizzare i Plurimi e il secondo le opere minimaliste)174. Non sorprende neanche che la scomparsa di Giorgio Morandi, avvenuta proprio durante la vernice della Biennale, all’epoca sia stata letta da molti come un segno: la fine di un periodo storico e l’inizio di un altro. “L’affermazione della più ‘rumorosa’ tendenza dell’arte avviene proprio nel momento della scomparsa del più ‘silenzioso’ artista contemporaneo”, si disse il 18 giugno.

La Biennale aveva organizzato anche altre mostre interessanti, che passarono in secondo piano a causa della polemica intorno alla Pop Art: ad esempio la mostra “Arte nei musei oggi” allestita al Museo Correr, le retrospettive dedicate e Felice Casorati e Pio Semeghini, e i bronzi di preparazione di Giacomo Manzù per la Porta della Morte per la Basilica di San Pietro in Vaticano. Tra i veneziani esponevano Virgilio Guidi e Tancredi, mentre Santomaso aveva una personale175. Tornando all’arte cinetica, anch’essa aveva il suo spazio, attraverso le ricerche del Gruppo N e del Gruppo T e nella sala del venezuelano Soto. C’era inoltre la Nuova Figurazione di Sergio Vacchi, Giuseppe Guerreschi, Leonardo Cremonini e Enrico Baj. Anche per la scultura fu un anno importante: esposero Zoltan Kemeny (premiato), Jean Ipouséguy, Arnaldo Pomodoro, Andrea Cascella, Dino Basaldella, Alik Cavaliere, Ettore Colla, il veneziano Salvatore. Fu dedicata una sala anche alla pittura di Gastone Novelli e Mimmo Rotella, si organizzò una retrospettiva di Pinot Gallizio. Tra i veneziani oltre Salvatore c’era anche una sala di Virgilio Guidi, Tancredi espose tre dipinti e Santomaso tenne una sua personale176. Fu quindi, al contrario della monotonia riscontrata da Valeri, una Biennale memorabile per la varietà e l’attualità delle correnti esposte, che avrebbe lasciato forti segni nell’ambiente veneziano ed europeo in generale.

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N. Stringa, Dolce Stil novo veneziano, in Arte al bivio. Venezia negli anni Sessanta, op. cit., p. 14.

175

Catalogo della 32. Esposizione Biennale Internazionale d'Arte, catalogo della mostra (Venezia, Giardini della Biennale), Stamperia di Venezia, Venezia 1964.

176

G. Nonveiller, Le mostre collettive. Traccia per una storia delle arti visive a Venezia negli anni sessanta.

Appunti sugli anni settanta, in Emblemi d’Arte. Da Boccioni a Tancredi. Cent’anni della Fondazione Bevilacqua La Masa 1899-1999, op. cit., p. 205.

A Venezia però altri avvenimenti risultarono centrali per il mondo dell’arte nel 1964: la visione d’insieme della ricerca artistica internazionale offerta dalla Biennale fu accompagnata da una riflessione teorica, permessa dalla Fondazione Giorgio Cini che organizzò insieme al Comune di Venezia il VI Corso internazionale di Alta Cultura, sempre sul tema “arte e cultura contemporanee”, che consisteva in un ciclo di lezioni, interventi e conferenze con critici, storici, artisti e scrittori di fama internazionale.

Sempre a livello teorico, alla Galleria Il Traghetto di Gianni De Marco nello stesso anno si tenne la conferenza di Lucio Fontana intitolata “Perché la fine dell’arte?”177, titolo che delinea bene quali fossero le paure sul futuro dell’arte in conseguenza delle nuove tendenze pop e programmate: se la prima minacciava l’arte fino ad allora conosciuta “appiattendola” a un livello popolare e di massa, la seconda ne minava le basi di unicità e ne distruggeva l’aura grazie alla riproducibilità tecnica delle opere, che finivano col coincidere con prodotti industriali. Non a caso due anni dopo Paolo Rizzi, critico del “Gazzettino”, avrebbe scritto sull’arte cinetica che “quando l’arte perde la sua caratteristica di unicum irripetibile e quindi il suo aggancio con il pubblico, diventa sterile hobby, giuoco da stravaganti: a meno che, appunto, non si innesti nel meccanismo di una riproduzione industriale, divenendo allora nulla più che il prodotto sterilizzato di un ufficio di consulenza estetica”178.

Rimanendo nell’ambito della galleria private, nel 1964 aprirono la Galleria dell’Oca di Luciano Chinese a Santi Apostoli, la Galleria Cavana al ponte dei baretteri e la Galleria Internazionale di Silvano Gosparini a San Tomà. A Mestre aprirono la Galleria Minima, la Galleria Torre e la Galleria Elefante di Cesare Misserotti, che poi si trasferirà a Venezia nel 1966. Quest’ultima era tra le più interessate alle ricerche del Nouveau Réalisme e della Pop: l’anno dopo avrebbe ospitato la mostra American Supermarket, realizzata in collaborazione con Ileana Sonnabend e Leo Castelli, in cui le opere dei maestri della Pop americana sarebbero state esposte in mezzo ai beni di consumo come in un supermercato179. Alla Galleria del Cavallino si tenne una performance di Remo Bianco e una mostra del Gruppo 1 di Roma, che presentava ricerche gestaltiche. Il gruppo era presentato da Giulio Carlo Argan, che l’aveva premiato l’anno prima alla Biennale di San Marino.

Il CIAC di Palazzo Grassi quest’anno perse invece un po’ di terreno, continuando a insistere sull’informale attraverso due sessioni di una mostra su Dubuffet. La prima era intitolata

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E. Prete, Gallerie e occasioni espositive a Venezia negli anni Sessanta, in Arte al bivio. Venezia negli anni

Sessanta, op. cit., p. 31.

178

P. Rizzi, Una Biennale divertente, in “Il Gazzettino”, 15 giugno 1966.

179

E. Prete, Gallerie e occasioni espositive a Venezia negli anni Sessanta, in Arte al bivio. Venezia negli anni

“L’Hourloupe” e presentava un centinaio di opere di pittura recenti, variazioni infinite di una cellula piatta; la seconda mostra, “Les Phénomènes”, presentava litografie e musiche composte dallo stesso Dubuffet. Era un’analisi della natura nel suo sviluppo vitale e nei suoi aspetti più informi. Il VII Premio Pittura di Mestre andò ex aequo a Renato Borsato e Giuseppe Gambino, tornando quindi alla sua vocazione figurativa dopo la parentesi dell’anno precedente. Al Premio Marzotto invece vinse Burri. Nel 1964 e nel 1966 questo premio si mostrò relativamente aperto alle nuove tendenze, grazie soprattutto alla collaborazione tra Paolo Marzotto, Edoardo Soprano e Berto Morucchio. In queste edizioni il premio permise di riflettere sui rapporti tra arte e industria e arte e tecnologia.

Per quanto riguarda il panorama dell’arte veneziano nel 1964, va segnalata infine la chiusura della rivista “Evento”, diretta da Toni Toniato e nata nel 1956 con il quasi univoco compito di difendere, spiegare e diffondere l’arte astratta, spazialista e informale. Forse non è una coincidenza che la sua chiusura sia avvenuta nell’anno dell’arrivo a Venezia della Pop Art, che spazzava via il dibattito tra astratti e figurativi e faceva apparire ormai superato anche l’informale.

La 52ma mostra collettiva dell’Opera Bevilacqua La Masa venne inaugurata il 21 dicembre 1964 negli spazi delle Procuratie Nuove di Piazza San Marco e rimase aperta fino al 10 gennaio 1965. Alla vernice erano presenti il sindaco Favaretto Fisca, il vice prefetto Pintozzi, gli assessori De Biasi e Pietragnoli, il professor Forlati e sua moglie, Guido Perocco, il direttore dell’Istituto Veneto per il Lavoro Gasparetto, il conte Foscari, l’ingegner Tosoni e numerosi artisti, critici e appassionati180. Nel corso dell’inaugurazione Diego Valeri volle sottolineare la vitalità della Bevilacqua La Masa, giudicando “buono” il livello della collettiva nonostante i molti artisti esclusi per ragioni di spazio. Dopo Valeri prese la parola il sindaco, che ricordò come la funzione principale della Bevilacqua La Masa fosse quella di incoraggiare i giovani: “quegli artisti che hanno davanti a sé una dura strada da percorrere, che soltanto con il tempo, con lo studio e con la fantasia disciplinata dall’intelligenza, potrà essere superata”. “Il Gazzettino” fece notare l’assenza di opere di Pop Art, che secondo la linea editoriale del quotidiano dimostrava “la serietà di ricerca dei giovani artisti veneziani”. In realtà i primi segni di interesse per la Pop erano già visibili, per esempio nelle opere di Plessi, Eulisse e Giorgi, ma in effetti erano ancora in uno stato embrionale. Il clima culturale della Bevilacqua La Masa era infatti parecchio lontano da quello della Biennale, e riconfermava la linea figurativa e espressionista con i premi (ormai ripetitivi) per la pittura a Vittorio Basaglia, Martinollo e Pittarello. Solo alcune opere si mostravano più aggiornate:

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prima di tutto le tre Ipotesi per un paesaggio di Fabrizio Plessi, che aveva già iniziato a subire il fascino della Pop, ma anche l’astrazione segnica di Costalonga, le composizioni di Arabella Giorgi, l’astrazione spazialista di Saverio Rampin che riprendeva la luminosità di Guidi. Nell’anno della scomparsa prematura del pittore Tancredi, il Comitato decise di dedicargli