Glottodidattica e glottotecnologie
3.5 Quale futuro per il duopolio televisione e apprendimento?
3.6.2 Il metodo Skilla di Amicucci Formazione
Il metodo Skilla (Amicucci, 2013) si compone di dieci punti ed è frutto di ricerche e sperimentazioni nel settore per rinnovare la formazione e fornire abilità in grado di stare al passo con le innovazioni e le sfide del nostro tempo. Ne riportiamo una sintesi:
1. “Ricercare la bellezza in tutto ciò che ci circonda” attraverso una propria scuola di design che studia l’estetica delle interfacce e dei software per l’apprendimento e crea prodotti esteticamente gradevoli, che suscitano senso di leggerezza e di quiete.
2. “Cogliere con chiarezza l’essenza delle cose” grazie ad una spiccata capacità di sintesi, per semplificare la descrizione,
l’acquisizione e la memorizzazione di molteplici informazioni. Ciò permette di abbattere i tempi di apprendimento stimolando l’intelligenza sintetica individuata da Gardner (2014 [2006]) (cfr. cap. 2.10).
3. “Stimolare il desiderio e la passione di migliorare continuamente”. L’educatore non tiene lezioni cattedratiche ma crea ambienti di apprendimento reali e virtuali pieni di occasioni di studio da frequentare in modo personalizzato. 4. “Dare forma ai sogni e alle aspettative delle persone e delle
organizzazioni” per cogliere le opportunità offerte delle grandi trasformazioni in atto.
5. “Vivere da protagonisti e con piacere le innovazioni tecnologiche” mettendo le competenze digitali al centro di ogni programma formativo aziendale.
6. “Visualizzare pensieri per presentare e condividere idee” sfruttando infografiche e visual thinking.
7. “Ricercare approcci creativi e continua innovazione” per acquisire la capacità di adeguarsi al mondo in continua evoluzione.
8. “Portare nel futuro il meglio della nostra tradizione culturale ed artistica”. Ogni percorso formativo Skilla menziona un’opera d’arte e un’opera di letteratura da osservare e per riflettere.
9. “Generare emozioni positive, benessere, stupore” attraverso l’utilizzo di linguaggi meno seriosi come cartoni animati, fumetti, giochi coinvolgenti e autoironia.
10. “Operare con concretezza, rigore scientifico, rapidità, focalizzazione” per perseguire risultati concreti.
3.6.3 Il Modello Dinamico della Sensibilità Interculturale di Bennett
Per la formulazione dei contenuti di Club Med Training, Amicucci formazione si è basata sui “Principi di comunicazione interculturale” di Bennett (2015: 23-131).
Bennett distingue fra “assimilazione” e “adattamento” interculturale. L’assimilazione è una sorta di emulazione del comportamento della cultura ospitante. Ad esempio, un immigrato, che si “risocializza” nel paese che lo accoglie, rischia di perdere la propria visione del mondo culturale di origine perché la rifiuta o semplicemente perché cade in disuso. L’assimilazione ha, dunque,
un effetto “sostitutivo”.
L’adattamento, invece, ha effetto “aggiuntivo” e avviene al termine di una sequenza di sviluppo perché permette di acquisire comportamenti appropriati alla nuova cultura pur mantenendo i modi della propria cultura di origine.
Pertanto, quando Bennett parla di “competenza interculturale”, intende la competenza come sinonimo di adattamento.
Per acquisire competenza interculturale, bisogna osservare e comprendere le differenze - fra la propria cultura ed un’altra - denominate da Bennett “cornici culturali”: uso del linguaggio, comportamento comunicativo non verbale, stile comunicativo, stile percettivo, assunti culturali e valori.
Il “Modello Dinamico della Sensibilità Interculturale” (MDSI), elaborato da Bennett a partire dal 1986, descrive, in sei fasi, il modo in cui le persone diventano “adattative” dal punto di vista interculturale.
Le prime tre fasi sono “etnocentriche”, ossia l'individuo mette al centro la sua esperienza rispetto a quella altrui: Negazione (1), Difesa (2), Minimizzazione (3).
1. In un primo momento, la “negazione” della differenza culturale porta le persone a usare stereotipi per denigrare, anche aggressivamente, la diversità dell’altro (straniero o immigrato). Ciò è dovuto all’incapacità di (o al disinteresse nel) differenziare le culture per mancanza di categorie cui fare riferimento e su cui costruire le differenze.
2. Una volta riconosciuta la diversità fra la propria cultura e quella dell’altro - anche se in modo stereotipato - si passa alla “difesa” della propria, ritenuta come l’unica valida. Si suddivide la visione del mondo in “noi” (intesi come portatori di valori positivi) e “loro” (con accezione negativa). Molto spesso non si ha una “auto-consapevolezza culturale” completa. Talvolta, perfino alcuni programmi di mentoring aziendali potrebbero mascherare tale atteggiamento. Esiste anche la possibilità di una “difesa al contrario” (reversal) in cui si arriva a denigrare la propria cultura perché si considera superiore l’altra. Ciò può succedere sia alle persone della cultura non dominante sia a quelle della cultura dominante. 3. Finché si giunge alla “minimizzazione” delle differenze
culturali valorizzando solo le similarità fra i “nostri” e i “loro” valori universali religiosi, economici, politici, filosofici.
Le successive tre fasi sono “etnorelative”, in cui l’individuo non teme più la diversità, non cerca più di preservare categorie e ne elabora di nuove: Accettazione (4), Adattamento (5), Integrazione (6).
4. L’“accettazione” come riconoscimento della differenza sia nel comportamento sia nei valori. Si apprezza che ognuno abbia la propria visione del mondo. Si interpretano i comportamenti dell’altro all’interno del contesto di riferimento. Non è detto che accettare sia sinonimo di accordo. Si trovano in questa fase anche coloro che possiedono abilità linguistiche o comportamentali di un’altra cultura, anche se non conoscono la loro applicazione in modo culturalmente appropriato.
5. Quando si riesce ad assumere la prospettiva altrui, allora si possiede “competenza interculturale”. Ciò crea ricettività, una sensibilità alle differenze culturali, alle situazioni e alle esperienze alternative che Bennett definisce con il termine “empatia”: un “adattamento” reciproco che porta alla costruzione di una “terza cultura” virtuale perché esiste solo nell’interazione fra la propria cultura (la prima) e l’altra (la seconda).
Bennett (Ivi, 172-194) distingue anche fra “simpatia” ed
“empatia”. Grazie alla simpatia, ci si mette nei panni altrui ma considerando le esigenze degli altri in modo etnocentrico (ovvero mettendo al centro la propria visione). Quando c’è empatia, invece, si interagisce con l’altro immaginando di mettersi nella sua posizione. È una “presa di prospettiva”, è l’atteggiamento corretto da assumere in una realtà in cui sono presenti più culture. Per raggiungere l’empatia bisogna superare sei fasi: (a) assumere la diversità: immaginarsi diversi; (b) conoscersi: per non perdersi occorre essere coscienti della propria identità costituita dai nostri valori, dalle credenze culturali e individuali; (c) sospendere il sé: mettendo da parte la propria identità per espandere questo confine; (d) consentire l’immaginazione guidata: per partecipare all’esperienza altrui; (e) consentire l’esperienza empatica: per vivere momentaneamente l’esperienza dell’altro; (f) ristabilire il sé: tornare in se stessi arricchiti.
6. Infine l’“integrazione” comporta la creazione di una nuova identità aggiuntiva a quella di origine.