Contestualmente al discorso storico, biografico e poetico che Crespo svolge nella monografia Dante y su obra1 vengono presentati in traduzione alcuni sonetti danteschi tratti dalle Rime, dalla Vita Nuova, e dal Fiore. Mi pare interessante considerarli brevemente come saggio di continuità e identificazione linguistico-formale del traduttore dopo sei anni2 di convivenza con l’opera dantesca. A fronte dell’esperienza e dell’interiorizzazione della forma della terzina incatenata, quindi di un discorso poematico di ampio respiro, si pone qui la compatta individualità del sonetto, forma perfetta, conclusa in sé e rigidamente strutturata nella misura e nel metro. Inoltre mi pare di estremo interesse la dimostrazione di una raggiunta unità linguistica – che si nota in graduale formazione nel progredire della traduzione delle cantiche della Commedia – tra il castigliano moderno e il nascente volgare fiorentino, testimonianza di quell’universalità linguistica dantesca di cui parla T.S.Eliot3, un ritrovamento, nell’ambito originario del volgare tripharium4, di una condizione pre-babelica di conformità metacronica di lingue sorelle.
Il sonetto che accompagna l’Epistola III a Cino da Pistoia5, costituisce un brano di “poesia dell’ineluttabile” (Contini), in cui Dante illustra la fatalità d’Amore, che arriva ad imprigionare l’arbitrio personale, e che trascina irresistibilmente nelle sue variazioni le facoltà raziocinanti.
Io sono stato con Amore insieme da la circulazion del sol mia nona e so com’egli affrena e come sprona, e come sotto lui si ride e geme. Chi ragione o virtù contra gli sprieme, fa come què che ‘n la tempesta sona, credendo far colà dove si tona esser le guerre de’ vapori sceme. Però nel cerchio de la sua palestra liber arbitrio già mai non fu franco,
Yo he estado con amor desde la hora en que el sol completó mi hora novena y sé cómo espolea y cómo frena y cómo, en su poder, se ríe y llora. Quien razón o virtud contra él perora es cómo aquel que en la tormenta suena creyendo hacer que en el lugar que truena calle el vapor su guerra atronadora. Pero donde se riñe su palestra
el libre albedrío nunca ha sido franco,
1 El Acantilado, Barcelona 1999.
2 La prima edizione di questa monografia (Dante, Dopesa, Barcelona 1979) segue di due anni la
pubblicazione della traduzione completa della Commedia.
3 Cfr. supra cap. 1.3, p. 37.
4 De Vulgari Eloquentia,I, VII. Cfr. supra cap. 1.3, p. 37.
sì che consiglio invan vi si balestra. Ben può con nuovi spron’ punger lo fianco, e qual che sia ‘l piacer ch’ora n’addestra, seguitar si convien, se l’altro è stanco.
y el buen consejo en vano allí se muestra. Bien puede herir con nueva espuela el flanco, que si un nuevo placer mi alma secuestra lo he de seguir, si a otro placer desbanco.
Non sono molte le notazioni utili, oltre quella generale dell’equilibrato parallelismo dei testi, che riproduce anche identica la griglia delle rime (ABBA, ABBA, CDC, DCD) dove nelle quartine la rima in –eme / –ona viene trasformata in –ora / – ena, mentre nelle terzine si trova la stessa rima usata da Dante in –estra/ –anco. La traduzione, lontano dall’essere una riproduzione letterale, mostra un equilibrio compositivo che ricrea effettivamente un testo omologo, parallelo all’originale.
La traduzione dei primi due versi mi sembra indicativa di una familiarità raggiunta, da parte del traduttore, con la poesia e la cosmologia dantesche. Nel primo verso, la perdita del rafforzativo dantesco “insieme” del complemento di unione, lascia spazio ad una maggiore estensione della perifrasi cosmologica che esprime il complemento di tempo. La perifrasi dantesca “da la circulazion del sol mia nona” viene allungata ed esplicitata in traduzione in una costruzione grammaticale diretta: “desde la hora / en que el sol completó mi hora novena”, cioè il nono anno di vita del poeta, dove gli anni del sistema tolemaico sono contati dai giri del sole intorno alla terra.
Esemplare anche il caso del verso 5 dove il dantesco “sprieme”, che significa esprimere, mettere in campo6, trova nello spagnolo “perora”, attraverso il latino “PERORĀRE” un perfetto trasferimento di senso, che evidenzia anche la sfumatura del discorso dottrinale sostenuto con forza. Mi pare interessante notare che dove Dante muove dal latino per creare il suo volgare, è tornando al latino che Crespo crea la lingua poetica dantesca nel castigliano moderno.
D’altra parte, lo spessore del linguaggio dantesco, in cui la creazione linguistica dà ad ogni parola la concrezione di una metafora, trova un certo appiattimento nella traduzione dove invece più spesso le parole indicano più astrattamente il concetto: ad esempio al v. 11 il verbo dantesco “balestra” (“si che consiglio invan vi si balestra”), perde il suo energico spessore metaforico, seppure nel massimo rispetto del significato nell’espressione crespiana “el buen consejo en vano allí se muestra” dove la lotta
6 Cfr. Siebzehner-Vivanti.
metaforica del “buon consiglio” contro la forza ineluttabile di Amore, perde in forza visuale nel più generico “farsi vedere” di quello stesso “buon consiglio”.
Interessante anche la traduzione dell’ultimo verso, dove le esigenze della rima distanziano maggiormente la soluzione traduttoria dall’originale: il dantesco “seguitar si convien, se l’altro è stanco” diventa “lo he de seguir, si a otro placer desbanco”, dove la traduzione introduce una perifrasi de obligación ribadendo così l’inesorabilità della forza d’amore, e il verbo “desbancar”, che nel suo significato di “soppiantare”, possiede proprio l’accezione particolare di “sostituirsi ad altri nell’affetto di qualcuno”.
Dalla Vita Nuova, Crespo cita e traduce7 il primo sonetto, la presentazione di Dante al gruppo dei rimatori toscani, fedeli d’Amore.
A ciascun’alma presa e gentil core nel cui cospetto ven lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente, salute in lor segnor, cioè Amore. Già eran quasi che atterzate l’ore del tempo che onne stella n’è lucente, quando m’apparve Amor subitamente, cui essenza membrar mi dà orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d’esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo.
A toda alma cautiva y amador corazón, a quien va el decir presente, porque decirme su opinión intente salud en su Señor, que es el Amor. Casi terciadas ya las horas, por
el tiempo en que todo astro es reluciente, presentóseme Amor súbitamente, recordar cuya esencia me da horror. Alegre Amor me apareció oprimiendo mi corazón, y en brazos sostenía a mi dama bajo un paño durmiendo. La despertó, y el corazón ardiendo humilde y temerosa se comía: y él lloró cuando ya se estaba yendo.
Anche in questo sonetto è interessante notare la riproduzione della griglia rimica, che ricalca lo schema dantesco, effettuando in questo caso un’interessante acquisizione linguistica delle rime dantesche: si noti la resa della rima in –ore che viene castiglianizzata in una rima in –or, e quella delle terzine avea / pascea che viene restituita con un fortunatissimo calco fonico e grammaticale nell’imperfetto spagnolo in –ía: sostenía / comía.
La ricercata mimesi lessicale della traduzione si attua qui alla perfezione nell’uso dantesco dei gerundi con valore di participio presente, uso non piú attuale in italiano, ma peculiare dello spagnolo: tre dei quattro gerundi delle terzine sono quindi
perfettamente trasposti nella traduzione, “tenendo”, “dormendo” e “ardendo” con “oprimiendo”, “durmiendo” e “ardiendo”.
Ancora da notare come la sintassi fiorentina del duegento mostri zone omogenee al castigliano moderno: il relativo “cui” del verso 8, che non sussiste nell’uso attuale dell’italiano senza l’articolo determinativo, è invece il gemello del relativo “cuyo”, identità che produce un verso veramente equivalente a quello dantesco.
Crespo traduce il sonetto Amore e cor gentil sono una cosa8, in cui Dante descrive la natura di Amore secondo la concezione della scuola stilnovista.
Amore e ‘l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e così esser l’un sanza l’altro osa com’alma razional sanza ragione. Falli natura quand’è amorosa,
Amor per sire e ‘l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi sì, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui, che fa svegliar lo spirito d’Amore. E simil face in donna omo valente.
Fiel corazón y Amor son igual cosa, tal como dice el sabio en su canción, y el uno sin el otro ser no osa, como alma racional sin la razón. Toma natura a Amor, si es amorosa, por dueño, y gentileza por mansión, y en su interior durmiendo ella reposa por tiempo breve o más larga estación. Si beldad cuerda dama manifiesta, la vista halaga, y quiere con ardor el corazón la cosa complaciente; Y tanto dura en él, que a veces ésta le despierta el espíritu de Amor.
E igual hace en la dama hombre excelente.
In questo come nel caso seguente valgono le stesse osservazioni sulla mimesi traduttoria.
Il sonetto Ne li occhi porta la mia donna Amore9tratta della capacità di Beatrice di risvegliare Amore in chi la contempla, e costituisce come una declinazione esperienziale o un’incarnazione storica della natura d’Amore espressa nei sonetti precedenti.
Ne li occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch’ella mira; ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core,
Lleva a Amor en los ojos mi señora, con que ennoblece a todo cuanto mira; todos se vuelven al pasar, e inspira temor al que saluda, y le enamora;
8 Vita Nuova, c. XX. La traduzione in Dante y su obra, cit., p. 57. 9 Vita nuova c. XXI.La traduzione in Dante y su obra, cit., p.59.
sì che, bassando il viso, tutto smore, e d’ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond’è laudato chi prima la vide.
Quel ch’ella par quando un poco sorride, non si pò dicer né tenere a mente, sì è novo miracolo e gentile.
pues, bajando los ojos, en tal hora por sus defectos, pálido, suspira: huyen delante de ella orgullo e ira. A honrarla, damas, ayudadme ahora. Todo dulzor y humilde pensamiento nace en el corazón que hablar la siente, y quien la ve primero es alabado. Decir o recordar es vano intento qué parece al mostrarse sonriente, pues milagro es gentil e inusitado.
Mi pare interessante notare qui, il caso della fortunata analogia semantica e sillabica tra il “bassare” dantesco e il “bajar” spagnolo: proprio nello stato nascente dell’italiano si trova il nucleo della fraternità e conformità linguistica con lo spagnolo.
Dei sonetti del Fiore, Crespo traduce il CI e il CLVIII10:
I’ sì so ben per cuor ogne linguag[g]io; Le vite d’esto mondo i’ ò provate: Ch’un’or divento prete, un’altra frate, Or prinze, or cavaliere, or fante, or pag[g]io, Secondo ched i’ veg[g]io mi’ vantag[g]io; Un’altr’or son prelato, un’altra abate; Molto mi piaccion gente regolate,
Ché co llor cuopr’ i’ meglio il mi’ volpag[g]io. Ancor mi fo romito e pellegrino,
Cherico e avocato e g[i]ustiziere E monaco e calonaco e bighino; E castellan mi fo e forestiere,
E giovane alcun’ ora e vec[c]hio chino: A brieve mott’ i’ son d’ogni mestiere.
De memoria me sé todo lenguaje, pues las vidas del mundo yo he probado ora en cura, ora en fraile transformado, en príncipe, en señor, en niño o paje. Según lo que yo veo y lo que encaje una vez soy abad y otra prelado; los de la regla siempre me han gustado, que oculto zorro soy en su ropaje. También romero he sido y peregrino, clérigo y abogado y justiciero, y fui monje y canonigo y beguino; y he sido castellano y forastero o bien joven o viejo mortecino; en dos palabras: todo oficio quiero.
Il traduttore ritiene che la descrizione che Falsembiante fa di se stesso nel sonetto CI, sia una delle parti più interessanti del poema, per gli attacchi spregiudicati che contiene contro il clero e la corruzione del tempo, di cui il personaggio si serve per i suoi scopi. Falsembiante, modellato sul Fauz Semblant del Roman de la Rose, rappresenta il compendio dell’ipocrisia e della doppiezza dei frati degli ordini
mendicanti, che ostentano povertà ma sono in realtà amici dei potenti e amanti della vita gaudente. In effetti il Fiore divulga così le accuse circolanti in Francia, tra gli intellettuali laici, contro gli ordini mendicanti dove dantescamente “si vaneggia” (Par. X, 96).
Nel sonetto CLVIII, la Vecchia, nelle cui parole “la gracia y el desparpajo se unen a una radical inmoralidad11” appare a Crespo come un autentico precedente della Trotaconventos dell’Arcipreste de Hita e della Celestina della tragicommedia rojasiana.
I’ lodo ben, se ttu vuo’ far amico, Che ‘l bel valletto, che tant’ è piacente, Che de le gioie ti fece presente
E àtti amata di gran tempo antico, Che ttu sì ll’ami; ma tuttor ti dico Che ttu no ll’ami troppo fermamente, Ma fa che degli altr’ ami sag[g]iamente, Ché ‘l cuor che nn’ama un sol, non val un fico. Ed io te ne chiedrò degl[i] altri assai,
Sì che d’aver sarai tuttor guernita, Ed e’ n’andranno con pene e con guai. Se ttu mi credi, e Cristo ti dà vita, Tu tti fodraï d’ermine e di vai, E la tua borsa fia tuttor fornita.
Te alabaré, si quieres un amigo, que a ese joven, tan guapo y atrayente, que de las joyas hízote presente y hace tiempo que quiere estar contigo, le ames también; pero también te digo que no debes amarle firmemente, sino que, amando a otros, seas prudente, que amor a uno no vale más que un higo. De otros te buscaré yo buena hornada y tú estarás de oro abastecida
mientras sienten el alma traspasada. Si tú me crees y Cristo te da vida, de armiño y marta te verás forrada y siempre con la bolsa guarnecida.
È interessante vedere come il traduttore restituisca la lingua del Fiore, eccezionalmente fitta di francesismi volutamente stridenti sul piano lessicale e sintattico, per la ricerca dantesca di un estremo sperimentalismo linguistico, senza dubbio attraente per un poeta come Crespo la cui ricerca espressiva prende le mosse nella postavanguardia del dopoguerra spagnolo. Eppure, la traduzione si riconduce ad un linguaggio sobrio di uso comune. Nel sonetto CI l’espressione dantesca “per cuor” calcata sul francese “par cœur” è resa in spagnolo con “de memoria”, il termine “prinze” al v. 4, con “príncipe”, il termine “volpaggio” del v. 8, dal provenzale “volpilhatge”, viene tradotto con “oculto zorro”. Nel sonetto CLVIII, traducendo la promessa della vecchia di procurare altri amanti all’amata, Crespo rende l’espressione “te ne chiedrò”, futuro sincopato calcato sul francese “querrai”, con “te buscaré”: in tutti
11 Ivi, p. 69.
questi casi il francesismo dantesco viene tradotto nell’equivalente spagnolo, senza dunque riprodurne l’effetto straniante.
Nel complesso si può dunque affermare che la lunga osmosi traduttoria conduce ad un evidente e progressivo affinamento delle capacità del traduttore di captare e restituire lo spessore e la densità del significato della poesia dantesca; e se da una parte si perde inevitabilmente qualcosa del colore e del sapore del linguaggio dantesco (fortunatamente, vorrei dire, altrimenti sarebbe forse compromessa l’unicità della poesia dantesca), la ricreazione traduttoria si gioca comunque nei complessi equilibri per un risultato globale di accertata dignità e autonomia.