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MANIFESTAZIONE DEL’’ESSENZA NICHILISTICA DELLA TECNICA

La Repubblica non è semplicemente un grande dialogo dove Platone ha vagheggiato l’utopia di uno stato governato dai filosofi: la civiltà occidentale – la gigantesca vicenda di fatti e di eventi che costituiscono la civiltà oggi dominante sulla terra - è la Repubblica fondata da Platone. Egli è il seminatore dell’Occidente.

(Emanuele Severino, La strada, la follia, la gioia)

1. Morte di Dio, nichilismo e tecnica

Il Capitolo Primo della Parte Terza ha avuto lo scopo di introdurre il pensiero di Emanuele Severino a partire dalla sua lettura inaudita del pensiero di Nietzsche. Questa si è configurata nel senso della tesi che la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale, ben lungi dall’essere una fede, è il risultato di una fondazione speculativa rigorosa dell’affermazione dell’evidenza (certezza fondamentale) del divenire.

Nella prospettiva ontologica severiniana il rapporto tra l’annuncio della “morte di Dio” e la dottrina dell’eterno ritorno è speculativamente rigoroso: Dio muore perché nulla può opporsi alla volontà creatrice, ossia al carattere essenzialmente diveniente del tutto dell’essere. Onde il movimento attraverso il quale Dio viene dichiarato morto – ricordiamolo, Dio viene dichiarato morto in quanto è stato ucciso dall’uomo -, è il movimento opposto a quello per il quale Dio viene affermato. Se cioè coloro che hanno affermato il mondo vero, lo hanno fatto per la salvazione del mondo diveniente, Zarathustra è colui che vuole

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salvare il mondo diveniente da quel mondo del “Pieno” e del “Satollo” del quale il passato (il Perfectum) costituisce una declinazione fondamentale.

Ciò che Nietzsche vuole è la liberazione da ogni forma dell’eterno e dunque anche la liberazione dal passato, ma, volendolo, finisce per rivelare il fondo inconscio che lo spinge alla più tremenda delle contraddizioni: l’affermazione dell’eternità del divenire di tutte le cose (eterno ritorno dell’uguale).

È per salvare il divenire dal mondo del Pieno e del Satollo (dell’Immutabile) che il pensiero di Nietzsche sfocia nell’assurdo di quella che ne La volontà di potenza viene chiamata “vetta della contemplazione” (Gipfel

der Betrachtung).

Continuare ad approfondire la lettura severiniana dell’eterno ritorno, significa cominciare a puntare decisamente al centro dell’ontologia che afferma l’eternità dell’essente; significa cioè iniziare a tematizzare in modo deciso l’apertura della verità come linguaggio che testimonia il destino della necessità (l’apparire della verità dell’essente). L’approfondimento è la messa in rilievo del carattere essenzialmente tecnico della dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno dell’uguale.

In che senso questa dottrina è una forma eminente della tecnica? In che senso per Emanuele Severino anche la scienza – ciò che ancor oggi e da secoli viene designato con “scienza” – è una figura della tecnica? Di più: come è possibile che nell’ontologia severiniana convivano, da una parte, l’interpretazione della nietzscheana affermazione della morte di Dio come figura dell’eterno ritorno dell’uguale (cioè come declinazione della tecnica) e, dall’altra, la negazione dell’esistenza di Dio sul fondamento dell’affermazione dell’eternità dell’essente? Ebbene, relativamente al pensiero di Nietzsche, i due tratti convivono e possono convivere solo in ragione del riconoscimento della tesi fondamentale dell’ontologia che afferma l’eternità dell’essente in quanto essente, ossia quella per la quale, in tanto Zarathustra afferma la morte di Dio, in quanto questo è vissuto sul fondamento di quell’apertura originaria nella quale la cosa è stata pensata come essente. Si tratta dell’apertura nella quale il qualcosa, il τί, l’aliquid, opponendosi assolutamente al nulla (nel senso di nihil

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absolutum) è fintanto che è, e che dunque ritorna dal nulla di sé (al nulla

assoluto di sé) dopo aver soggiornato nell’essere per un certo tempo.

Zarathustra uccide Dio perché Dio – tanto nella forma platonica, quanto in quella della teologia di ispirazione cristiana – è la potenza che viene evocata per far fronte all’angoscia suscitata dal senso ontologico (greco, epistemico) della cosa; onde così come Dio è il primo grande Tecnico, la Tecnica è l’ultimo grande dio della civiltà occidentale.

Ciò che dunque Zarathustra vuole è – nella prospettiva aperta dal linguaggio che testimonia il destino della verità -, la liberazione definitiva (assoluta) della convinzione che guida l’intera tradizione dell’Occidente. Ciò che Zarathustra vuole è il superuomo, ossia l’uomo che è da ultimo la potenza di dire sì alla divenienza dell’essente (l’uomo che ha, da ultimo, il coraggio del pro- getto del dominio incontrastato dell’essente).

Non è affatto casuale, anzi appartiene all’essenza stessa dell’ontologia severiniana, che anche nella grande opera del 1999 dedicata a Nietzsche, alcuni capitoli mettano a tema le questioni della tecnica e del nichilismo; questioni che dominano la scena sin dagli scritti che, stando alla critica più accreditata, costituiscono il passaggio alla fase della piena maturità speculativa del filosofo italiano. Tra questi è il caso di richiamare il breve ma assai pregnante Sul

significato della ‘morte di Dio’, dove Severino negli anni della contestazione che

si era andata scatenando quale opposizione alla società industriale avanzata, e dunque ben trent’anni prima de L’anello del ritorno, pone in relazione ciò che abbiamo iniziato a delineare con l’apertura del presente capitolo, e cioè il legame essenziale tra la dottrina della volontà di potenza, la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale e la tecnica (il nichilismo come tratto distintivo dell’età contemporanea occidentale e non solo occidentale).

Riprendendo la nozione di “mondo” – nozione che con una certa potenza inizia a dominare la scena in Ritornare a Parmenide – Severino scrive:

Che cosa accade quando θεός viene portato nel mondo? Dal punto di vista della metafisica, l’ente può essere, ossia può esistere, solo se è assicurato all’esistenza da un fondamento. Diversamente, l’ente, in quanto ente, non può esistere, ossia è un niente […]. Come soggetto dell’affermazione intende porre l’ente, e come predicato dell’ente pone il niente. L’ipsum Esse subsistens è l’Ente che ha in sé il suo essere, l’Ente

161 che “sibi relictum” non è un niente. Ma che esista un ente siffatto bisogna

essere capaci di dimostrarlo, e la metafisica ha sviluppato in più direzioni questo tentativo di dimostrazione. La metafisica è l’essenziale persuasione che l’ente, in quanto ente, è niente […]. Il mondo è il luogo dove si crede di toccare con mano l’uscire e il ritornare degli enti nel niente (il loro essere stati e il loro tornare ad essere un niente). Ponendo che, nel divenire, l’ente è stato e torna ad essere un niente, si pensa che l’ente è niente. In questo pensiero si manifesta nel modo più radicale l’essenza del nichilismo. Per Nietzsche, il nichilismo è il processo fondamentale e la stessa legge della storia dell’Occidente. Nel suo significato originario esso è l’infedeltà alla terra, che conferisce ogni valore a ciò che sta al di là della terra, cioè al niente. Accostandosi al problema dell’essenza del nichilismo, Heidegger riconosce a Nietzsche di avere intravisto alcuni tratti del nichilismo, ma di averli spiegati nichilisticamente. Per Heidegger, infatti, l’essenza del nichilismo è l’interesse per l’ente, ossia l’apparire stesso della totalità dell’ente, in quanto dimenticanza della “verità dell’essere”. La ‘verità dell’essere’ è la stessa presenza dell’ente. L’interesse per l’ente, in cui consiste la metafisica, culmina, con Nietzsche, nell’identificazione dell’essere alla volontà di potenza […]. Sulla base della dimenticanza dell’essere, la metafisica lo identifica all’ente, e la totalità dell’ente diventa oggetto di produzione e distruzione tecniche. Eppure come Nietzsche, anche Heidegger coglie alcuni tratti essenziali del nichilismo, ma li intende a sua volta nichilisticamente, lasciandosi ancora una volta sfuggire ciò che è sfuggito all’intero corso del pensiero occidentale: l’essenza autentica del nichilismo. Anche il pensiero di Nietzsche, come quello di Heidegger, si muovono infatti all’interno del mondo, ossia della persuasione della nientità dell’ente. La storia della metafisica come scienza è lo sviluppo dialettico del tentativo di pensare incontraddittoriamente il mondo, e cioè di realizzare in modo incontraddittorio e incontrovertibile l’occultamento e il mascheramento del nichilismo.117

Qui ci troviamo già al centro dell’ontologia di E. Severino, tanto che in un certo qual modo è possibile sostenere la tesi che quanto egli scrive su Nietzsche dopo il 1969 non ne costituisce che un approfondimento.

Il significato della “morte di Dio”, e cioè il significato della dottrina dell’eterno ritorno quale è determinato nel 1999 con L’anello del ritorno, è nella sostanza, già presente nel breve scritto del 1969.

Richiamando il De aeternitate mundi di Tommaso d’Aquino, Severino offre un’ulteriore dimostrazione di grande potenza speculativa.

La creaturalità, l’esser-creatura, è la condizione per la quale l’ente può essere, ossia è la condizione per la quale l’ente (ciò che è, l’essente) respinge la

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E. Severino, Sul significato della’morte di Dio’, in id., Essenza del nichlismo, nuova edizione ampliata, Adelphi, Milano 1982, pp. 256-257.

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cattura del niente assoluto (nihil absolutum). Se l’ente non fosse creato, se cioè l’ente non fosse come essere creato (nel modo dell’essere creato), esso sarebbe destinato al nulla assoluto di sé dopo essere stato per un certo tempo l’identità con sé stesso. Come si è visto nell’ultimo luogo severiniano citato, ciò che nel lessico heideggeriano è l’enticità dell’ente (die Seiend-heit des Seienden) è la fondazione dell’ente, ovvero l’assicurazione all’esistenza dell’ente da e a partire da un fondamento.

Nella concezione di Tommaso d’Aquino la creatura possiede l’essere (l’esistenza) a condizione della creaturalità. Se l’ente, ogni ente, non fosse creatura (non fosse ab alio) esso non sarebbe punto. Al di là della relazione con Dio (con il fondamento), la creatura è niente. Questo movimento speculativo è per Severino una declinazione fondamentale dell’orditura essenzialmente epistemica della civiltà occidentale, onde l’ipsum Esse subsistens - quell’ente che

mutatis mutandis, è il modo in cui Tommaso d’Aquino, René Descartes e

Spinoza pensano Dio - in tanto si pone in quanto costituisce la potenza che viene evocata di fronte all’angoscia provocata dall’irruzione in-prevedibile dell’essente (novum).

È perché si apre il ‘mondo’, che l’uomo occidentale pensa l’ente che sussiste (che esiste, che cioè non è il nulla assoluto), senza bisogno di un fondamento. È perché il mondo viene aperto (perché viene aperta la dimensione della convinzione che l’essente è fintanto che è) che l’uomo dell’Occidente evoca la potenza che lo possa salvare. Nell’atto creativo, l’ente che sussiste da sé salva l’uomo, sottrae cioè l’uomo alla cattura del nulla. È qui il senso dell’opposizione speculativa che abbiamo elucidato allorché abbiamo riflettuto sul modo in cui Nietzsche uccide Dio. Il mondo vero – quello che per il Nunzio della dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale va negato una volta per tutte -, è evocato come salvazione dal divenire, laddove per lo stesso Zarathustra esso viene negato come salvazione del divenire; onde è questo, ossia il divenire che deve essere in ultima istanza salvato, cioè spinto fino al fondo della sua potenza.

Ma che l’ipsum Esse subsistens esista – dice Severino – è qualcosa che deve essere dimostrato. L’intera grandiosa tradizione della dimostrazione speculativa dell’esistenza di Dio, riposa - nella prospettiva aperta dalla testimonianza dal destino della verità - sulla persuasione che l’ente sia niente,

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onde l’adduzione dell’argomento ontologico, che può essere fatto in qualche modo risalire ad Anselmo d’Aosta e che ha trovato in Cartesio e Kant due dei suoi massimi sistematizzatori, può essere inteso come una delle forme più radicali di apertura del “mondo”: l’uomo occidentale è cioè talmente lontano dalla verità dell’essere - dal destino della verità - da ritenere di poter addurre un argomento tratto dall’essere per dimostrare il non-essere-niente di Dio, cioè di un ambito particolare dell’essente (da ritenere di poter fare leva sull’essere per impediere che un ambito particolare di ciò che è non sia nulla).

Nella prospettiva severiniana tutto questo non può che configurarsi come una delle manifestazioni più profonde dell’alienazione che costituisce la vicenda del mortale. È perché la metafisica è la persuasione che l’ente in quanto è niente che Dio viene evocato; è per il fatto della fede nella nientità dell’ente – dell’esser niente dell’essente – che la metafisica è radicalmente nichilistica e il pensiero di Nietzsche si rivela come l’ennesima – ancorché poderosa – forma di nichilismo occidentale. Anzi, proprio in ragione del movimento speculativo aureo del pensiero di Nietzsche, è necessario mettere in rilievo come alla luce del linguaggio che testimonia il destino, quel pensiero è una delle declinazioni più potenti della persuasione nichilistica che guida la civiltà occidentale.

Nietzsche è in pieno questa persuasione, una persuasione che, nella misura in cui non è la volontà di un singolo, va intesa come forma eminente di quella realtà tecnica che si costituisce come il pro-getto del controllo totale. Qui il linguaggio sembra avvicinare l’interpretazione di Severino a quella di Heidegger, ma è una vicinanza - come il passo citato mette in rilievo inequivocabilmente - solo apparente. L’approccio heideggeriano al pensiero di Nietzsche è, lo si è visto nella Parte Seconda, profondamente diverso, e lo è tanto da giustificare la tesi secondo la quale la posizione speculativa di fondo del pensatore tedesco rimane ambigua, sia in ordine alla lettura di quella che per Severino è la vena aurea del pensiero di Nietzsche, sia in ordine all’interpretazione della tecnica quale tratto dominante della società contemporanea occidentale e non solo occidentale.

Appartenente in modo eminente allo sviluppo dialettico del sapere metafisico, è, dunque, per Severino, anche il pensiero di Martin Heidegger in quanto tentativo di pensare incontradditoriamente il mondo; un tentativo che,

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per parte nostra, abbiamo più volte messo in rilievo allorché abbiamo osservato come il senso ultimo della sentenza che l’uomo folle de La gaia scienza pronuncia, è, per il pensatore di Meßkirch, in ultima analisi, un modo più autentico di corrispondere al Sacro. Se, in altri termini, per Heidegger, la morte di Dio annunciata da Nietzsche è una forma di corrispondenza al Sacro, allora anche il senso della potenza tecnica non può assumere il volto che assume nel linguaggio che testimonia la verità incontrovertibile.

Che cosa mai sarebbe invero un superuomo che, da una parte cercasse ancora Dio – ancorché ad un livello incomparabilmente più elevato rispetto a quello raggiunto dall’uomo durato finora -, e che, dall’altra, esercitasse la volontà di potenza fino a farne il progetto dell’ente in totale? Non si apre qui forse – e proprio in virtù della lezione severiniana – una contraddizione insuperabile del pensiero di Heidegger?

L’annuncio di Nietzsche che Dio è morto significa appunto che il mondo si è accorto non solo di non aver bisogno di un ente immutabile trascendente, ma che tale ente renderebbe impossibile la creatività dell’uomo. Dal punto di vista di un modo di pensare che rimane all’interno dell’essenza metafisica della τέχνη, si deve dire allora che il principio della nientificazione e della nientità dell’ente non può più essere un dio, ma il superuomo […]. Questo tratto non può non rimanere anche nella rilfessione heideggeriana sull’essenza del nichilismo, giacchè per Heidegger, l’esistenza del mondo è un’evidenza fuori discussione. Anzi, è proprio perché il mondo esiste – ossia è proprio perché la totalità degli enti divenienti appare – che, per Heidegger, l’essere si ritrae e, nascondendosi, muore […]. La nientità e nientificazione dell’ente è così anche qui intesa come fatto e realtà incontrovertibilmente manifesti. E la civiltà della tecnica è intesa come il modo in cui oggi viene misurata questa realtà.118

Con la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale Nietzsche nega Dio non avvedendosi della situazione per la quale è il male - quello che egli intende come male, e cioè il cattivo sguardo sul mondo dell’esperienza sensibile e dei suoi valori - che detta l’invenzione del mondo vero: questo viene evocato come reazione a quella che per lo stesso Nietzsche è la certezza fondamentale, vale a dire il carattere diveniente dell’essente.

165 Nella storia dell’Occidente la produzione-distruzione dell’essere degli

enti è fondametnalmente intesa come “Dio” e come “tecnica”, che dunque sono le due espressioni fondamentali del nichlismo. Il senso metafisico di θεός, precontiene il significato essenzialedella tecnica moderna. Ogni progetto di trasformazione e dominazione tecnico- scientifica del mondo sottintende l’apertura dell’orizzonte in cui gli enti possono uscire e ritornare nel nulla, e θεός è stato il modo originario in cui la metafisica ha pensato la condizione della possibilità di questo orizzonte.119

Per questo tratto ciò che Nietzsche vuole è la piena affermazione del nichilismo coerente non avvedendosi della circostanza che ad aver evocato Dio è, appunto, la certezza fondamentale della divenienza dell’ente come uscita dal nulla e ritorno nel nulla. In ultima analisi ciò che Nietzsche vuole, è negare θεός affermando la tecnica; un’ operazione che, stante la prospettiva severiniana, risulta impossibile. Relativamente alla dottrina dell’eterno ritorno – come Severino sottolinea ormai da decenni - Heidegger rimane indeciso, così come indeciso rimane il suo atteggiamento di fronte alle classiche questioni metafisiche dell’esistenza di Dio e dell’anima distinta dal corpo. Per Heidegger “gli dèi sono fuggiti”, sicché quella dell’uomo folle è essenzialmente un rimprovero a sé stesso e agli uomini per aver osato uccidere Dio.

Ben più radicale è la prospettiva aperta dal linguaggio che testimonia il destino della verità: in essa la morte di Dio è la vera essenza del superuomo, cioè quella in cui quest’ultimo si pone come uomo tecnico, e che come tale pro-getta il dominio dell’essente, nella misura in cui vuole spingere a fondo la persuasione che l’essente - ciò che in quanto è si oppone infinitamente al nulla - sia niente.

Ma ciò che dal linguaggio che testimonia il destino viene portato alla luce come isolamento dalla terra, è un processo che affonda le radici nella configurazione della coscienza umana costituita dall’ontologia greca, ossia dal modo greco di pensare l’esser-cosa. Tutto l’inaudito e assai articolato discorso di Severino relativamente alla tecnica (all’apparato scientifico-tecnico come ciò che oggi spinge all’aggressione del pianeta), rimarrebbe incompreso ed incomprensibile se non si tenesse fermo il passaggio dal modo pre-ontologico (pre-greco) al modo ontologico (greco) di vivere la cosa.

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Nella prospettiva che testimonia l’esser sé dell’essente, la storia del mortale – quella storia il cui tratto attuale è l’uomo tecnico – subisce una svolta decisiva allorché la cosa - ciò che via via il mortale incontra (l’oggetto dell’esperienza sensibile), non è più un divenire nel senso del semplice diventar- altro (del farsi altro), bensì è un divenire nel senso del passaggio dal nulla assoluto di sé al nulla assoluto di sé attraverso l’esser sé temporale.

Sin dall’inizio, la filosofia ha voluto scoprire la verità del mondo. Certamente, il mondo era già noto prima della filosofia, ma essa gli conferisce un senso inaudito. Per la prima volta, infatti essa esprime la contrapposizione estrema, quella tra l’essere e il niente, e concepisce il mondo come il luogo in cui le cose escono dal niente, approdano alla sponda dell’essere e ritornano nell’abisso del niente.

Anche qui: le parole “essere” e “niente” esistono già nella lingua greca, prima della filosofia. E anche nelle lingue più antiche dell’Oriente. Ma il loro senso è avvolto da ombre, ambiguità.120

Su queste considerazioni di rilevantissimo interesse, non poteva non riflettere Nicoletta Cusano, una delle lettrici più attente di Emanuele Severino. Vediamo brevemente in quale maniera.

Con la nascita della filosofia inizia dunque un nuovo corso: anche se la filosofia non sembra occuparsi di problemi diversi da quelli a cui si rivolgevano già il mito e la religione, tuttavia tale vicinanza racchiude una lontananza essenziale […]. La filosofia nascente conserva certamente molto aspetti del mito, ma si distacca da quest’ultimo per due motivi fondamentali, tra loro essenzialmente collegati: il sapere del mito non si pone (non ne ha i mezzi) come certo e indubitabile, mentre quello filosofico sì, caratterizzandosi proprio per la scoperta di un senso assoluto e sconosciuto di innegabilità; il mito non conosce la contrapposizione assoluta tra essere e non esser, che viene affermata per la prima volta dalla filosofia con la nascita dell’ontologia.121