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Meccanismi di guarigione del tessuto osseo

Dal momento in cui le trabecole ossee vengono danneggiate durante la preparazione di un sito implantare, esistono molte similitudini tra i processi di guarigione di una frattura e quelli dell’osso perimplantare.

L’osso possiede una capacità particolare di autoriparazione e può ricostituirsi completamente riattivando meccanismi che normalmente si verificano solo durante l’embriogenesi. Questo processo è costituito da una sequenza strettamente regolata che può essere artificiosamente suddivisa in stadi istologici, biochimici e biomeccanici che si sovrappongono parzialmente. Il compimento di ogni stadio inizia quello successivo, il che viene realizzato mediante un processo dinamico e una continua comunicazione tra i vari costituenti.

Si viene così a creare un’interazione reciproca fra i mediatori solubili, la matrice extracellulare e le cellule.

Immediatamente dopo una ferita, la rottura dei vasi sanguigni provoca la formazione di un ematoma, che riempie la rima di frattura e circonda l’area di lesione ossea. Possono essere presenti frammenti di osso fratturato, che verranno poi riassorbiti. Si instaura uno stato di ipossia e acidosi e si forma il coagulo. L’ematoma fornisce anche una rete di fibrina che aiuta a sigillare il sito di frattura e allo stesso tempo agisce come trama di supporto alla presenza di cellule infiammatorie e alla crescita di fibroblasti e di bottoni vascolari. Simultaneamente l’ipossia e l’acidosi stimolano l’azione macrofagica. Inoltre, le piastrine degranulate e le cellule infiammatorie in migrazione rilasciano fattore di crescita

Il tessuto osseo

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piastrinico (PDGF), TGF-β e fattore di crescita fibroblastico (FGF) che agiscono attivando le cellule osteoprogenitrici nel periostio, nella cavità midollare e nei tessuti molli circostanti, oltre a favorire l’angiogenesi. Pertanto, alla fine della prima settimana, l’ematoma è in via di organizzazione e il tessuto adiacente viene modulato per la produzione di matrice ossea.

Il callo fusiforme e prevalentemente di tessuto molle (procallo) fornisce un labile ancoraggio, ma non una rigidità strutturale in grado di sostenere un carico. Di seguito, gli osteoblasti periostali attivati depositano trabecole di osso intrecciato orientate perpendicolarmente all’asse corticale, anche nella cavità midollare. Nei tessuti molli che circondano la linea di frattura le cellule mesenchimali attivate si differenziano in condroblasti con produzione di fibrocartilagine ialina. In una frattura non complicata, il tessuto di riparazione raggiunge l’estensione massima alla fine della seconda o terza settimana, il che aiuta la stabilizzazione anche senza la resistenza necessaria per sostenere il carico. Quando l’osso intrecciato reattivo intramidollare e subperiostale raggiunge la cartilagine neoformata lungo la linea di frattura, quest’ultima va incontro ad un processo di ossificazione endocondrale. In questo modo si forma un callo osseo il quale, dopo la mineralizzazione, acquisisce sufficiente consistenza e rigidità per sostenere almeno un carico controllato (Rosati, 1992).

Breve storia dell’implantologia

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2 BREVE STORIA DELL’IMPLANTOLOGIA

Intorno alla metà degli anni ’60, gli impianti dentari venivano usati in numero assai limitato e il design di questi dispositivi era ancestrale se paragonato a quelli attuali. Nessun impianto, inoltre, era stato sottoposto a ricerche cliniche che ne convalidassero l’efficacia. Sebbene qualche caso clinico di “successo” fosse stato riportato all’attenzione dei pochi sostenitori della tecnica, rimanevano limitati i casi clinici sufficientemente documentati.

Durante lo studio sulla microcircolazione vasale nei meccanismi di riparazione ossea, Brånemark notò che una struttura in titanio inserita chirurgicamente nella tibia di un coniglio si ancorava direttamente e assai tenacemente al tessuto osseo. Tali studi portarono alla elaborazione di un protocollo operativo per ottenere l’osteointegrazione (Brånemark et al., 1969) e, successivamente, alla pubblicazione del primo rapporto clinico (Brånemark et al., 1977).

Per-Ingvar Brånemark inserì il primo impianto dentario nel 1965 e nei cinque anni che seguirono, i suoi risultati clinici furono insoddisfacenti al punto che egli stesso ventilò l’ipotesi per cui materiali estranei non potevano funzionare nel contesto della cavità orale per diversi motivi, incluso il rischio di infezione.

I risultati clinici su pazienti trattati con il sistema Brånemark migliorarono durante i primi anni ’70, non tanto grazie a parallele ricerche e sperimentazioni animali, quanto piuttosto ai tentativi empirici che venivano eseguiti direttamente in fase operatoria cambiando alcuni parametri: i tempi di guarigione vennero prolungati, gli impianti subirono trasformazioni rilevanti e cambiarono l’approccio chirurgico e quello protesico. Si cominciò a parlare timidamente di osteointegrazione senza che peraltro il concetto fosse pienamente compreso.

Fino a quegli anni, i criteri per decretare il successo di un trattamento implantare consistevano in una perdita di osso che non superasse un terzo dell’altezza dell’impianto e una sua mobilità in tutte le direzioni dello spazio che non fosse

Breve storia dell’implantologia

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superiore a un millimetro: un vero e proprio fallimento se confrontato con le esigenze attuali.

Il primo ricercatore che riuscì a provare chiaramente l’integrazione di un impianto nell’osso fu Schroeder che, negli anni ’70, incominciò uno studio totalmente svincolato dal team svedese (Schroeder et al, 1978). Usando tecniche innovative per sezionare simultaneamente l’osso decalcificato e l’impianto, senza perdere preventivamente l’ancoraggio, la sua equipe rilevò, dal punto di vista istologico, l’avvenuta integrazione degli impianti in titanio con il tessuto osseo.

Momento fondamentale fu il 1983, anno in cui Zarb organizzò a Toronto il primo importante congresso internazionale sulla osteointegrazione in odontostomatologia. I risultati della conferenza vennero pubblicati in un volume separato del Journal of Prosthetic Dentistry (Zarb, 1983). Del 1985 è la pubblicazione del libro Tissue Integrated Prostheses: Osseointegration in Clinical

Dentistry dello stesso Zarb, cui va il merito di aver riconosciuto l’importanza dell’osteointegrazione e di aver diffuso il messaggio di questa tecnica rivoluzionaria destinata a cambiare il corso della storia odontoiatrica negli anni a venire.

Il fenomeno dell’osteointegrazione non interessò esclusivamente il campo odontoiatrico, risalgono infatti a quegli anni le prime protesi craniofacciali osteointegrate per la sostituzione di parti del volto mancanti.

Oggi l’osteointegrazione degli impianti dentari, pur essendo una realtà clinicamente ben nota e universalmente impiegata, non trova ancora una comune spiegazione eziopatogenetica. Per alcuni autori, questo processo è la risultante di una sorta di reazione da corpo estraneo maturata dal tessuto osseo nei confronti dell’impianto; per altri ricercatori, invece, si tratta di una più complessa risposta ossea che varia quantitativamente a seconda del tipo e della ruvidezza superficiale del biomateriale inserito (Letić-Gavrilović et al., 2000; Wiskott e Belser, 1999).

Breve storia dell’implantologia

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