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Abitudine e memoria costituiscono i due poli di una successione continua di fenomeni mnemonici, la cui unità è da porre nel costante rapporto col tempo, che nel caso dell’abitudine è un’esperienza ante- riore acquisita e vissuta come presente, mentre per ciò che riguarda la memoria, il riferimento è all’anteriorità in quanto tale dell’acquisi- zione.

Ci si propone quindi di riconsiderare la stretta connessione e il re- ciproco tradursi di memoria, abitudine e durata, la correlazione tra psicologia della memoria e teoria del tempo, in seno a quell’insieme di riflessioni che si è soliti indicare col nome di spiritualismo francese. Nel Souvenir de Bergson, Gilson doveva sottolineare che temi propri dello spiritualismo di un Ravaisson, di un Lachelier, di un Boutroux, quali l’impossibilità del meccanicismo assoluto, la presenza di un ir- riducibile elemento di contingenza e la restaurazione delle nozioni tradizionali di finalità e di libertà, si ritroveranno ancora nella filoso- fia bergsoniana.

Matière et mémoire riconduce il rapporto anima-corpo al problema della memoria, Bergson e Ravaisson sarebbero dunque i continuatori dello spiritualismo ‘funzionalista’ del Biran. E ancora, a conclusione di questo testo, è posta la differenza, di natura, e non solo di grado, tra ricordo e percezione. E si rintracciano pure i due livelli di me- moria, l’oscillare tra le potenzialità della ‘memoria pura’ e le esigenze di quella ‘di azione’: il nostro corpo è solo uno strumento d’azione. Lo slancio vitale difatti non si risolve nell’evoluzione biologica e alla memoria-abitudine s’aggiunge la memoria-ricordo.

Ma invero, per Bergson, è la nozione di durata ad essere la più pri- mitiva e centrale del suo pensiero. Quel sentimento della durata, che c’è solo in presenza di una legge interiore di sviluppo, è la nostra per- cezione del movimento, e spiega come passiamo da questa realtà alla rappresentazione del tempo come un «milieu idéal» in cui si dispiega- no tutte le successioni. Ma il termine durata si trova già in Ravaisson, ed è la condizione della coscienza nell’effort, come lo concepiva Biran.

1. Nella temperie ideale che dal discorso sull’abitudine (Maine de Biran, Ravaisson1) si conclude nelle teorie della memoria (Royer-

Collard, Garnier, Renan, Gratacap, Bergson), la filosofia d’oltralpe oppone il vitalismo al materialismo. Si pone dunque la centralità del discorso sull’abitudine: la voce ‘habitude’ del Dictionnaire des sciences philosophiques del Franck, vera e propria summa della cultura eclet- tica, negando una continuità fra istinto e abitudine, ne fa la condi- zione di qualsivoglia progresso umano; e ancora, per Ravaisson il meccanicismo (le regolarità naturali) è una natura naturata, opera e rivelazione successiva della natura naturante, di conseguenza l’analisi dell’abitudine comporta lo studio dei processi attraverso cui la libertà si fa natura, e la natura libertà: contrarre un’abitudine implica ad un tempo l’automatismo (meccanicismo) e la facilitazione dell’atto. In effetti Ravaisson ne fa un termine medio mobile, e su di essa fonda la legge di continuità fra spirito e materia. Ma mette conto notare in par- ticolare, per il rilievo che l’Ottica fisiologica assumerà, come lo stesso Helmholtz affermasse che proprio l’esercizio e l’abitudine modificano le nostre percezioni, e di conseguenza come la maggior parte delle nostre nozioni di spazio siano il risultato dell’esperienza e dell’abitu- dine2.

1 P.  Janet, G. Séailles, Histoire de la philosophie. Les problèmes et les écoles.

Supplément, Paris, Delagrave 1929, p. 72, collegano al Ravaisson il Renouvier della Psychologie rationnelle che, stante l’opposizione fra recettività e spontaneità, enun- cia le leggi dell’abitudine, riassumibili nella formulazione: «l’abitudine fortifica la collocazione dei fenomeni nell’essere in cui la consapevolezza di questi fenomeni è data, nello stesso tempo indebolisce persino questa consapevolezza in quanto attuale e distinta; ma questa stessa consapevolezza si rafforza se si rivolge con ponderatezza e perseveranza a costituirsi e a conservarsi». Si veda anche P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil 2000. A. Contini, Estetica della biologia, Milano, Mi- mesis 2012, pp. 10 e 79, sostiene che si organizza in Francia a partire dalla Scuola di Montpellier «un vitalismo intessuto d’empirismo» volto a «formulare ipotesi espli- cative originali, evitando di ridurre la complessa attività dell’organismo al funziona- mento di una macchina». Claude Bernard, in particolare, si servirà «esplicitamente di categorie estetiche per pensare processi e proprietà del vivente non rappresentabili in altri modi, ricavando dalla sfera dell’arte non solo importanti esemplificazioni, bensì un repertorio teorico destinato ad affiancare tesi di matrice scientifico-sperimentale».

2 E ancora J. Chevalier (L’habitude. Essai de métaphysique scientifique, Paris, Boi- vin 1929), ne parlerà come di un «fatto ambiguo», e, a quanti, da Aristotele a Ravais- son, hanno pensato l’abitudine come una proprietà specifica dei soli esseri viventi,

Oltre l’abitudine, oltre il meccanico e il quantitativo, c’è l’elemento qualitativo, la spontaneità, «il libero corso delle volontà». La contin- genza è dunque l’intervento della libertà volto a modificare abitudini, siano esse buone o cattive. Per Boutroux le leggi della natura sono ri- ducibili ad abitudini mentali che generano la fiducia nella ripetitività dei fenomeni. Difatti l’abitudine è propria del mondo vivente a cui presiede la necessità sotto forma di legge dinamica, di cambiamento radicale, di fronte al mondo inorganico e alla sua «identità essenzia- le»; donde la difficoltà di misurare l’abitudine, che «non è un fatto, ma una disposizione a realizzare certi fatti»3. Analogamente l’intuizione

bergsoniana, lungi dall’essere una contemplazione passiva, implica l’effort, e nelle Deux Sources de la morale et de la religion il «genio mi- stico», l’eroe, è una concentrazione di volontà capaci di provocare una trasformazione morale, di dissolvere la società chiusa, il conformismo sociale. È quindi possibile, in virtù del comporsi dei concetti di me- moria, abitudine, durata, rintracciare una concatenazioni di pensieri che a partire da Royer-Collard arriva sino a Bergson.

Nella ricostruzione storica di questi nessi assume allora un ruolo peculiare una figura certo minore, e del tutto dimenticata, quella di Antoine Gratacap, che consente di dimostrare come annotazioni di Collard siano rintracciabili sino in Bergson4.

La poliedricità del discorso sulla memoria salta subito agli occhi an- che solo scorrendo le annate di quel primo ventennio della «Revue oppone Comte che sostiene che persino negli «apparati inorganici» esisterebbe una facoltà suscettibile di contrarre vere e proprie abitudini; la legge dell’abitudine si rial- laccerebbe quindi al principio d’inerzia. E Léon Dumont sulla «Revue philosophique de la France et de l’étranger» (1, 1876, pp. 321-66) aveva parlato dell’abitudine non come di una seconda natura, ma come la natura stessa degli esseri che non sarebbero altro che il risultato di abitudini.

3 É. Boutroux, De la contingence des lois de la nature, Paris, Alcan 18983, p. 95. 4 Per una storia delle teorie della memoria vd. Tracce nella mente. Teorie della

memoria da Platone ai moderni, a cura di M.M. Sassi, Pisa, Edizioni della Normale 2007. Sulla distinzione tra antichi e moderni, a proposito della percezione e della me- moria, nella conferenza del 22 aprile 1904 («Annales bergsoniennes», 2, 2004, pp. 76 sg.) Bergson afferma che, «nei tempi moderni, abbiamo preso l’abitudine di collocare dalla parte dell’intelligenza tutto ciò che è cosciente. La coscienza per noi è qualcosa d’essenziale che basta a definire un essere, un modo d’esistenza», mentre per Aristo- tele, se «la percezione e la memoria sono cose del tutto estranee all’intelligenza, è che queste facoltà si trovano nell’animo degli animali che non hanno intelligenza».

Philosophique»: Ribot e Richet sono intenti allo studio della memoria organica (il nervo che continua a vibrare cessato lo stimolo); Spencer esamina la memoria della specie, come ereditarietà dei caratteri ac- quisiti; Tarde, la memoria sociale, come ripetizione di pratiche a fon- damento della vita associata; Delbœuf, Dugas e Bergson la reputa- no la più importante funzione psichica, sviscerando il rapporto fra psicologia della memoria e teoria della conoscenza. Così Delbœuf in una serie di articoli su Le sommeil et les rêves discorre di teorie del- la memoria e della certezza, e Bergson si volge a una revisione della psicologia associazionistica inglese. Invero ancora negli anni Ottan- ta, in Taine e in Guyau, il discorso sulla memoria coinvolge più il dominio dell’analogia e della metafora che non la ricerca sperimen- tale vera e propria, come sarà poi per gli studi sulla patologia della memoria di Pierre Janet, accolti sulla «Revue Philosophique» solo a partire dal decennio successivo. E nonostante si rivendichi, come è il caso di Delbœuf, la dinamica temporale come propria della memoria, si resta ancora per lo più prigionieri di una logica spazializzante: il caso della memoria-fonografo di Guyau, che ripropone «il paradig- ma della psicofisica, vibrazione-sensazione»5. Da questa congerie di

articoli si possono dunque desumere due tendenze: l’una, che fa capo a Taine, a Ribot e a Guyau, riconducibile a un modello spaziale di memoria, la memoria-archivio, in cui il tempo coincide con l’ordine nel quale si sono impresse le tracce dell’esperienza; l’altra, un model- lo in cui la temporalità costituisce l’attributo imprescindibile dello psichico, coinvolge, secondo modalità differenti, Delbœuf, Richet e Bergson. Ma l’originalità del concetto bergsoniano di durata, un dato immediato, anche se tiene conto di osservazioni e materiali largamen- te dibattuti, si coglie subito nel confronto con Guyau, per il quale il sentimento della durata si evince invece dalla successione degli stati di coscienza; di contro alle teorie della localizzazione, secondo cui il cervello è un deposito di ricordi, e alla riduzione dello psicologico al cerebrale, Bergson oppone la dinamica dell’evocazione e l’irriducibi- lità del ‘ricordo puro’ all’immaginazione.

2. A titolo meramente didascalico, a cominciamento di questi iti- nerari possiamo porre quelle Recherches sur la nature et les lois de l’imagination del Bonstetten, allievo del Bonnet, poligrafo mediocre, 5 M. Meletti Bertolini, Il pensiero e la memoria, Milano, Franco Angeli 1991, p. 170

se ancora il Biran – che vi apporrà alcuni marginalia – scriverà: «tutto ciò che dice riguardo alla volontà mi sembra contraddittorio»6. Ora,

proprio codesta assenza di originalità fa delle Recherches uno stru- mento in qualche modo privilegiato per fare il punto della questione in quel primo decennio dell’Ottocento. Di contro all’Essai analytique sur les facultés de l’âme del Bonnet e agli Éléments de physiologie dello Haller, Bonstetten denunciava l’indistinzione in cui erano accomu- nate immaginazione e memoria, proponendosi di redigere una teoria dell’immaginazione, facoltà che supera di molto i dati della sensibilità e si origina nell’azione reciproca della sensibilità e delle idee, per l’a- zione di un ‘sentimento motore’ sull’animo. Se ne evince che la me- moria dell’immaginazione dipende dalla riproduzione di uno specifi- co ‘sentimento motore’, che stabilisca un ‘rapporto di preferenza’ con una particolare idea. La successione delle idee si pone quindi in un tempo spazializzato. E se aveva deplorato che quanti fra i moderni, scrivendo di psicologia, hanno isolato i fatti, mancando di osservar- li nella loro composizione, Bonstetten attribuisce il «sentimento del tempo» all’immaginazione, che è seriale, successione di idee, di contro al continuo, che è attributo dell’intelligenza. La pluralità di memorie, la memoria delle idee e dei sentimenti, è riconducibile ai differenti organi corporei, e quindi meramente automatica, ascrivibile di fatto all’ambito fisiologico. Il discorso sulla memoria si fa allora discorso sull’abitudine, poiché, se vi è una facoltà deputata a ripetere e a conser- vare le idee, ve ne è una seconda deputata alle azioni, insita in qualche sorta nei muscoli, di qui l’incessante necessità di «predisporre abitudi- ni». Alla confusione di immaginazione e memoria Bonstetten oppone la convinzione che quest’ultima sia la facoltà di conservare l’ordine di associazione delle idee suggerito dalla sensibilità. Un’istanza etica presiede all’esortazione a sottoporre a controllo il procedere della me- moria, quel conservare le idee per il tramite delle parole. Di fronte a codesta legge costitutiva della memoria, sarebbe opportuno limitare l’elemento automatico, esercitando «meccanicamente la memoria» solo in presenza di «idee ben distinte, ben meditate». È necessario quindi sottoporla a precise regole, specie in presenza della ‘memoria muscolare’, in cui l’irritazione della sensibilità diminuisce per l’azione dell’abitudine – è la condizione di «tutti i mestieri ripetitivi» –, altri- menti il pensiero, abbandonato a pericolose chimere, diviene fonte di disordine sociale. Anche Biran, in alcuni marginalia a un Mémoire sur

les méthodes, denunciava la confusione, la mancata individuazione del limite fra immaginazione e memoria, addebitandola all’assenza di distinzione fra l’associazione attiva e quella passiva delle idee7. E di-

stingueva, nell’introduzione all’Influence de l’habitude sur la faculté de penser, fra memoria e immaginazione: quest’ultima sarebbe la facoltà di riprodurre passivamente un’idea, con un debole ausilio della remi- niscenza; mentre la memoria sarebbe la facoltà di ricordare accom- pagnata dalla coscienza di questo effort, cioè da un vivo sentimento della reminiscenza, ed è dunque una facoltà attiva. Le ‘abitudini attive’ consistono nella ripetizione delle operazioni fondate sull’uso di segni volontari e artificiali a fondamento della memoria; dalle differenti funzioni dei segni si originano le tre specie di memoria: la meccanica, la sensitiva e la rappresentativa, che è a base dell’intelligenza8.

Se questi sono i termini della questione nel primo decennio del se- colo, è subito evidente il ruolo giocato dall’abitudine, che nelle filoso- fie empiriste è preposta al passaggio dalla mera recettività alla capacità di organizzare i dati della sensibilità; facoltà intrinsecamente duplice, poiché soggiace ad un tempo sotto il dominio del determinismo e sot- to quello della libertà, a seconda che si ponga l’accento sulla costan- za e la ripetizione oppure sull’apprendimento, il perfezionamento, la perdita. La critica dell’innatismo, la riduzione sensista dell’intellettua- le al sensibile e la critica humiana della causalità pongono, al centro del dibattito filosofico, l’abitudine, che assurgerà poi col Ravaisson a una vera e propria metafisica. Questi introdurrà difatti il concetto di continuità: per una successione insensibile di gradi si va dallo spirito alla natura, in ciò risiede l’unità dell’Essere9.

7 Ibid., pp. 141-61.

8 Nel medesimo arco di tempo Dominique Garat (1749-1833), epigono di Con- dillac, e docente all’istituenda École Normale, nel 1795 sosteneva che la memoria e l’immaginazione sono differenti gradi di una medesima facoltà. Tracy affermava, nel Projet d’éléments d’idéologie (1801), che la facoltà di pensare o di avere percezioni rac- chiude quattro facoltà elementari: sensibilità, memoria, giudizio e volontà; e invero la memoria sarebbe una specie di seconda parte della sensibilità in generale. Stabiliva anche una sorta di distinzione tra memoria e ricordo propriamente detto, che è un atto del giudizio. In Des signes (1800), Degérendo rilevava come le scienze sperimen- tali poggiassero assai più sulla memoria, quelle ipotetiche sull’immaginazione e quel- le astratte sull’attenzione, mentre la morale e la filosofia si basassero sulla riflessione. 9 Cfr. in proposito la lettera di Quinet a Ravaisson del 18 marzo 1830, Lettres de Ra-

Di contro, in Biran il dualismo è ancora circoscrivibile al piano sog- gettivo10. Ed era stato Biran, avverso al ‘monismo ontologico’ degli

idéologues, a dar conto del dualismo metafisico della soggettività, poi- ché nell’abitudine si compongono attivo e passivo. La consapevolezza di un sentimento esistenziale dolorosamente contraddittorio, oscil- lante fra attività e passività, costituisce difatti l’antropologia birania- na. Di conseguenza l’effort non si confonde immediatamente con la sensibilità ma esiste in virtù di una sua specifica force motrice, che traduce il sentimento della libertà in evidenza concettuale, e l’io allo stato di veglia deve di continuo fuggire l’annichilimento rappresen- tato dall’abitudine, intesa come un «processo di captazione o di per- dizione di sé», come il «fondo di passività insormontabile a qualsiasi nostra attività»: è questa la concezione volontaristica e dinamistica del reale specificamente biraniana11.

10 G. Paoletti (Durkheim et la philosophie. Représentation, réalité et lien social, Pa- ris, Garnier 2012, pp. 338-44 passim) rintraccia il cominciamento della storia mo- derna della locuzione homo duplex in ambiente medico, con esplicito riferimento a quelle Praelectiones academicae de morbis nervorum che si rintracciano anche nella biblioteca privata di Biran, che opera una deontologizzazione del dualismo della na- tura umana; il Boerhaave si separa in effetti dalla tradizione medica cartesiana, poi- ché «vede il tratto tipico dell’essere umano non tanto nella separazione di pensiero e corpo quanto nella loro interazione». Questa nozione tornerà poi nelle discussioni sul vitalismo e ancora in psicologia sperimentale. Invero «l’espressione homo duplex sembra all’epoca ampiamente lessicalizzata», e «nel momento in cui Durkheim ne fa l’analisi, è realmente un fenomeno complesso: contemporaneamente una nozione filosofica specializzata, strettamente legata alla storia dello spiritualismo e del kanti- smo in Francia, e l’espressione di una rappresentazione collettiva vissuta a livello del senso comune».

11 A. Devarieux, Maine de Biran. L’individualité persévérante, Grenoble, Millon 2004, p. 19. Biran non revocherà mai in dubbio la condanna condillachiana dell’inna- tismo e farà proprio il metodo analitico e l’importanza dei dati fisiologici che ricava da Cabanis, in effetti «se si richiama alla psicologia e al senso interno, è meno contro la fisiologia che contro la riduzione materialistica che intende fondarsi su di essa» allo scopo di costituire «una scienza dell’uomo che abbia un significato metafisico», pro- spettiva di fatto imputabile alla mancata conoscenza del criticismo kantiano. E se la distinzione di sensazione e attenzione non sottrae Laromiguière all’Ideologia, di con- tro dalla seconda versione di Sur l’habitude la frattura è consumata, passando Biran dalla méthode analytique alla méthode réflexive, ciò che lo separa «dagli ideologi non è più il loro presunto materialismo, ma il riconoscimento, con le due vite, di un nuovo

Nella duplice esperienza interna del corpo Biran ritrova la distin- zione fra attività e passività: da un lato il corpo coincide col potere volontario dell’io, e dall’altro l’io si sente asservito. Ravaisson opererà un allargamento dello spiritualismo di Biran in una filosofia della re- ligione, in una filosofia della natura e in un’estetica; a cominciamento è posto un fenomeno ambiguo, ad un tempo fisiologico e psicologico, segnato dalla passività e dall’attività, ma non si tratterà qui «dell’in- fluenza dell’abitudine, dei suoi effetti, ma della sua natura e del suo significato metafisico»12. Invero Ravaisson, rimproverando a Cousin

di restare confinato in un fenomenismo, poiché la psicologia eclettica era un formalismo, gli oppone Biran che aveva stabilito che «la meta- fisica non potesse costruirsi su un insieme di forme, ma che dovesse fondarsi su un’energia d’individualizzazione»13. E nella distinzione

fra i due modelli idealtipici, il platonismo e l’aristotelismo, Cousin è riconducibile a un idealismo razionalista, mentre Ravaisson a un modello fondato sull’azione, sull’effort, sull’individualità.

Si scorra a titolo meramente esemplificativo quell’Histoire de la phi- losophie di Janet e Séailles, strumento didattico che ebbe larga cir- colazione, in particolare i capitoli della Psicologia sulla memoria e sull’abitudine: richiamata l’attenzione sulle «numerose analogie» fra le due facoltà, da subito si nota come «l’abitudine, dapprima studiata dai moralisti nei suoi rapporti con la volontà, è diventata oggigiorno dualismo, là dove Cabanis affermava l’unità della vita umana sotto il duplice punto di vista fisico e morale» (Lefranc, La philosophie en France au XIXe siècle, pp. 27-9

passim). François Azouvi (Science de l’homme et division des sciences selon Maine de Biran, «Revue de synthèse», 1-2, janv.-juin 1994, p. 65) sostiene che «la presenza della fisiologia nella scienza dell’uomo dimostra come Biran si collochi nel prolungamento della rivoluzione compiuta da Stahl; il suo dualismo non è di tipo cartesiano (fisica/ psicologia), ma di tipo vitalistico».

12 Lefranc, La philosophie en France, p. 67.

13 A. Bellantone, Ravaisson: le «champ abandonné de la métaphysique», «Ca- hiers philosophiques», 129, 2012, p.  16. Roger Bruyeron («Jusque dans le cristal même». Remarques sur un passage du texte de Ravaisson De l’habitude, in Études sur Félix Ravaisson, sous la direction de J.-M. Le Lannou, Paris, Éditions Kimé 1999, pp. 40-1) afferma che Ravaisson si differenzia da Biran, dapprima, perché «accorda all’abitudine una capacità di produrre senso che va ben oltre ciò che intraprende Bi-

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