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“Risoluzione”), ha fornito ulteriori chiarimenti circa l’applica-zione della disciplina del credito d’imposta per investimenti in attività di ricerca e sviluppo di cui all’art. 3 del D.L. n. 145 del 2013.

L’Agenzia delle Entrate ha preliminarmente rammentato che il predetto art. 3 del D.L. n. 145 del 2013 prevede nei confronti di tutte le imprese che effettuano investimenti in attività di ricerca e sviluppo,“a decorrere dal periodo d’imposta succes-sivo a quello in corso al 31 dicembre 2014 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2019”, un credito di imposta per inve-stimenti in misura pari al 25% “delle spese sostenute in eccedenza rispetto alla media dei medesimi investimenti rea-lizzati nei tre periodi d’imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2015”. La disciplina è stata modificata con la legge di Bilancio 2017, che ha prorogato di un anno il periodo di tempo all’interno del quale possono essere effettuati gli inve-stimenti per i quali è possibile usufruire del credito d’imposta (fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2020) ed ha potenziato il beneficio, a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2016, prevedendo:

un’unica aliquota del credito d’imposta, pari al 50%, a prescin-dere dalla tipologia di investimento effettuato; l’ammissibilità delle spese relative a tutto il personale impiegato nell’attività di ricerca e sviluppo, non essendo più richiesto il requisito della specializzazione; l’incremento dell’importo massimo per anno del credito d’imposta spettante a ogni beneficiario, ora pari a 20 milioni di euro (dagli originari5 milioni di euro).

Ciò posto, la Risoluzione ha chiarito alcuni aspetti relativi alla tipologia di ricerca agevolabile. Per quello che riguarda, in particolare, gli studi clinici non interventistici (osservazionali), la Risoluzione ha osservato che essi consistono in studi cen-trati su problemi o patologie nel cui ambito i medicinali sono

prescritti nel modo consueto, in conformità alle condizioni fissate nell’autorizzazione all’immissione in commercio. In sostanza, tali studi vengono realizzati al fine di approfondire l’efficacia dei farmaci nella pratica clinica e verificare l’appro-priatezza prescrittiva degli stessi e per i quali è necessario elaborare uno specifico protocollo di ricerca, che definisce gli obiettivi ed il disegno dello studio. Tali studi sono sempre ammissibili al credito di imposta. Per ciò che riguarda, invece, gli studi di fase IV l’Agenzia delle Entrate ha osservato che si tratta di studi post - registrativi ossia condotti nella fase suc-cessiva all’immissione in commercio del farmaco. Essi pos-sono essere terapeutici ed osservazionali e pos-sono effettuati su ampie casistiche di pazienti; il loro obiettivo è quello di verifi-care in condizioni reali quello che può essere il valore terapeu-tico del farmaco, nonché la sua tollerabilità a lungo termine. In relazione a tale categoria di studi, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che solo quelli di natura medico-scientifica rientrano nell’ambito delle attività di ricerca e sviluppo in relazione alle quali viene riconosciuto il credito d’imposta.

La Risoluzione ha affrontato, anche, diversi quesiti in ordine alla tipologia di investimenti ammissibili. In particolare, l ’Uf-ficio ha evidenziato che ai fini della quantificazione del credito d’imposta vanno certamente considerate le quote di ammor-tamento dei beni materiali ammortizzabili, ritenuti indispen-sabili per realizzare il prototipo di un macchinario. Non possono, invece, essere considerati i costi per l’acquisto di strumenti e attrezzature di laboratorio. Per ciò che concerne, invece, i costi di esternalizzazione di attività che non possono essere qualificate come ricerca commissionata ovvero che non abbiano ad esito un risultato o prodotto innovativo, ma che sono strumentali alla realizzazione del prototipo o a componenti dello stesso, la Risoluzione ha precisato che tali costi vanno considerati nell’ambito della quantificazione del credito d’imposta e possono essere inclusi nella categoria delle spese relative alle competenze tecniche e privative industriali.

La Risoluzione ha specificato che i contratti di sviluppo speri-mentale che concernono i prototipi rientrano nella categoria dei contratti di“ricerca extra-muros”. Conseguentemente, i costi relativi all’esternalizzazione di attività riconducibili alla ricerca e sviluppo o che abbiano ad esito un risultato o prodotto innovativo rilevano ai fini della quantificazione del credito d’imposta spettante.

L’Agenzia delle Entrate ha affrontato anche taluni aspetti concernenti i costi per l’attività di ricerca svolta da “per-sonale non altamente qualificato”, in particolare eviden-ziando che i costi sostenuti per attività di ricerca svolta da tale personale e al contempo dotato di specifiche compe-tenze tecniche possono essere ricondotti alle spese rela-tive a competenze tecniche e privarela-tive industriali (che riguardano un’invenzione industriale o biotecnologica, una topografia di prodotto a semiconduttori, ecc.) ovvero alle spese per attività di ricerca commissionata (a patto che ricorrano i presupposti per qualificare in tal modo la pre-stazione svolta dal personale).

Per ciò che concerne, invece, le spese relative al perso-nale, di tipo altamente qualificato, che viene assunto con contratto di apprendistato, la Risoluzione ha precisato che esse rilevano nell’ambito della quantificazione del credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo. A tal fine risulta, tuttavia, necessario che il personale impiegato con detta tipologia contrattuale possa apportare le proprie cono-scenze e competenze tecnico - scientifiche all’attività di ricerca e sviluppo.

L’AGENZIA DELLEENTRATE FORNISCE INDICAZIONI PER LA CORRETTA DETERMINAZIONE DELLAGEVOLAZIONE Agenzia delle Entrate, Risoluzione 9 ottobre 2017, n. 121/E L’Agenzia delle Entrate, nella Ris. 9 ottobre 2017, n. 121/E (la

“Risoluzione”), ha fornito istruzioni in merito alla corretta determinazione del credito di imposta per investimenti in attività di ricerca e sviluppo di cui all’art. 3, D.L. n. 145 del 2013, nell’ipotesi in cui il soggetto che intenda fruirne modifi-chi l’ambito temporale dell’esercizio sociale, rendendolo non più coincidente con l’anno solare.

Nel caso ipotizzato dalla Risoluzione una società, nel corso del 2015, ha anticipato la chiusura dell’esercizio, dal 31 dicembre al 31 agosto, così determinando, nello stesso anno, due distinti periodi di imposta: 1° gennaio 2015 - 31 agosto 2015 e 1° settembre 2015 - 31 agosto 2016.

L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che ai sensi dell’art. 3 del D.

L. n. 145 del 2013 il credito di imposta in questione spetta per gli investimenti effettuati a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2015 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020 ed è commisurato alle spese ammissibili sostenute in eccedenza rispetto alla media delle spese ammis-sibili sostenute nei tre periodi di imposta precedenti a quello in corso al 31 dicembre 2015.

Pertanto, nel caso ipotizzato, il primo periodo di imposta di applicazione dell’agevolazione risulta essere quello compreso fra il 1° gennaio 2015 e il 31 agosto 2015. Assumono, cioè, rilevanza anche i periodi di imposta che vengano a determi-narsi a seguito del mutamento della cadenza dell’esercizio sociale.

La media degli investimenti pregressi va, conseguentemente, determinata avendo riguardo ai periodi di imposta (all’epoca, coincidenti con l’anno solare) 1° gennaio-31 dicembre 2012, 2013 e 2014.

Ed, invero,“il triennio di riferimento per il calcolo della media degli investimenti pregressi è costituito dai tre periodi di imposta che precedono il primo periodo di applicazione del-l’agevolazione”. Quindi, ha osservato l’Agenzia delle Entrate, ai fini del calcolo del credito di imposta spettante, nel caso ipotizzato i costi ammissibili sostenuti nel primo periodo age-volato (1° gennaio 2015-31 agosto 2015) vanno confrontati con la media dei costi agevolabili sostenuti nei periodi 2012, 2013 e 2014 che, per omogeneità con la durata del periodo rilevante ai fini del calcolo del beneficio, va ragguagliata a otto mesi.

Nella Risoluzione viene, peraltro, precisato che l’incentivo compete per gli investimenti effettuati a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2015 e fino a quello in corso al 31 dicembre 2020.

Dunque, nel caso ipotizzato, in cui il primo periodo agevolato è rappresentato dal periodo 1° gennaio 2015-31 agosto 2015, l’applicazione letterale della norma comporterebbe la possibi-lità di accedere al beneficio dal 1° gennaio 2015 al 31 agosto 2021, cioè per sette periodi di imposta, atteso che il periodo 1°

settembre 2020 - 31 agosto 2021, in quanto“in corso” alla data del 31 dicembre 2020, rientrerebbe fra quelli agevolabili.

L’arco temporale di applicazione dell’agevolazione disposto dalla norma corrisponde a complessivi sei periodi di imposta (ovvero a 72 mesi). Pertanto, ha osservato la Risoluzione, al fine di garantire la corretta applicazione dell’agevolazione ed evitare anche ingiustificate disparità di trattamento nei con-fronti delle altre imprese potenzialmente beneficiarie che si trovano a poter fruire dell’incentivo per sei periodi di imposta, nella fattispecie ipotizzata, qualora si intendesse accedere

all’agevolazione relativamente al periodo 1° settembre 2020 -31 agosto 2021 (i.e., periodo in corso al -31 dicembre 2020), il credito di imposta andrà determinato avendo riguardo agli investimenti effettuati nei primi quattro mesi (1° settembre 2020-31 dicembre 2020), senza che assumano rilievo quelli realizzati nel 2021. Anche in questo caso, nel rispetto del principio di omogeneità dei valori messi a confronto, occorrerà procedere al ragguaglio della media storica di riferimento.

IMPOSTE DIRETTE

ACCERTAMENTOIRAP:INAPPLICABILITÀ DEL RADDOPPIO DEI TERMINI

Cassazione Civile, Sez. VI, 25 agosto 2017, n. 20435, ord. -Pres. S. Schirò - Rel. E. Manzon

La Corte di cassazione, con ord. n. 20435 del 25 agosto 2017, ha confermato l’orientamento già espresso in precedenza (tra le altre, Cassazione sent. 4775/2016) circa la non applicabilità all’IRAP della disciplina del raddoppio dei termini di decadenza per la notifica degli accertamenti (nella versione vigente ratione temporis ovvero fino al periodo di imposta 2015) dal momento che si tratta di un’imposta in relazione alla quale non sono disposte sanzioni penali.

Nel caso oggetto della sentenza l’Ufficio notificava ad un contribuente un avviso di accertamento ai fini IRAP, IRES, IRPEF ed IVA per l’anno d’imposta 2004. Il contribuente impu-gnava l’atto impositivo dinanzi la Commissione Tributaria Pro-vinciale, lamentando la decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla potestà impositiva. I Giudici di Primo Grado accoglievano il ricorso. L’Ufficio ricorreva dinanzi i Giudici di Appello che riformavano la sentenza di Prime Cure, osser-vando, in particolare, come la decisione dei Primi Giudici doveva considerarsi errata sul punto della decadenza dell’ente impositore dalla potestà di emettere l’atto impositivo impu-gnato per decorso del termine di legge; ad avviso dei Giudici di Secondo Grado, infatti, nel caso di specie non era spirato il termine decadenziale per l’esercizio della potestà impositiva da parte dell’Amministrazione finanziaria. Il contribuente ricor-reva per la Cassazione della sentenza.

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso del contribuente per ciò che concerne l’accertamento ai fini IRAP. I Supremi Giudici hanno preliminarmente ribadito che, in tema di accertamento tributario, i termini ordinari di accertamento - nella versione applicabile ratione temporis - sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presen-tazione di denuncia penale per uno dei reati tributari disciplinati dal D.Lgs. n. 74/2000. Tuttavia, hanno evidenziato come l’IRAP non è un’imposta per la quale siano disciplinate sanzioni penali; dunque, è evidente come, in relazione alla medesima, non possa operare la disciplina del raddoppio dei termini di accertamento, applicabile ratione temporis. Da ciò conse-guendo che la pretesa IRAP contenuta in accertamenti emessi nel termine“raddoppiato” è da considerarsi illegittima.

La sentenza ha, inoltre, affrontato anche l’aspetto delle modi-fiche alla disciplina del raddoppio dei termini di accertamento intervenute, in prima battuta, con il D.Lgs. n. 128/2015, che ha subordinato il raddoppio dei termini alla presentazione della denuncia entro i termini di decadenza ordinaria, e, successi-vamente, con la legge di Stabilità 2016, che ha definitivamente abrogato la disciplina de qua prevedendo un nuovo regime transitorio. In particolare, la S.C. ha ribadito che le previsioni di

cui al D.Lgs. n. 128/2015 trovano applicazione agli atti impo-sitivi notificati successivamente all’entrata in vigore del sud-detto decreto (vale a dire il 2 settembre 2015) e che la legge di Stabilità 2016, nell’abrogare il regime, ha previsto espressa-mente che per il passato trovasse applicazione il raddoppio dei termini esclusivamente nel caso in cui la notizia di reato fosse stata inoltrata entro la scadenza ordinaria del termine di deca-denza. Le norme non sono tra loro in conflitto: ed, invero, la legge di Stabilità ha regolato le sole fattispecie non ricomprese nell’ambito applicativo del precedente regime transitorio, non oggetto di abrogazione, di cui al D.Lgs. n. 128/2015.

IMPOSTE INDIRETTE

LA DOMANDA ALLA RESTITUZIONE DELL’IVA

INDEBITAMENTE VERSATA NON PUÒ ESSERE PRESENTATA DOPO DUE ANNI DALLA LIQUIDAZIONE

Cassazione Civile, Sez. V, 15 settembre 2017, n. 21414, ord.

- Pres. S. Bielli - Rel. L. Luciotti

La Corte di cassazione, nell’ord. 15 settembre 2017, n. 21414 è tornata ad occuparsi dell’annosa questione dei termini pre-scritti per la richiesta di rimborso IVA da parte del contribuente, affermando che il termine biennale per la suddetta richiesta di rimborso decorre quando non vi è un effettivo versamento -dalla data in cui è stata effettuata la compensazione in sede di liquidazione dell’IVA, dal momento che siffatta operazione rappresenta una modalità di estinzione, e, quindi, di paga-mento dell’imposta.

Il caso oggetto della ordinanza trae origine dal diniego opposto dall’Agenzia delle Entrate ad una istanza di rimborso IVA presentato da una società con riferimento all’IVA erronea-mente versata con riguardo a canoni di locazione di un mac-chinario industriale utilizzato fuori dalla Comunità Europea (dunque, fuori dal campo di applicazione dell’imposta ex art.

7, comma 2, lett. d), d.P.R. IVA). La società, non potendo emettere una nota di variazione in diminuzione avendo supe-rato il termine annuale previsto per l’emissione della stessa, aveva tempestivamente avanzato la richiesta di rimborso ai sensi dell’art. 21 del D.Lgs. n. 546/1992 ovvero entro i due anni dalla presentazione della dichiarazione, ritenendo che il ter-mine biennale“comincia a decorrere dal momento in cui le somme entrano nella disponibilità dello Stato” e che esso andava individuato in quello di presentazione della dichiara-zione. Il contribuente ricorreva avverso il diniego di rimborso dinanzi la Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva il ricorso. Tale decisione veniva confermata in Appello. L’Ufficio ricorreva per la Cassazione della sentenza.

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso dell’Ufficio. I Giudici di legittimità hanno preliminarmente osservato che, in via generale, il dies a quo per il computo dei due anni entro i quali si può esercitare il diritto di ottenere dall ’Amministra-zione finanziaria il rimborso di quanto corrisposto indebita-mente (ex art. 21, comma 2, ultima parte, D.Lgs. n. 546/

1992) decorre quando non vi è un effettivo versamento -dal giorno in cui è stata effettuata la compensazione, in sede di liquidazione dell’IVA, perché tale operazione costituisce modalità di estinzione, e, quindi, di pagamento dell’imposta.

I Supremi Giudici hanno, altresì, evidenziato che il rinvio del decorso del termine a un momento successivo a quello della liquidazione periodica (mensile o trimestrale) dell’IVA, ovvero al momento della presentazione della dichiarazione annuale, è

consentito solo nel caso in cui quel diritto in precedenza, ovvero al momento della liquidazione, era - benché sussi-stente - incompleto o inefficace e la dichiarazione annuale

“l’elemento finale di una fattispecie a formazione progressiva soltanto al termine della quale il diritto potrebbe essere azio-nato” (così, ancorché in fattispecie diversa, in Cass. n. 813 del 2005).

Dunque, essendo l’operazione “fuori campo” IVA, la data di presentazione della dichiarazione annuale è del tutto indiffe-rente, anche se - verosimilmente - nella dichiarazione IVA presentata dal contribuente erano esposti l’imponibile dell’o-perazione e l’importo IVA corrispondente da versare. E questo in quanto il diritto alla restituzione dell’IVA erroneamente applicata a certe operazioni esenti o non imponibili è pieno, efficace e, quindi, esercitabile. Detto termine, hanno prose-guito i Supremi Giudici, non potrebbe decorrere - come sostiene il contribuente - dalla data del termine ultimo previsto per la dichiarazione ai fini della detrazione, poiché detrazione e rimborso d’imposta sono manifestazioni alternative del mede-simo diritto, ancorché non subordinate ai medesimi presuppo-sti, sicché il decorso del termine previsto per avvalersi della facoltà di rimborso non potrebbe essere di certo collegato ad una modalità alternativa di esercizio del medesimo interesse, modalità che opera separatamente ed in ragione di differenti presupposti.

OPERAZIONI STRAORDINARIE

CESSIONE DI AZIENDA:ILFISCO PUÒ GIUDICARE LOPERAZIONE NEL SUO COMPLESSO

Cassazione Civile, Sez. trib., 20 settembre 2017, n. 21767, ord. - Pres. E. L. Bruschetta - Rel. G. Fuochi Tinarelli La Corte di cassazione, con l’ord. 20 settembre 2017, n. 21767 si è pronunciata nuovamente sul tema della riqualificazione di una operazione di cessione di beni mobili quale cessione di ramo di azienda, affermando che in presenza di una pluralità di operazioni di vendita risulta determinante, ai fini della configu-razione della cessione di azienda, valutare il legame intercor-rente fra il singolo componente aziendale oggetto di cessione e l’azienda. Ed, infatti, solamente in assenza di questo legame il bene può essere considerato autonomamente. Diversa-mente, il negozio posto in essere andrà valutato in modo unitario e, quindi, quale cessione di azienda, a nulla rilevando che i beni ceduti siano stati esplicitamente o implicitamente previsti negli atti stipulati e che l’operazione commerciale realizzata sia genuina.

Nel caso oggetto dell’ordinanza l’Agenzia delle Entrate emet-teva un avviso di accertamento nei confronti di una società a mezzo del quale recuperava l’IVA indebitamente detratta in conseguenza della riqualificazione di una cessione di beni su acquisti di beni mobili. In particolare, la cessionaria acquistava dalla cedente due rami d’azienda, costituiti da due esercizi

commerciali, con esclusione delle merci in rimanenza che venivano acquistate tutte separatamente, e successivamente dalla stessa cessionaria, in parte direttamente dalla cedente ed in parte attraverso l’interposizione di altre società parteci-pate. L’Ufficio evidenziava che, ad esito della operazione, i due rami di azienda, ivi comprese le merci rimanenti, erano transi-tati da una società all’altra ancorché i distinti passaggi interni fossero stati realizzati con atti contrattuali separati. In ragione di ciò, l’Ufficio riqualificava l’operazione di cessione di beni mobili alla stregua di un’unica operazione di cessione di azienda. La cessionaria impugnava l’atto impositivo dinanzi la competente autorità. Entrambi i Giudici di merito ritenevano fondate le ragioni del contribuente. In particolare, i Giudici di Appello, nel valutare la vicenda, consideravano il dato stretta-mente contrattuale ed, interpretando la volontà delle parti, ritenevano che per i diversi rapporti trovasse applicazione un diversificato regime impositivo. L’Ufficio ricorreva così in Cas-sazione, lamentando che il complesso dei rapporti avrebbe dovuto essere soggetto ad una valutazione unitaria.

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso. I Supremi Giudici hanno, preliminarmente, osservato che, ai fini tributari, l’opera di qualificazione non si esaurisce necessariamente nel solo esame del dato contrattuale ma investe più specificamente il fenomeno economico che il rapporto mira a realizzare, così da valutare l’effettiva consistenza dell’operazione e, in caso di pluralità di operazioni, se esse abbiano una medesima

“sostanza economica” anche in presenza di differente

“sostanza giuridica”.

Ciò posto, i Giudici di legittimità hanno evidenziato come nella vicenda concreta la motivazione del Giudici di Appello si era soffermata sulla clausola pattizia di esclusione delle giacenze, sull’accordo circa il ritiro dell’invenduto e l’emissione delle fatture nonché sulla possibilità di eseguire una cessione d’azienda anche senza le rimanenze.Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale non aveva considerato che le rimanenze, escluse originariamente dal contratto di cessione d’azienda, erano state tutte cedute in parte con rapporto diretto tra acquirente e venditore, ed in parte attraverso l’interposizione di altra società partecipata e controllata dal cessionario. Ad avviso della S.C., essendo, quindi, indubbio il legame funzio-nale tra i diversi atti e l’unicità della intera operazione, sarebbe stato necessario dare maggior rilievo alla causa reale dei comportamenti delle parti e degli interessi effettivamente perseguiti piuttosto che limitarsi alla volontà dichiarata.

Secondo la Corte di cassazione, dunque, nella nozione di cessione d’azienda ai fini tributari assume rilevanza centrale l’elemento funzionale ossia il legame fra il singolo elemento aziendale e l’impresa, sicché solo in assenza di questo legame il bene potrà essere considerato autonomamente, mentre in caso contrario l’imposizione non potrà essere frazionata e l’intero negozio dovrà essere considerato come cessione d’azienda, indipendentemente dal fatto che il bene sia stato esplicitamente o implicitamente previsto nel contratto di ces-sione e delle genuinità dell’operazione commerciale (non essendo prevista né richiesta una finalità elusiva).

Osservatorio europeo

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