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di Mario Tozzi AUGUSTO BIANCOTTI, Le metamorfosi

del-la Terra, Giunti, Firenze 1995, pp. 190, Lit 22.000.

SANDRO PLGNATTI, Ecologia del paesaggio,

Utet, Torino 1994, pp. 228, Lit 95.000.

Qualche secolo fa la pianura pontina era una landa profondamente inospitale per l'uo-mo: paludi e laghi costieri formavano un si-stema idrografico reso impenetrabile dall'in-tricatissima vegetazione. Ci volle il fascismo e l'operosità degli immigrati veneti e friulani per aver ragione di quelle terre, in una delle poche opere ingegneristiche del ventennio che sembra ben riuscita a tutti. Solo oggi ci si accorge che non è così, che le paludi — as-sunto il nome più impegnativo di zone umi-de — umi-devono essere protette e se possibile estese in tutto il mondo. Troppo grande è il loro patrimonio naturale e paesaggistico per vederle ancora minacciate.

Al valore intrinseco si aggiunge ormai quello culturale del paesaggio, elemento che costituisce il legame più forte — ma non il solo — fra l'impostazione scientifica dell'im-pegnativo testo di Lignatti Ecologia del

pae-saggio e lo snello volume di Biancotti Le me-tamorfosi della Terra. L'eucalipto

australia-no piantato negli anni trenta nelle zone umi-de d'Italia (si riteneva tenesse lontana la ma-laria, in realtà grazie alle sue radici profonde contribuiva a prosciugare le paludi e solo di conseguenza a far decrescere le zanzare ano-f e l i ) ano-fa parte ormai dello speciano-fico di molti

nostri paesaggi e testimonia le variazioni no-tevoli che la storia della vegetazione ha attra-versato in Italia. Il Sahara, prima immensa

regione verde e fertile ora deserto, viene rie-vocato da Lignatti e Biancotti a testimonian-za del valore paradigmatico e trasversale di certi esempi. Non è un caso se il conflitto ter-ra-acqua e il costituirsi del paesaggio a parti-re dall'elemento vegetale sono il punto di partenza dell'esposizione di Biancotti e la tra-ma implicita sottesa a molte delle considera-zioni dell' Ecologia del paesaggio.

Le metamorfosi della Terra è un libro in

bilico fra la denuncia delle malefatte dell'uo-mo nella sua insàna gestione della Terra e la speranza illuminista che con una maggiore conoscenza e informazione la situazione pos-sa migliorare in futuro. Di esempi se ne tro-vano a decine e, anzi, essi costituiscono l'in-telaiatura del libro stesso, che si snoda fra terre perdute per sempre e terre conquistate. Con toni un po' caricati e con un frequente uso dell'aggettivo iperbolico — maggiore az-zardo avrebbe potuto portare a un'esposizio-ne decisamente futurista — Biancotti con-danna decisamente tutto ciò che è esecrabile delle opere dell'uomo moderno: il dissesto idrogeologico, la deforestazione selvaggia, l'avanzata dei deserti.

Dei numerosi esempi sul terreno, il più ori-ginale deriva dalle fallimentari esperienze dei fantasiosi progetti sovietici di risistema-zione idrogeologica —per esempio quello dei "cinque mari", che consisteva nell'unire tra-mite canali e fiumi le coste di tutta l'Unione — e dei loro tremendi danni che non verran-no riassorbiti rapidamente, come nel caso del Volga deturpato o del lago Arai ormai

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funzionamento di una bomba. L'irrazionale collettivo in questo caso si comporta come se non fos-se vero che qualsiasi macchina o dispositivo si costruisca, buono o cattivo che sia nei suoi esiti, tale costruzione viene basata sulla co-noscenza delle leggi fisiche che ne presiedono alla dinamica, ma, al contrario, come se lo scienziato cercasse di conoscere le leggi fisi-che solo al fine di applicarle a que-sto o quest'altro (magari malvagio) marchingegno. Certo talora le mo-tivazioni della ricerca sono state quelle: proprio il progetto Manhattan ne è un esempio. È però fuori di ogni dubbio che an-che se spesso la ricerca (quella ve-ra, fondamentale) è motivata da fi-ni pratici, purtuttavia sempre le sue scoperte, i suoi risultati hanno carattere di universalità che tra-scende qualsiasi praticità per as-surgere a conoscenza.

Una richiesta dunque di verdet-to di innocenza che sancisca la ver-ginità inviolabile degli scienziati? Certamente no. È giusto chiamare a correi, assieme con generali e po-litici, dell'uso perverso del prezio-so bagaglio delle conoscenze scientifiche anche loro, siano essi fisici, chimici, biologi, ma non in quanto essi perseguono tale cono-scenza, qualsiasi possano essere le applicazioni e le implicazioni, im-maginabili e non, delle loro sperte, bensì proprio in quanto co-munità.

Oggi più che mai, come già in misura minore nel passato, opera-re nel mondo scientifico ha profonde e complesse articolazioni sociali e politiche: i meccanismi di finanziamento della ricerca, così come quelli di trasferimento dei ri-sultati della ricerca stessa al mon-do industriale, i processi di attiva-zione delle politiche scientifiche che privilegiano una ricerca rispet-to all'altra, la struttura stessa delle università e i percorsi culturali che esse offrono in ambito scientifico, sono gli elementi che hanno via via portato gli scienziati a organizzarsi in organismi rappresentativi, che li qualificano e li rappresentano di fronte al mondo.

In molti paesi (l'Italia è colpe-volmente in ritardo in questo) gli scienziati vengono interpellati e ascoltati in audizioni speciali di parlamenti, senati e governi ed esprimono la loro visione "di cate-goria" sui temi che più da vicino li coinvolgono nelle loro competen-ze professionali. La vera colpa sta

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