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I modelli di crescita endogena trainati dal progresso tecnologico e dallo

1.2 La teoria economica mainstream e i modelli di crescita: una rassegna

1.2.2 I modelli di crescita endogena trainati dal progresso tecnologico e dallo

Al fine di superare i limiti del modello di Solow-Swan (Solow 1956, Swan 1956), sono stati successivamente sviluppati modelli più avanzati e complessi, il cui obiettivo principale era quello di indagare su uno degli elementi di maggiore instabilità del sistema economico, ovvero la mancata convergenza reddituale fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Si tratta dei c.d. modelli di crescita endogena, che accolgono la possibilità di aggiustamenti interni (seppur limitati) del sistema, attraverso l’adozione di opportune scelte di politica economica. In particolare, in questo specifico ambito si sono sviluppati due grandi filoni di ricerca:

I. una prima corrente di pensiero incentrata sul concetto e valore del capitale umano, inteso come forma di bene capitale incorporato nel lavoratore, e da utilizzare per stimolare e favorire – sulla base dei processi di on-the-job training – lo sviluppo della tecnica applicata alla produzione (Lucas 1988, Becker et al. 1990, Barro 1991, Rebelo 1991, Mankiw et al. 1992);

II. e una seconda corrente orientata al concetto di ricerca e sviluppo come variabile esplicativa della produttività del fattore lavoro, e all’analisi dei nessi di interdipendenza che legano quest’ultima alle competenze individuali e agli investimenti in capitale delle imprese (Romer 1989, Grossman e Helpman 1991, Aghion e Howitt 1992 e 1998).

Gli elementi comuni a entrambi gli approcci possono essere rinvenuti nella presenza di rendimenti di scala crescenti – per cui la produttività aumenta al crescere della dimensione della scala di produzione – e nella possibilità di apportare modifiche significative alla qualità dei beni prodotti sfruttando i vantaggi derivanti dai processi di

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learning by doing45. In tal senso, assume particolare rilevanza il processo di generazione

e diffusione della conoscenza.

Nello specifico, il primo filone di ricerca citato si propone di spiegare le divergenze di produttività in termini di capitale umano. I teorici dello sviluppo qualitativo del fattore lavoro cercano di indagare i nessi fra capitale umano, conoscenza tecnica, formazione professionale e abilità. Secondo questo approccio, anche gli aspetti intangibili propri del fattore lavoro sono suscettibili di miglioramento e di accumulazione. In particolare, quest’ultimi sono funzione positiva dell’investimento realizzato nei processi di formazione e di addestramento del personale.

Pur fatta salva l’ipotesi di rendimenti marginali decrescenti dei fattori produttivi a livello di singola impresa, un maggiore investimento in istruzione e formazione può – attraverso gli effetti spillover46 di conoscenza – consentire un accrescimento generale

dell’efficienza dell’intero processo produttivo, conducendo a rendimenti di scala crescenti. Conseguentemente, si può supporre che per effetto delle economie di scala a livello settoriale, i rendimenti marginali del capitale siano costanti e non tendenti a zero. Tali assunzioni sono alla base dei tipici modelli di concorrenza perfetta, dove l’accumulazione di capitale fisico e immateriale è condizione necessaria per la crescita di lungo periodo, mentre il sistema delle preferenze e la discrezionalità nell’approccio di politica economica consentono di spiegare la mancata convergenza dei tassi di crescita interregionali.

Quindi, essi convergono a conclusioni molto meno nette del modello di Solow (1956), in quanto prevedono la possibilità di indirizzare e guidare la crescita attraverso scelte centralizzate di politica economica. Partendo dall’ipotesi neoclassica di equilibrio di piena occupazione, tale approccio suggerisce di finanziare gli investimenti attraverso l’accumulazione di risparmio privato e/o pubblico. Il risparmio, dunque, incide in modo significativo sul tasso di crescita di lungo periodo, potendo modificarne in modo permanente la dinamica, nonché spiegare le differenze in termini di crescita fra Paesi.

45 In accordo con l’espressione coniata da Arrow nel 1962.

46 Secondo Mohnen (1996), le esternalità positive generate all’interno di un settore produttivo non solo ne migliorano l’efficienza aggregata ma – attraverso gli scambi commerciali – si diffondono anche al di là dei confini nazionali.

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In questa prospettiva, politiche statali espansive, accrescendo l’indebitamento di matrice pubblica, potrebbero riflettersi negativamente sul ciclo economico e dare luogo, mediante un aumento dei tassi di interesse, a un effetto spiazzamento degli investimenti (Spencer e William 1970, Friedman 1978). Inoltre, anche se si decidesse di finanziare la crescita attraverso la spesa pubblica, non vi sarebbe alcuna garanzia circa la produttività degli investimenti. Difatti, secondo Barro e Sala-i-Martin (1995), gli investimenti pubblici sono produttivi solo se realizzati per migliorare la dotazione infrastrutturale di famiglie e imprese, indipendentemente dalle logiche politiche ed economiche interne. Difatti, investimenti di natura clientelare e lobbistica possono condurre a un congestionamento delle aree interessate e a una crescita esponenziale del rapporto capitale/lavoro, con risultati del tutto marginali sui livelli occupazionali.

Tuttavia, anche se formalmente eleganti, tali teorie non sembrano in grado di spiegare compiutamente come Paesi con forti ritardi strutturali e deficit di risorse produttive (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan in primis) abbiano – negli ultimi decenni – conosciuto straordinari processi di sviluppo industriale, nonché tassi di crescita anche tre o quattro volte superiori rispetto ai Paesi più ricchi. Esse si limitano a prescrivere l’adozione di paradigmi omogenei di politica economica anche in contesti produttivi e sociali profondamente diversi. In altre parole, l’implementazione da parte dei Paesi relativamente più poveri delle misure adottate con successo dai Paesi industrializzati sarebbe condizione necessaria e sufficiente per ottenere il medesimo saggio di crescita. Una visione per alcuni versi univoca, che non tiene conto del complesso sistema di variabili interne alle equazioni di sviluppo delle realtà socio-economiche attuali; e fra cui possiamo citare, ad esempio, la crescente sperequazione e disuguaglianza reddituale a livello mondiale (Parente e Prescott 1993, Jones 1997, Pritchett 1997, Parente 2001). Per quanto concerne, invece, il secondo grande filone di ricerca riportato, esso si propone di spiegare le divergenze nei tassi di crescita economica in termini di “concentrazione tecnologica”. Un ruolo di primo piano è ivi assunto dalla spesa in ricerca e sviluppo, la quale consentirebbe non solo di attivare il sistema produttivo, ma anche di generare rendimenti di scala crescenti. In particolare, l’adozione di innovazioni di processo e di prodotto consente alle imprese di acquisire un vantaggio competitivo e

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duraturo sui mercati di vendita; tuttavia, le tecnologie sviluppate non sono equamente divise, ma oggetto di monopolio da parte degli agenti economici più inclini al rischio. Difatti, le innovazioni di successo richiedono considerevoli investimenti in ricerca, i quali saranno caratterizzati ineluttabilmente da un certo grado di rischio. E solo gli agenti più intraprendenti e con maggiori disponibilità di risorse potranno accedervi e sfruttarne i vantaggi relativi. Sulla base di questo schema concettuale, i teorici dello sviluppo asimmetrico generato dalla concentrazione della spesa in ricerca e sviluppo, sviluppano i c.d. modelli di concorrenza imperfetta a due settori, dove solo uno di essi detiene le conoscenze tecniche industriali necessarie alla massimizzazione dei profitti.

Anche in questo caso, però, essi non motivano adeguatamente il processo di mancata convergenza su scala internazionale. Difatti, se è pacifico che i Paesi ricchi (early entrants) investano più risorse in ricerca e sviluppo dei Paesi arretrati (late comers), è pur vero che quest’ultimi non hanno alcun bisogno di immobilizzare risorse in questo settore, in quanto le conoscenze industriali sono già disponibili sul mercato. Sarebbe allora sufficiente la loro semplice implementazione per eliminare il gap strutturale e reddituale fra i primi e i secondi. In altre parole, quanto più un Paese è distante dalla “frontiera tecnologica”, tanto maggiore dovrebbero essere le sue possibilità di sviluppo. In definitiva, entrambi gli approcci sembrano concentrare la loro attenzione sugli interventi strutturali dal lato dell’offerta, accantonando il possibile ruolo rivestito dalla domanda aggregata, che cercheremo, invece, di approfondire e contestualizzare nei paragrafi successivi.

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1.3 UN APPROCCIO CRITICO ALLA TEORIA MAINSTREAM BASATO SUI MODELLI DI

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