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IL S I L E N Z I O D I M O S C A TRE CONVERSAZIONI pp. 193, € 12,30, Einaudi, Forino 2008

S

fugge a qualsiasi definizio-ne questo libro di Marina Jarre. Sarebbe finanche

trop-po semplice cavarsela dicendo che è un libro matrioska, ado-perando la metafora da lei stessa scelta per introdurre, a metà dell'opera, la fiaba su cui

Il silenzio di Mosca fa perno.

L'incastro è molto più complica-to, una sola matrioska non basta. Le nonne si nascondono nelle fiabe che raccontano ai nipoti, confessa. E il libro è certo scrit-to guardando i nipoti che cre-scono, ma questo suo ultimo la-voro nasconde tante altre cose.

Come tutti i lavori di Jarre questo è soprat-tutto un libro sulla guerra: la nonna di Cappuccetto Rosso, d'altra parte, non si nascondeva nella pan-cia del lupo? E pro-prio nulla di dolciastro c'è nella fiaba del ci-gno nero di Miinster. I

nipoti di Jarre non si trovano in una posizione invidiabile: sono chiamati a crescere alla svelta, molto alla svelta. Per fortuna si difendono con mezzi loro e con discreti risultati; d'altronde la ri-cerca di protezione, di sicurezza da sempre accompagna l'accen-to straniero di questa scrittrice, che, a partire dal precedente

Ri-torno in Lettonia, sembra però

essere stata definitivamente cat-turata dalla storia.

I

l libro si presenta come la somma di tre conversazioni: con Pavel l'insegnante di russo, con l'amica Patti e con Gino, autore di centoquarantaquattro lettere dal fronte russo. Nei sot-totitoli delle tre conversazioni la parola guerra ritorna tre vol-te, l'amore due, la solitudine e l'amicizia una volta soltanto. Come a dire che la guerra e l'a-more non si possono quasi mai scindere, né dall'uno o dall'al-tra si può prescindere. La soli-tudine e l'amicizia talora ci con-cedono, per fortuna, qualche sosta. Potremmo chiarire me-glio. Esile come tutti i libri di Jarre, questo contiene in nuce progetti per almeno una decina di libri autonomi; della fiaba s'è detto, ma bisognerebbe aggiun-gere: due saggi di moralità (sul-l'amore per gli animali e sulla botanica); «un saggio storico

stricto sensu, dove l'autrice,

sen-za uscire dallo studio di casa sua, trova l'occorrente per rico-struire la sfilata di prigionieri tedeschi a Mosca dopo la disfat-ta di Sdisfat-talingrado. È un saggio di bravura che, penso, potrà gene-rare invidia a molti esperti di micro-storia. Un affresco sto-riografico di rara bellezza, che

per effetto di risonanza va a ri-cadere nell'altro libro nel libro che poco più innanzi è costrui-to sul sapiente montaggio di let-tere dal fronte russo di un sol-dato italiano, il giovane telegra-fista Gino Moretti. Anche Gino è un vinto della storia, che scri-ve lettere d'amore struggenti al-la sua Anita (qui il problema storiografico è lo stesso indicato da Pier Giorgio Zunino e cioè il progressivo rompersi della fidu-cia nell'alleato tedesco da parte dei soldati italiani). Non basta. L'autrice confessa la sua passio-ne per i racconti partigiani e al-lora eccola farsi gioco di una vecchia partigiana che, intervi-stata alla televisione, non riesce a spiegare la ragione della sua "scelta": ne deriva una pagina sulle ragioni della lotta resisten-ziale, degna di stare accanto al-l'analisi di Pavone. E non basta ancora: nell'economia di un te-sto relativamente breve trovia-mo il reportage giornalistico fil-trato attraverso la meticolosa ri-costruzione dell'ascensione di Mallory e Irvine sull'Everest (1924), al solito ricostruito su fonti originali; lo storico di

To-rino troverà infine la testimonianza sulla città all'indomani delle leggi razziali (l'episodio della soli-darietà espressa ad Arnaldo Momigliano è molto toccante) e l'angoscia dei bom-bardamenti sulla città vissuti da un'angola-tura del tutto inedita e spiazzante (quella di Gino in Russia, che apprende della distruzione di San Salvario dalla radio).

Le singole parti del libro (qualcosa devo aver dimentica-to) si ricompongono alla fine, con un gioco di rinvìi interni in parte voluto, in parte casuale che prende alla gola. Realtà, im-maginazione, verità, verosimi-glianza: temi su cui s'interroga-no gli storici alle prese con i mo-di del narrare.

Le Enneadi di Plotino goffa-mente citate da un personag-gio, con l'accento sulla "a" la prima parola e sulla "o" del-la seconda, non sono soltanto l'espressione di una beata igno-ranza, ma anche l'emblema del-la buffa casualità deldel-la vita. "Nessuna strada conduce in-dietro", il proverbio di Ritorno

in Lettonia, trova qui una sua

variopinta, argomentata, appli-cazione. Cresce il disincanto, la riflessione sulla vecchiaia, la morte che conserva l'amore in eterno nel deserto di Masada o sulla cima dell'Everest. Con il passare degli anni l'autrice di

Negli occhi di una ragazza

(1971), Un leggero accento

stra-niero (1972), I padri lontani

(1987), Tre giorni alla fine di

lu-glio (1993), Un altro pezzo di mondo (1997) sembrerebbe

ap-prodare al journal intime. Il li-bro, in effetti, dopo averci fatto fare - per due volte almeno - il giro del mondo, trova la parola fine sul cortile dell'Oltrepò, "povero, nitido, odoroso di fu-mo di legna", ma si vorrebbe non finisse mai.

alberto.cavaglion®libero.it A. Cavaglion è insegnante

Psiconaufraghi

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