1. INTRODUZIONE
1.1 LE MALATTIE NEURODEGENERATIVE
1.1.3 La malattia di Parkinson
1.1.3.2 MODELLI ANIMALI DI PD
I modelli in vivo di PD cercano di comprendere quanti più aspetti della malattia possibili e nel corso degli anni ne sono stati usati di diversi tipi. Esistono modelli farmacologici, lesivi o genetici di PD, ma nessuno di questi riesce a riprodurre collettivamente ed appieno tutte le caratteristiche cliniche (sintomi come acinesia, rigidità), patofisiologiche (danno da stress ossidativo, infiammazione, inibizione del complesso I, ubiquitinazione del proteosoma), morfologiche (degenerazione del tratto nigro-striatale e deposizione di corpi di Lewy) e biochimiche (riduzione della dopamina striatale) di questa patologia. [Jackson-Lewis et al, 2012]
35 Ogni modello va quindi selezionato in base a quali aspetti della malattia ci si pone d’indagare. In particolare agli scopi di questo lavoro di tesi abbiamo scelto un modello che ne riproducesse i sintomi cognitivi. Qui di seguito invece vengono ricapitolati alcuni esempi di modelli animali usati fino ad ora nell’indagine scientifica nell’ambito della malattia di Parkinson.
MODELLI FARMACOLOGICI:
Tra i più noti modelli farmacologici di PD usati in ricerca troviamo quelli che si basano sulla somministrazione della reserpina o dell’aloperidolo in roditori. Gli animali trattati con queste sostanze infatti mostrano alcuni disturbi motori peculiari del PD, (quali tremore, rigidità ed ipocinesia), che possono essere revertiti dal trattamento con L-DOPA. [Duty e Jenner, 2011]
In particolare, la reserpina blocca l’immagazzinamento delle amine biogene (dopamina, noradrenalina e serotonina) nelle vescicole sinaptiche, andando ad alterare la trasmissione monoaminergica ed inducendo i sintomi motori della malattia, ma al contempo non produce effetti sul versante della degenerazione dei neuroni dopaminergici. [Colpaert, 1987]
L’aloperidolo invece agisce come antagonista dei recettori dopaminergici D2, ed in minor estensione anche di quelli D1, espressi sui neuroni che costituiscono la via diretta ed indiretta del circuito motorio. Il blocco della trasmissione dopaminergica striatale risulta in una diminuzione del firing dei circuiti dei gangli della base e provoca rigidità motoria e catalessi. [Sanberg, 1980]
Altri modelli sviluppati comprendono quelli che utilizzano gli inibitori del proteosoma (PSI) oppure composti che provocano infiammazione tipo il lipopolisaccaride (LPS). [Dutta et al, 2008]
Nonostante questi modelli abbiano avuto grande importanza per la scoperta di nuovi farmaci sintomatici per il PD, presentano però delle limitazioni. Ad esempio i loro effetti sono temporanei e ciò limita molto la loro utilità per studiare gli effetti di sostanze nel lungo termine; inoltre non possono essere utilizzati per indagare nuove strategie di neuroprotezione o di riparazione cellulare.
MODELLI LESIVI:
A questo gruppo appartengono i modelli animali di PD più usati e studiati. Attraverso l’uso di specifiche tossine è infatti possibile riprodurre una delle principali caratteristiche anatomiche e patologiciche della malattia di PD, che consiste nella degenerazione dei neuroni dopaminergici.
Le tecniche di lesione che fin’ora hanno dato i migliori risulatati sono state ottenute in roditori e consistono nell’iniezione stereotassica unilaterale in SN o nella banda mediale del
36 prosencefalo della neurotossina 6-idrossidopamina (6-OHDA), in modo da riprodurre un modello emi-parkinsoniano in cui la via dopaminergica nigro-striatale viene distrutta [Silverman, 1993], e nella somministrazione sistemica del composto 1-metil-4-fenil-1,2,3,6-tetraidropiridina (MPTP), inibitore del complesso I mitocondriale, che causa la morte dei neuroni dopaminergici. [Langston e Ballard, 1984; Langston, 1987]
Fig. 1.7: La disfunzione mitocondriale ed il danno ossidativo rappresentano i due principali meccanismi attraverso cui le neurotossine inducono la morte dei neuroni dopaminergici.
Nello specifico, la 6-OHDA viene portata all’interno della cellula tramite il trasportatore della dopamina ed una volta dentro genera radicali liberi. Il MPTP invece è convertito dalla monoamina ossidasi B (MAOB) a MPP+ (1-metil-4-fenilpiridinum), che attraverso il trasportatore della dopamina si accumula nei mitocondri andando ad inibire il complesso I e causando apoptosi. Lo stesso identico effetto è causato
anche dal rotenone. Inoltre, si è visto che entrambi questi composti aumentano l’erspressione dell’alfa-sinucleina, che a sua volta contribuisce alla formazione dei corpi di Lewy, caratteristica peculiare del PD.
[Beal, 2001]
La tossina 6-OHDA provoca danno neuronale inducendo processi di stress ossidativo e causando la morte delle cellule dopaminergiche in maniera dose-dipendente. [Ungerstedt, 1971] Questa tossina infatti presenta una struttura analoga a quella della dopamina, ed un’elevata affinit{ per il trasportatore di questa monoamina, il quale rappresenta quindi la via d’ingresso preferenziale di questa sostanza nei neuroni. Una volta entrata nelle cellule, la 6-OHDA si accumula nel citoplasma e va incontro ad auto-ossidazione, con concomitante formazione di radicali liberi. [Schober, 2004] Gli animali lesionati con questa neurotossina mostrano assimetria posturale (tendono a girare in senso ipsilaterale rispetto al lato
37 lesionato), discinesia e deficit cognitivi, specialmente nei compiti in cui è richiesto l’impiego della working memory. [Perez et al, 2009]
Il modello che si basa sull’impiego della neurotossina MPTP, sembra essere uno dei più pertinenti in quanto a riprodurre gli aspetti patologici del PD. Si è visto che animali trattati con questa sostanza presentano perdita di neuroni dopaminergici nel nucleo caudato, nel putamen, nella substantia nigra ed in altre regioni sottocorticali del tronco cerebrale [Mavridis et al, 1991]; ed in minor estensione anche di neuroni noradrenergici e serotoninergici nelle stesse zone. [Pifl et al, 1991] Inoltre, c’è un’aumento nell’espressione dell’alfa-sinucleina e della sua aggregazione nei corpi di Lewy. [Beal, 2001] Gli effetti motori provocati sugli animali rispecchiano egregiamente quelli riscontrati sui pazienti umani.
Altri modelli, che si basano sulla degenerazione del tratto nigro-striatale, includono quelli in cui vengono somministrati in modo sistemico pesticiti, quali il rotenone ed il paraquato, poichè si pensa che questi possano aumentare il rischio di sviluppare il PD. [Dawson et al, 2002; Duty e Jenner, 2011] (Fig. 1.7)
Molti di questi modelli sono stati utili per capire alcuni aspetti della patogenesi del PD, tuttavia non sono adatti per lo studio di terapie farmacologiche atte a curare la malattia.
MODELLI TRANSGENICI:
Dato che il 10% dei casi di PD possono essere associati a cause genetiche, sono stati sviluppati dei modelli animali che riproducono alcune delle maggiori mutazioni riscontrate nei pazienti umani.
In particolare, si è andati ad agire sull’espressione dell’alfa-sinucleina (principale componente dei LB trovati nel tessuto cerebrale di PD) [Chesselet, 2008; Blandini e Armentero, 2012] e sono state effettuate delle alterazioni nei geni coinvolti nella via di ubiquitinazione del proteosoma (come ad esempio quelli codificanti per parkina e DJ-1). [McNaught et al, 2002]
Tuttora però, nonostante sia stata fatta più chiarezza sulle vie biochimiche su cui intervengono tali mutazioni, non si è riusciti a comprendere se la presenza degli aberranti aggregati proteici che ne conseguono, sia la causa o l’effetto del processo neurodegenerativo che caratterizza la malattia di Parkinson. [Blandini e Armentero, 2012] Anche perchè, pur esprimendo le inclusioni proteiche, nessuno di questi modelli transgenici presenta neurodegenerazione.
1.1.3.3 APPROCCI TERAPEUTICI
Nonostante l’estenuante ricerca associata al PD, ad oggi non esistono ancora cure per questa malattia. Il miglior trattamento disponibile è costituito dalla terapia dopaminergica di replacement, che però è in grado soltanto di alleviare i sintomi motori. Questa strategia
38 terapeutica è basata essenzialmente sull’assunzione di farmaci, come la levodopa (L-DOPA, precursore della DA) o gli agonisti dopaminergici, o gli inibitori degli enzimi di degradazione di questa monamina, che cercano di correggere la deficienza dopaminergica. [Katzenschlager e Lees, 2002; Smith et al, 2012]