La stesura di questa monografia su Dante nasce dal desiderio di offrire ai lettori l’immagine di Dante e della sua opera, che si è formata nella mente dell’autore durante il lungo lavoro della traduzione. L’intento di questo saggio non è quello di essere uno studio scientifico sulla figura e l’opera dantesca, ma piuttosto quello di delineare in maniera suggestiva un ritratto poetico di Dante che incontri la sensibilità del lettore spagnolo contemporaneo.
Il libro è strutturato in sette capitoli. Il primo e il secondo capitolo,“Dante en Florencia” e “Dante en el exilio”, dividono significativamente in due epoche la vita del poeta, evidenziando il suo rapporto con la città e la sua forzata lontananza da essa. I capitoli terzo e quarto sono dedicati alle opere dantesche, e gli ultimi tre alla Commedia, prima secondo una visione generale, passando poi all’analisi dell’allegoria, della simbologia numerica e degli enigmi, e concludendo con la riproposizione dello studio sul ruolo strutturale delle metamorfosi.
Il capitolo relativo ai primi anni della vita di Dante a Firenze si apre con un’estesa citazione ed analisi del sogno premonitore della madre di Dante, riportato dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante1. Il passo viene appositamente tradotto da Crespo. Questo sogno, allegorico e profetico, funge, nel saggio, da dichiarata messa a fuoco del valore della figura e dell’opera dantesche di cui il primo presupposto è che “Dante fue fundamentalmente y por encima de todo un poeta incomparable2”.
Il sogno costituisce un’allegoria profetica, di cui il Boccaccio stesso offre l’interpretazione in conclusione del Trattatello. Secondo la spiegazione boccaccesca, la nascita del bambino sotto l’alloro rappresenta il particolare dono poetico di Dante, che, nutrendosi esclusivamente della Poesia e della Filosofia (nel sogno la “chiarissima fonte”) diventa capace di dare nutrimento spirituale, “datore di pastura agli altri ingegni
1 “Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato
ad una chiarissima fonte, e quivi si sentia partorire uno figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo delle orbache, le quali dello alloro cadevano, e delle onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e s’ingegnasse a suo potere d’avere delle fronde dell’albero, il cui frutto l’avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere, e nel rilevarsi non uomo più, ma uno paone il vedea divenuto. Della qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorì uno figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome chiamaron Dante”. Giovanni Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, c. II, in La letteratura italiana storia e testi, vol. 9, Riccardo Ricciardi editore, Milano- Napoli 1965, p. 572.
di ciò bisognosi3”. Lo sforzo di raggiungere le foglie dell’alloro significa invece “l’ardente disiderio avuto da lui […] della corona laurea; la quale per nulla altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto” e il cadere in questo tentativo rappresenta la morte del poeta. In ultimo, il mutamento in pavone, allegoria della Commedia, indica il sopravvivere della fama di Dante. Le quattro caratteristiche del pavone raffigurano quelle della Commedia4: l’incorruttibilità delle sue carni rimandano all’immortalità del significato del poema, la bellezza del piumaggio e i cento occhi rappresentano la sua bellezza e la divisione in cento canti, i “sozzi piedi e tacita andatura” sono allegoria della lingua volgare e dell’umiltà dello stile comico “a rispetto dell’alto e maestrevole stilo letterale”, cioè il latino. Infine, quanto all’orribile voce del pavone, essa corrisponde al “sapor di forte agrume” (Par. XVII) del messaggio dantesco: “Chi più orribilmente grida di lui, quando con invenzione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle de’ preteriti gastiga?5”.
Il significato di tale premessa è quello di porre gli elementi dell’allegorico e del meraviglioso come presupposti di base per la comprensione e l’interpretazione dell’opera dantesca, considerando tali fondamenti la sua più evidente caratterizzazione poetica, e ciò che massimamente rende l’opera di Dante vicina all’epoca contemporanea in cui “lo mágico, lo esotérico, lo sobrenatural, en suma, ha vuelto a preocupar a unas generaciones desencantadas de la actitud pobremente racionalista que dominaba, hasta hace no tantos años a buena parte del pensamiento occidental6”.
Il primo nucleo tematico del testo è costituito dal ritratto di Dante.
Un dato di interesse per Ángel Crespo è che Dante, attraverso la sua origine da Cacciaguida e la sua stirpe, che si vuole discendente dai romani fondatori di Firenze, giunge a considerarsi cittadino di quell’Impero Romano voluto dalla Provvidenza che vide la nascita di Cristo, fattore determinante nella concezione dantesca del mondo e della storia.
3 Cfr. Trattatello, cit., c. XXIX.
4 Secondo le parole del Boccaccio “per lo qual mutamento assai bene la sua posterità comprendere
possiamo, la quale, come che nell’altre sue opere stea, sommamente vive nella sua Commedia, la quale, secondo il mio giudicio, ottimamente è conforme al paone, se le propietà de l’uno e de l’altra si guarderanno. Il paone tra l’altre sue propietà per quello che appaia, n’ha quattro notabili. La prima si è ch’egli si ha penna angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è che egli ha sozzi piedi e tacita andatura; la terza si è ch’egli ha voce molto orribile a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e incorruttibile”. Trattatello, cit., c. XXIX.
5 Ibidem.
Gli elementi che l’autore evidenzia in questa prima parte a carattere storico e biografico mostrano quale immagine della personalità di Dante Alighieri si sia formata nella mens del poeta spagnolo contemporaneo durante la sua lunga frequentazione dell’opera dantesca. Vi si legge tra le righe, una frequente identificazione del travagliato periodo storico vissuto da Dante, con quello non meno tormentato della guerra civile e della dittatura franchista, e attraverso questa identificazione un aperto messaggio ai contemporanei di invito al rinnovamento dell’uomo e della società. Il paradigma dantesco si pone quindi come ritrovamento delle proprie istanze poetiche e morali.
Crespo comincia la sua trattazione delineando un bozzetto storico della Firenze ai tempi di Dante e descrivendo il travaglio della città preda delle continue lotte intestine tra differenti fazioni, disegnando il contesto della formazione culturale e poetica di Dante. Racconta poi l’amicizia di Dante con Guido Cavalcanti, di cui dice “tenía fama de extravagante y herético7”, e descrive la figura di Brunetto Latini ambasciatore fiorentino presso la corte di Alfonso X, supposto tramite di Dante con la cultura mistica islamica, e in particolare con le teorie del mistico Ben Arabí de Murcia, secondo gli studi di Asín Palacios8 del 1919.
Nel progredire della sua esposizione, Crespo offre una scelta contestuale di passi dal Convivio, dalle Epistole, dalla Vita Nuova, dalle Rime e dal Fiore, che traduce e commenta. Come emerge dal carteggio con Pedro Gimferrer, riportato in appendice, l’ambizione del poeta era quella di tradurre tutta l’opera dantesca. Queste traduzioni sono dunque da lui considerate il suo apporto più personale ed originale9 alla dantologia ispanica.
Un altro momento della vita di Dante significativo per Crespo, e la cui descrizione è occasione per tradurre un passo dal Convivio10, è il racconto della temporanea cecità di Dante, per cui il lume delle stelle gli sembrava opaco, e della sua guarigione con il riposo e i bagni di acqua fredda, per intercessione di S. Lucia, che per
7 Ivi, p. 24.
8 Ángel Crespo si riferisce qui all’opera La escatología musulmana en la Divina Comedia, presente nella
sua biblioteca personale nell’edizione del Instituto Hispano Árabe de Cultura, Madrid 1961.
9 Mi limito a riportare e commentare le traduzioni dei sonetti danteschi nel capitolo precedente, come
proseguimento del discorso sulla traduzione poetica svolto in questa tesi. Tralascio invece l’analisi delle traduzioni crespiane della prosa dantesca, limitandomi a darne notizia, perché non coerenti alla mia trattazione sulla traduzione poetica.
10 “Per affaticare lo viso molto a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano
tutte d’alcuno albore ombrate. E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo dell’occhio coll’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai nel primo buono stato della vista”.
questa ragione è colei che, nella Commedia, sotto forma di aquila, trasporta Dante alla soglia del Purgatorio.
Nel delineare la personalità civile e morale di Dante, è significativa la descrizione della sua implicazione nella vita politica fiorentina e le vicende che ne determinarono l’esilio. Nel ricordare l’ambasciata a Roma del 1301, Crespo cita la celebre frase tradizionalmente attribuita a Dante “Se vado, chi resta? E se resto, chi va?11”. La comune sorte della lontananza forzata dalla patria costituisce un punto di immediata sintonia esistenziale tra Crespo e Dante: in uno dei saggi brevi precedentemente commentati12 Dante è nominato “el genial desterrado”.
Per descrivere lo stato d’animo di Dante nei primi anni dell’esilio Crespo cita e traduce un altro passo dal Convivio13, evidenziando la condizione del doloroso peregrinare dell’esule di corte in corte e l’umiliazione di dover vendere i suoi servigi di letterato presso chi non sempre ne riconosceva il valore morale e intellettuale.
Nel resoconto storico delle vicissitudini dell’esilio, Crespo traduce un brano dell’Epistola I14 per descrivere le circostanze che determinarono il tentativo armato dei Bianchi di rientrare a Firenze, represso violentemente con la sconfitta dei Guelfi Bianchi nella battaglia della Lastra, e la separazione tra Dante e i suoi compagni d’esilio, di cui parla Cacciaguida nella sua profezia in Par. XVII.
11 Ivi, p. 31.
12 Cfr. Lo dantesco, cit. p. 99.
13 “Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi
fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona inviliò, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.” Convivio I, III,4-
5,la traduzione in Dante y su obra, cit., p.35.
14 Scritta a nome dei fuoriusciti fiorentini di parte bianca e del loro capitano generale (Alessandro da
Romena) a Niccolò Albertini da Prato, vescovo di Ostia e Velletri, nonché legato apostolico a Firenze (dove era stato incaricato da Benedetto XI di tentare una riconciliazione tra Bianchi e Neri), la lettera, che risponde a una missiva del cardinale, esordisce scusando il proprio ritardo, causato non da ignavia o negligenza, ma dalla necessità di concordare all’interno della Fraternitas dei Bianchi una risposta comune all’ambasciatore del pontefice. Dopo aver dichiarato di aver preso le armi contro Firenze solo per difendere la libertà e la pace dei suoi abitanti, libertà e pace che agli esuli stanno a cuore tanto quanto al cardinale, Dante ringrazia l’Albertini per la sua opera di mediazione, meritevole di ricompense celesti, assicurandolo che egli e i suoi compagni sono pronti a porre fine alle ostilità in qualsiasi momento. La lettera, che preannuncia un’altra risposta di carattere ufficiale, si conclude con una professione d’obbedienza incondizionata degli esuli nei confronti del cardinale. La traduzione in Dante y su obra, cit., p. 38.
Nelle pagine successive, il poeta traccia un vero e proprio ritratto di Dante esiliato: “Dante vagó durante estos primeros años de su destierro de un lugar a otro, siempre con sus libros y sus papeles y con la esperanza, nunca perdida de volver a Florencia15”. Crespo dà anche informazioni che non hanno carattere storico, ma sono una sorta di immedesimazione con le condizioni di vita del poeta: “Dante, a pesar de los inconvenientes del exilio, debió sentirse libre, tal vez más libre que durante sus últimos años florentinos, tan mediatizados por la política, para dedicarse a su verdadera vocación de escritor16”, osservazione che ne ricorda una analoga di Crespo stesso riguardo al suo proprio esilio: “tengo todo el tiempo que no dedico a mis labores académicas para continuar siendo un escritor17”. La lettura dell’Epistola
III a Cino da Pistoia18 e del sonetto che essa accompagna che qui Crespo traduce19, in cui si trattano questioni poetiche d’arte e d’Amore, motivano l’immagine di Dante esule che “ocupado por los estudios y el amor, debía sentir que pese a todas las circunstancias adversas, se estaba realizando como escritor, y ello no podía por menos de darle fuerzas y hasta producirle optimismo20”.
Crespo segue le vicende biografiche e gli atteggiamenti che Dante assume negli eventi politici attraverso le epistole: dei tempi della discesa di Arrigo VII l’epistola V21
15 Ivi, p. 39.
16 Ivi, p. 40.
17Ángel Crespo, Notas sobre el exilio, manoscritto autografo, Mayagüez, 11 de marzo 1983. Inedito.
18 La lettera, comitatoria del sonetto “Io sono stato con Amore insieme”, risponde a un testo di Cino da
Pistoia, che interroga il poeta “se l’anima possa passare da una passione a un’altra [...] secondo la stessa potenza e per oggetti diversi di numero ma non di specie”. Ringraziato il suo interlocutore per avergli offerto la possibilità di accrescere la propria fama, chiamandolo a rispondere a un quesito molto dibattuto, Dante ammette che la passione per un oggetto possa affievolirsi e infine estinguersi, contemporaneamente al formarsi, nell’anima, dell’amore per un altro oggetto. Per dimostrare ciò il poeta ricorre a un sillogismo, le cui premesse dichiara di lasciare alla dimostrazione di Cino: ogni potenza che non si esaurisce con l’estinzione di un atto si conserva naturalmente per un altro; le potenze sensitive, permanendo l’organo, non si esauriscono col cessare di un solo atto e si riservano naturalmente per un altro; poiché la potenza del desiderio, che è la sede dell’amore, è una delle potenze sensitive è evidente che dopo l’estinguersi di una passione tale potenza rimane disponibile per un’altra passione. Rinviando per un’adeguata esemplificazione ad alcuni brani delle Metamorfosi ovidiane (III 611; IV 192), Dante invita l’amico a sopportare con paziente rassegnazione le avversità della Fortuna, leggendo Seneca e meditando sul versetto evangelico “se voi foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo” (Giov 15, 19).
19 Dante Alighieri, Rima
LXX, la traduzione di Crespo in Dante y su obra, cit., p.41. Cfr. supra, cap. 2.5
per il commento alla traduzione.
20 Dante y su obra, cit., p.41.
21 Epistola V [settembre-ottobre 1310]. In apertura a questa lettera Dante chiama se stesso “exul
immeritus”. Dopo aver annunciato l’avvento di una nuova èra di pace e di giustizia, invita l’Italia a rallegrarsi per l’imminente discesa del suo sposo, il neoeletto imperatore Arrigo VII, il quale porrà riparo alle discordie intestine che la affliggono. Biasimata la barbarie della stirpe lombarda, ribelle al potere imperiale, Dante esorta gli italiani ad assecondare la venuta del nuovo “Hectoreus pastor”, la cui autorità
“a tutti uno per uno, i Re d’Italia, e ai Senatori dell’alma Urbe, e ai Duchi, ai Marchesi, ai Conti, ai Comuni”, la VI22 “agli scelleratissimi fiorentini”, e la VII che conclude il trittico epistolare della discesa di Arrigo VII23, diretta all’imperatore stesso, in cui Crespo nota i toni del profeta “que increpa por amor a su proprio pueblo que se ha desviado del buen camino24”. Sono gli anni in cui Dante compone la Monarchia.
Lo stesso tono profetico di Dante “libre de prejuicios humanos” si ritrova anche nell’epistola XI25.
discende direttamente da Dio, come dimostra la storia stessa dell’impero romano, giunta al suo apice in quei dodici anni della pax augustea che la divina Provvidenza aveva predisposto per l’incarnazione di Cristo. Per questo Dante invita a onorare in Arrigo VII colui che lo stesso papa Clemente V (con l’enciclica Exultet in terris) illumina della luce della sua apostolica benedizione.
22 Epistola VI [31 marzo 1311]. Composta nella medesima occasione a cui si riferisce la lettera
precedente, quest’epistola, diretta agli “scelestissimis Florentinis intrinsecis”, esordisce ricordando che l’impero romano fu predisposto dalla Maestà Divina per assicurare agli uomini una società ordinata e pacifica, circostanza provata dal fatto che quando il seggio imperiale è vacante l’intero genere umano esce dal retto cammino e l’Italia cade in preda a laceranti lotte intestine. Rivolgendosi poi direttamente ai Fiorentini che, vittime della loro insaziabile cupidigia, si rifiutano di fare atto di sottomissione ad Arrigo VII e si preparano a opporgli resistenza armata, Dante invita i suoi concittadini a desistere dai loro empi propositi, ammonendoli sulla punizione riservata da Dio a chi contrasta la sua volontà, e mette in guardia Firenze dalla vendetta dell’imperatore, preannunciandole le molteplici devastazioni di un lungo assedio e di un’infausta capitolazione. Ricordando, che la vera libertà consiste nella lieta e spontanea sottomissione alle leggi dell’impero, fatte a immagine della “iustitia naturalis”, Dante inveisce contro la miserabile stirpe fiesolana, a cui profetizza una imminente distruzione. Infine la lettera esorta i Fiorentini a pentirsi per tempo della loro folle presunzione.
23 Epistola VII [17 aprile 1311]. Questa lettera, scritta dall’“exul immeritus” a nome suo e degli altri
fuoriusciti fiorentini (“omnes Tusci qui pacem desiderant”), si rivolge direttamente all’imperatore, salutandolo come sole a lungo desiderato, sorto a segnare l’alba di un’èra finalmente felice. Dopo aver ricordato ad Arrigo che la giurisdizione del suo impero si estende per diritto naturale su tutte le terre del pianeta e che lo stesso Cristo, sottomettendosi al censimento della popolazione decretato dall’editto di Augusto, sancì la legittimità del potere imperiale, Dante esorta il principe romano, allora intento a sedare la rivolta di alcune città lombarde, affinché rotto ogni indugio scenda risolutamente in Toscana per estirpare la vera radice di quella ribellione, annidata nella città di Firenze. Questa, infatti, non solo fomenta l’insurrezione delle altre città italiane contro l’imperatore, come una pecora infetta che contagia il gregge del suo padrone, ma cerca anche di seminare discordia tra lui e il pontefice. La lettera si chiude con l’auspicio di un prossimo rientro degli esuli nella città toscana, finalmente ricondotta sotto il vessillo augusteo.
24 Dante y su obra, cit., p. 44.
25 Epistola XI [maggio-giugno 1314]. Indirizzata ai cardinali italiani riuniti nel conclave che avrebbe
portato all’elezione di Giovanni XXII (1316), la lettera, che si apre con la citazione di un versetto delle
Lamentazioni di Geremia (I, I), esordisce paragonando la Gerusalemme assediata e distrutta, pianta dal
profeta, a Roma, la sede apostolica consacrata dal sangue dei santi Pietro e Paolo, ma abbandonata dai pontefici dopo il trasferimento di Clemente V ad Avignone. Denunciato lo scherno di cui è fatto oggetto il culto cristiano da parte degli infedeli, dei giudei e dei pagani a causa dell’esilio del papato in terra di Francia, Dante accusa i cardinali di aver condotto il carro della Chiesa fuori dalla via tracciata da Cristo e rammenta loro la punizione divina che li attende. Pur riconoscendosi ultima pecora del gregge cristiano, il poeta confida di poter suscitare con le sue parole sentimenti di vergogna e di pentimento in quei pastori della Chiesa che sono animati, non dalla giustizia o dalla carità, bensì dalla cupidigia. Dopo aver dichiarato che il suo sdegno è condiviso da molti, rinnova ai propri interlocutori l’invito a pentirsi e, rivolgendosi in particolare ai cardinali romani, cerca di muoverli a compassione per la sorte della loro città natale. Infine, rimproverati Napoleone Orsini e Jacopo Gaetano Stefaneschi per aver assecondato, in