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Il perdurare della fortuna della storiografia cousiniana sin oltre la metà del secolo, per il tramite di allievi e sodali – del Waddington in questo caso specifico – deve indurre a considerare, tralasciando le suggestioni ideologiche dell’interpretazione del Febvre, che lo stesso Michelet deve molto al Cousin: comune era l’accentuazione della se- parazione tra ‘età di mezzo’ e modernità, vale a dire la riproposizione dell’antitesi settecentesca tra l’erudizione dei maurini e gli schemi sto- riografici delle sistemazioni enciclopediche.

Un’ideale continuità, ma anche una radicale contrapposizione sono le chiavi interpretative del rapporto Michelet-Renan. A quest’ultimo si riallacceranno il Gebhart ed anche le tarde visioni ideologiche del Courajod. Entrambi rivendicano una qualche continuità tra le ‘ri- nascite’ medioevali e la Renaissance. E questo è proprio il terreno di contrapposizione tra Michelet e Renan; laddove l’elemento di vici- nanza è rappresentato dal ‘viaggio in Italia’, cioè dall’attenzione alle rappresentazioni iconografiche, poi teorizzata dall’ex-seminarista di Saint-Sulpice.

Singolare è infine il congiungersi oltralpe nei primi decenni dell’Ot- tocento degli studi d’indianistica e di orientalistica con l’attenzione alla ‘Renaissance’. E in questa attitudine micheletiana opera nuova- mente, anche se accuratamente rimossa, la presenza del Cousin, cioè proprio di colui che paradossalmente aveva stigmatizzato le filosofie quattro cinquecentesche a favore della modernità cartesiana. Questo sarà allora l’ambito per ridiscutere l’interpretazione delle Olympica in chiave di antirinascimento: un sapere fondato sul modello della conoscenza matematica percepito come esclusione dell’Antichità e delle rinascite.

1. I Cours e la monografia micheletiani

Nel dare conto dei suoi primi studi savonaroliani, che all’inizio del nuovo decennio lo avrebbero condotto alla pubblicazione della Storia

di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi, il Villari scriveva nel settem- bre 1854 a Terenzio Mamiani «che la mente, il carattere, la vita, il martirio del Bruno, Campanella, e altri» lo avevano «aiutato a capire il carattere del Savonarola, il primo di quegli uomini che i francesi chia- mano ‘de la Renaissance’»1. Tale termine, nella sua valenza semantica

di determinazione epocale, era perciò assai diffuso in Francia ancor prima della pubblicazione del volume del Michelet2. Il Villari, dietro

suggestioni desanctisiane, aveva frequentato quella storiografia che, volgendosi programmaticamente a comprendere e quindi a conclude- re la Rivoluzione, si andava interrogando sulle ‘origini dell’età moder- 1 Cit. in M. Moretti, Alcuni documenti relativi alla composizione della «Storia di

Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi» di Pasquale Villari, in W. Lupi et al., Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa, Scuola Normale Superiore 1987, p. 332.

2 A proposito del progressivo arricchimento semantico del termine, dalla for- mula vasariana della rinascita delle arti e dalla renaissance des lettres del Diction- naire bayliano, K. Stierle (Un mot franco-européen: la Renaissance, in Renaissances européennes et Renaissance française, sous la direction de G. Gadoffre, Montpellier, Éditions Espaces 1995, pp. 44 e 47-50 passim) rileva l’importanza De la littérature considérée dans ses rapports avec les institutions sociales (1800): «Madame de Staël mette in discussione la relazione topica tra le tenebre medioevali e la rinascita delle lettere», presupponendo «una continuità ininterrotta dello sviluppo culturale duran- te il Medioevo». Stierle sostiene che la nozione di Rinascimento nasce «nel contesto di una politica culturale della Restaurazione e si riferisce dapprima alle nuove collezioni del Louvre. […] La prima attestazione in letteratura di un uso assoluto del termine renaissance come definizione di un’epoca la si trova in una novella di Balzac ultimata nel 1829, Le bal de Sceau». Di lì a due anni Notre-Dame de Paris di Victor Hugo «è la prima opera letteraria che abbia come argomento effettivo il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Mentre in Sainte-Beuve il nome dell’epoca e il suo concetto erano ancora in sintonia, in Victor Hugo il nome del periodo si è svincolato dal suo signi- ficato originale. Per Hugo l’età del Rinascimento è fondamentalmente un periodo di decadenza», anche se questo giudizio mutava radicalmente nelle Feuilles d’automne pubblicate in quello stesso 1831. A proposito dell’adozione del termine in ambito germanico, Stierle aggiunge che «Burckhardt non è stato il primo ad adoperare il termine in tedesco. Il primo che lo fece è Eduard Kolloff, critico d’arte tedesco, che viveva a Parigi e che pubblicò nel 1840 un saggio dal titolo Die Entwicklung der mo- dernen Kunst aus der antiken bis zur Epoche der Renaissance. L’anno dopo, Heinrich Heine parlerà della nuova voga parigina per il Rinascimento in un articolo per la Augsburger Allgemeine Zeitung poi inserito in Lutezia» (Un mot franco-européen: la Renaissance, p. 39).

na’; aveva letto di certo Les révolutions d’Italie del Quinet, col conti- nuo riferimento alla Renaissance, e il Sismondi, il Villemain, il Guizot e il Thierry. Questi, nel 1853, aveva pubblicato l’Essai sur l’histoire de la formation et des progrès du Tiers état, dove dice di «quella rivolu- zione intellettuale che è definita, con una sola parola, la Renaissance». Lo studio del Rinascimento si intreccia dunque con quello delle scatu- rigini della modernità, con quell’attenzione alla ‘storia universale’ che fu propria della storiografia e della filosofia della storia dell’età della Restaurazione.

Ma oltre un decennio prima, nella prolusione di Strasburgo del 1842 sull’Histoire de la philosophie à l’époque de la Renaissance, Giu- seppe Ferrari, sebbene adottasse un approccio metodologico quasi cousiniano, già affermava che erano rinascimentali «le rivoluzioni che ci travolgono» e «le invenzioni che sono la base della nostra vita sociale», e in particolare come nei «sistemi filosofici del ’400 e del ’500» si assistesse «alle origini e allo sviluppo della filosofia moderna». L’avere trascurato gli studi sulla filosofia della Renaissance era allo- ra imputabile al suo carattere eminentemente pratico e al permanere di elementi ermetici, all’ambigua natura della magia. In ciò Ferrari era debitore delle Lumières, che traducevano il significato universale del Rinascimento in uno schema di filosofia della storia, ma ne ri- gettavano, come superstizioni residuali, le suggestioni ermetiche e astrologiche. Cousiniana era di certo la tesi che faceva della metodica baconiana e cartesiana il punto d’arrivo del Rinascimento: Bacon e Descartes hanno esercitato «la loro critica sul lavoro del Rinascimen- to» e «hanno riassunto contemporaneamente il Rinascimento, la sco- lastica, l’antichità». Infine, «è unicamente grazie a loro che le dottrine del Rinascimento divengono dei sistemi». Vale la pena di rilevare che il Ferrari colloca il cominciamento della filosofia rinascimentale in Lullo, nella produzione cioè di «un nuovo strumento logico più utile del sillogismo», la mnemotecnica, capace d’individuare la struttura dell’universo3.

3 G. Ferrari, Discours sur l’histoire de la philosophie à l’époque de la Renaissance, in Les philosophes salariés suivi de Idées sur la politique de Platon et d’Aristote et autres textes, préface de S. Douailler et P. Vermeren, Paris, Payot 1983, pp. 265-75 passim. In proposito cfr. A. Savorelli, Rinascimento e modernità nel Discours sur l’histoire de la philosophie à l’époque de la Renaissance di Giuseppe Ferrari, in Rina- scimento, mito e concetto, a cura di R. Ragghianti e A. Savorelli, Pisa, Edizioni della Normale 2004, pp. 179-211.

Invero l’eclettismo, che costituisce l’orizzonte di riflessione di quel- la generazione e che implica un approccio alla storia della filosofia (il ciclo quaternario, l’opposizione di sensismo e idealismo, di scet- ticismo e misticismo) che rinvia a un abito mentale classificatorio, esclude valenza cognitiva alla nozione di Rinascimento, dissolta nella successione cronologica, che sola dà conto della «marcia armonio- sa del genere umano». Invano si cercherebbe il lemma Renaissance nel Dictionnaire des sciences philosophiques del Franck, vera e propria summa della disciplina4.

In anni di rinnovata barbarie, nel 1940, nella Parigi occupata, Lu- cien Febvre riassumeva il corso sulla Renaissance del Michelet, profes- sato giusto un secolo prima, come «un saggio sul potere delle parole in storia», ascrivendo a merito del Michelet d’aver «lanciato nella vita questa nozione storica» di Rinascimento, in virtù della propria meto- dologia storiografica ad un tempo totalitaria e sintetica. Questi, nutri- to sin dalla sua giovinezza dalla lettura di Rousseau, temperamento di romantico, si volgeva a rintracciare l’evoluzione nella congerie degli accadimenti, e amava considerarsi uno storico filosofo. Se la cogenza dei tempi si evidenziava chiaramente nell’evocazione della religione micheletiana dell’«amore della Francia», Febvre coglieva poi il modi- ficarsi dell’interpretazione del Michelet: nel 1840 la Rinascita è innan- zi tutto italiana; il tribuno romantico condivideva la tesi illuministica della frattura fra Medioevo e Rinascimento, indicato come «scoperta dell’uomo» e come «scoperta del mondo». Per contro, nel Tableau chronologique (1825) e nel Précis d’histoire moderne (1827) questi non aveva ancora l’idea di un movimento d’insieme, ma di «due movi- menti parziali e frammentari. L’uno, franco-italiano […] movimento artistico e letterario», l’altro, «europeo: movimento d’emancipazione religiosa e filosofica»5. Forte era tuttora l’impronta cousiniana in un

4 Dell’esigenza di classificare i tipi ideali entro lo schema quaternario, G. Piaia (Prefatore/profittatore. La «Préface» di V. Cousin alla traduzione del «Grundriss» di W.G. Tennemann, in Ethos e cultura. Studi in onore di Ezio Riondato, Padova Anteno- re 1991, p. 430) scrive che fu «avvertita già da Kant e poi da Reinhold, dal Degérando e dallo stesso Tennemann, ma che non era propria soltanto dell’età kantiano-hegeliana, se già nel primo Settecento» l’abate Antonio Conti aveva raccolto in quattro grandi classi i ‘moderni filosofi’.

5 L. Febvre, Michelet et la Renaissance, Paris, Flammarion 1992, pp. 21, 40 e 198. E. Garin, Il ‘Rinascimento’ del Burckhardt, introduzione a J. Burckhardt, La civiltà

frammento del febbraio 1829, a proposito della Philosophie du XVIe

siècle, giudizio su cui non avrà modo di ritornare analiticamente e che in certa misura si può considerare un dato acquisito anche per la successiva produzione micheletiana:

La filosofia del ’500 è racchiusa in Italia e in Francia. La prima domanda da porre è critica e bibliografica: quali sono i filosofi dell’Antichità di cui i filo- sofi italiani possedevano le opere (neoplatonismo sostituito alla scolastica)? Nonostante l’acutezza d’ingegno, questi filosofi sono soggiogati, inebriati dalla grandezza della filosofia antica […]. Poche analogie reali fra Bruno e Schelling. La filosofia del ’500 dipende di più dall’Antichità che dai tempi moderni. Il vero movimento originale comincia col ’600.

Di lì a un mese, con esplicito riferimento all’Italia, aggiungeva: «mi- nore originalità di quanto credessi». È opportuno accogliere perciò con un qualche scetticismo quelle annotazioni, assai ingenerose, sul- la libertà d’insegnamento all’École normale che Michelet iscriveva, di seguito al titolo, sulla cartella che custodisce quei Matériaux de la préface ajournés, raccolti il 16 aprile 1869: l’una sulla libertà d’inse- gnamento all’École normale – «Libertà nei confronti di Cousin e di Guizot»6 – , l’altra sulla libertà morale, che Michelet rivendica come

propria divisa. Difatti, di contro al «fatalismo sansimoniano», defi- nisce il proprio metodo storiografico come «résurrectionnisme». Ed evoca le primitive influenze virgiliana e vichiana, «geni sibillini»: quel Virgilio «sensibile e profondo» che ancora in Le Peuple sarà indicato come «il vero pontefice e l’aruspice, tra due mondi […], indiano per l’affetto nei riguardi della natura, cristiano per l’amore nei confronti dell’uomo». E menziona lo studio delle Antichità giuridiche germani- che: ebbe a perseguire «questa poesia del diritto» anche nelle vetustà

del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni 1952, pp. xxiii e xxix, scrive giustamente che «la storiografia della metà dell’Ottocento, ben lungi dall’inventare il Rinascimen- to, non fece che fissare e sistemare un complesso di motivi lungamente discussi, e diffusi dovunque». In un breve lasso di tempo, le felici formule dell’eloquenza miche- letiana e i lavori del Voigt e del Burckhardt dimostrano dunque chiaramente come fosse ormai giunto il momento «di consegnare a sintesi organiche l’elaborata imma- gine che il lavoro di alcuni secoli aveva maturato: e che, nel fondo, era quella stessa che il Rinascimento aveva vagheggiato proponendosela come ideale».

6 J. Michelet, Écrits de Jeunesse, Paris, Gallimard 1959, p. 243; cfr. in proposito l’annotazione di Viallaneix a p. 410.

indiane e celtiche7. Ricorda allora l’amicizia di Burnouf e stigmatizza

«la pedantesca influenza dei dottrinari. […] mi erano apparsi tron- fi, altezzosi e vuoti. Il più piccolo rapporto con quel magister che si chiamava Royer-Collard, così pieno di boria, e con un così leggero bagaglio di filosofia scozzese, mi avrebbe isterilito per sempre. Cousin e Guizot non ebbero alcuna influenza su di me»8. In particolare man-

tiene una riserva nei confronti del Cousin, «il grande mimo italiano», e nega che questi abbia costituito l’impulso allo studio di Vico.

Perfino Monod, assai benevolo nei confronti del Michelet, che defi- nisce «un inspiratore», non certo «un maestro», denuncia l’acrimonia di codesto giudizio. Invero, al di là delle abiure rituali, l’eclettismo 7 Dalla simbolica del diritto rappresentata dalle Antichità giuridiche germaniche, di cui scrive a Grimm nel 1829, traeva spunto per descrivere «il genio antisimbolico della Francia» nelle Origines du droit français. Ancora nel 1841 richiamava l’Intro- duction aux Origines come «una delle grandi passioni della sua vita» (lettera a A. Dumesnil del 24.4.1841, in J. Michelet, Correspondance générale, Paris, Champion 1995, t. III, p. 409). Era trascorso un quinquennio da quella lettera del maggio 1836 a Jacob Grimm cui comunicava di attendere alla pubblicazione «in questo momento di una grande opera in cui mi giovo assai del suo incomparabile libro sulle Antichità giuridiche tedesche. Credo che nessuno in Francia abbia fatto uno studio più lungo e più coscienzioso di questo libro» (Correspondance, 1994, t. I, pp. 431 e 496). Sui debiti contratti nei confronti della cultura tedesca, che sia Michelet, sia Quinet scoprono tramite «una mediazione inglese», cfr. P. Pénisson, Michelet, Quinet et l’Allemagne, «Revue de Synthèse», 2, 1988, pp. 247-63. Alla lettura di Madame de Staël nel 1820, seguono l’anno dopo l’Abrégé chronologique de l’Histoire et du Droit public en Alle- magne di Ch.F. Pfeffel, il Tableau des révolutions de l’Europe di C.W. Koch e l’Histoire des Allemands di Schmidt. Un primo approccio alla filosofia tedesca si compie attra- verso l’Histoire comparée des systèmes de Philosophie di Degérando e l’Esprit et l’in- fluence de la Réformation de Luther del Villers. Nel 1822 è la volta del Handbuch des Geschichte des Altertums di Heeren. Al 1825 risale poi la frequentazione del Cousin. I Mémoires de Luther del 1835 sono l’opera in cui maggiore è «l’uso della Germania», ché si tratta «d’opporre le virtù rivoluzionarie protestanti ai vizi reazionari del potere gesuita». Pénisson, dando scarso rilievo a influenze hegeliane, sostiene che Miche- let adotta il «metodo Creuzer» e utilizza la «storiografia tedesca», ma imputerà alla scienza tedesca la mancata sintesi di erudizione e filosofia. Vd. anche W.P. Sohnle, Georg Friedrich Creuzers «Symbolik und Mythologie» in Frankreich: eine Untersu- chung ihres Einflusses auf Victor Cousin, Edgar Quinet, Jules Michelet und Gustave Flaubert, Göppingen 1972.

resta l’ambito filosofico di riferimento per tutta quella generazione, e in codesta dottrina il concetto di Rinascimento non trova posto. Ma passando al piano dei concreti contributi storiografici, delle nuove acquisizioni delle scienze umane, la Francia durante la prima metà dell’Ottocento conobbe di certo una Renaissance: quella orientale.

È necessario allora riportarsi a quella traduzione dei Principi della metafisica, dell’etica e della filosofia politica a partire dalla rinascita delle lettere di Dugald Stewart condotta dal Buchon, e in specie al ter- zo volume pubblicato nel 1823, cui il traduttore aveva aggiunto in appendice le «riflessioni aforistiche» del Cousin, in particolare un frammento sulla filosofia della storia, e una propria nota vichiana. Lo Stewart aveva in effetti trascurato il filosofo napoletano. Il Cou- sin additava allo storico il compito «di restituire la vita al passato e di riprodurre il reale, […] di lasciarsi impregnare fortemente di ciò che costituisce la realtà et la vita». L’accidentale, la molteplicità, l’ar- bitrio sono «l’immagine, il simbolo, il segno» di quell’«autentica sto- ria dell’umanità, la sua storia interiore che sta all’altra storia come la mineralogia e la chimica stanno alle semplici percezioni sensoriali»9.

Queste annotazioni suonano conferma del primitivo intento mi- cheletiano di un’opera sul Caractère des peuples trouvé dans leur vo- cabulaire, progetto ripreso, e poi nuovamente abbandonato, col titolo di Histoire des mœurs des peuples trouvées dans leur vocabulaire. En- trato in rapporto col Cousin, per il tramite del Poret, questi incorag- giò Michelet a volgarizzare in Francia Vico, come già aveva spinto il Quinet a fare lo stesso con le opere di Herder. In verità fu Degérando, estimatore di Herder, che sostenne l’impresa del Quinet e lo intro- dusse presso Cousin, ove incontra Michelet. Cousin, poi lettore entu- siasta della versione delle Idee per la filosofia della storia dell’umanità, avrebbe dapprima consigliato ai due di tradurre Olimpiodoro e Ber- nardo di Chiaravalle10. Nell’aprile del ’24, Michelet dà conto a Cousin

9 D. Stewart, Histoire abrégée des sciences métaphysiques, morales et politiques,

depuis la renaissance des lettres, II° supplément, Paris 1823, t. III, pp. 328 e 333. Cfr. in proposito il Journal de mes lectures, in Écrits de jeunesse, p. 323: «1824 gen- naio – Dugald Stewart, Histoire des sciences morales et politiques, 3° volume, dove trovo il pezzo di Cousin sulla filosofia della storia». Vd. anche la lettera di Poret a Michelet, presumibilmente dell’aprile 1821: «ti invio il volume di Dugald Stewart», questi è «tanto più consolante in quanto non esagera la forza dei suoi argomenti e ne misura la portata senza fanatismi e prevenzioni» (Correspondance, 1994, t. I, p. 59).

di un lavoro preliminare, volto a confrontare Vico col Condorcet, col Ferguson, col Turgot e con l’Ancillon. La corrispondenza che Miche- let indirizza al Cousin registra le difficoltà connesse a una traduzione integrale della Scienza nuova, cui sarebbe da preferire un «estratto molto dettagliato», fuso in un «discorso introduttivo sulla filosofia della storia», proponimento che Cousin, allora in viaggio d’istruzione in Germania, sembrò approvare, poiché il Michelet insisteva sull’im- portanza d’«inquadrare» Vico in un «saggio di storia di filosofia della storia», dicendo d’aver in ciò «seguito l’indirizzo che Lei mi ha dato». In realtà, al suo ritorno Cousin non concesse il proprio patrocinio all’edizione di Vico, poiché i promessi aiuti, a dire del Michelet, si sarebbero ridotti a «des choses vagues», e aggiunge che «il Cousin non avrebbe neppure sospettato ‘la portata della Scienza nuova’: tanto che ‘si stupì dell’importanza che davo ai principi di Vico’»11. E difatti in

calce al Vanini, Cousin tacciava Vico d’essere «un grande cultore di metafisica più che un metafisico»12. Ciò contribuì a distogliere lo stes-

so Michelet dall’iniziativa intrapresa: questi tornerà a Vico solo l’anno successivo, nel giugno del 1826. La sosta aveva avuto il merito di dis- suadere Michelet dal primitivo progetto d’inserire estratti vichiani in un proprio «saggio storico sulla filosofia della storia», e nell’avverten- za premessa ai Principes de la philosophie de l’histoire non farà alcun accenno al Cousin, che doveva di necessità guardare con simpatia al Vico, di cui, nella lettera a Degérando, il Cuoco definiva «i principi ed il metodo» come «platonici, perfettamente platonici, spesso esorbita- tamente platonici»13. E fu l’interpretazione moderata e antigiacobina

del Cuoco che molto giovò alla fortuna del Vico nel secolo XIX. Così, ad esempio, nella Francia dell’età della Restaurazione «il Thierry dette origine ad una visione evolutiva e civile della storia nel senso dello sviluppo, non dissimile in ciò dal Vico e dal Cuoco, contro il romanti- cismo reinvolutivo della tradizione tedesca»14. Del Cuoco è anche l’af-

11 B. Croce, Bibliografia vichiana, accresciuta e rielaborata de F. Nicolini, Napoli, Ricciardi 1958, vol. I, p. 527. In proposito A. Mitzman, Michelet ou la subversion du passé, Paris 1999, p. 9, sostiene che Michelet «sovverte l’idea del passato perché abbat- te la paratia tra passato e presente, dimostrando quasi un secolo prima di Benedetto Croce che ogni storia è storia contemporanea».

12 Fragments de philosophie cartésienne, p. 7.

13 V. Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza 1924, t. I, p. 306.

14 A. Omodeo, Studi sull’età della Restaurazione, Torino, Einaudi 1974, p. 286. Sulla fortuna di Vico oltralpe Maria Donzelli (La conception de l’histoire de J.-B. Vico

fermazione di un Vico ‘isolato’ rispetto alla cultura del suo tempo – è la tesi della lettera a Degérando –, poi ripresa dal Michelet, e che di lì a qualche tempo avrebbe trovato felice acclimatazione in Francia.

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