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Concentrandosi sulla motivazione per l’utilizzo di una applicazione web per l’apprendimento del giapponese, è utile innanzitutto definire cosa si intenda per il costrutto psicologico denominato “motivazione”. Pur non essendoci un accordo sulla definizione del termine 9, dibattuto sin dagli anni Cinquanta da diversi studiosi è stata recentemente definita da Broussard and Garrison (2004) come “the attribute that moves us to do or not to do something” o da Guay (2010) “the reasons underlying behavior”.

A livello di studio della motivazione nell’apprendimento della lingua seconda (L2), il titolo di pioniere spetta probabilmente Robert Gardner (Gardner e Lambert, 1959) che consolida nel 1985 la

9 “Although ‘motivation’ is a term frequently used in both educational and research contexts, it is rather surprising how

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propria teoria della motivazione proponendo il “modello socio-educativo” (Socioeducational Model) (Gardner, 1985).

Senza considerare per ora gli aspetti più tecnologici, ambito delle scienze dell’informazione, si ribadisce che un’applicazione web per l’apprendimento linguistico è perlomeno il territorio d’analisi di due differenti discipline legate alla scienza dell’educazione: Instructional e Interactional Design, la prima che si focalizza sull’organizzazione dei percorsi di apprendimento e dell’organizzazione contenutistica del materiale, la seconda che si accentra sull’analisi dell’interazione ottimale tra utente e artefatto digitale.

A livello di Instructional Design, il costrutto psicologico della motivazione è lo stesso che interessa molte teorie dell’apprendimento ed è legato a termini quali attenzione ansia e tensione. Come ipotizzato da Krashen attraverso la Affective filter hypothesis, infatti, “The affective filter' is a mental block that prevents acquirers from fully utilizing the comprehensive input they receive for language acquisition[...] This occurs when the acquirer is unmotivated, lacking in self-confidence, or anxious” (Krashen, 1985:81).

Uno dei vantaggi relativi a sistemi di E-learning on-line riguarda sicuramente la possibilità di self-

paced learning (apprendimento autogestito) in quanto permette in linea generale al discente di

apprendere scegliendo il momento e il luogo che egli ritiene più adatto a sé. Da questo punto di vista può fornire un ambiente meno teso di quello istituzionalizzato dell’aula con il docente. Tuttavia, essere rilassati e a proprio agio non è un elemento sufficiente per essere motivati all’apprendimento.

A seconda della modalità di organizzazione del materiale, sia esso testuale, multimediale, discorsivo o sotto forma di esercitazione e del metodo di fruizione di questo è possibile identificare una o più teorie dell’apprendimento e la relativa ipotesi motivazionale.

Le modalità di esercitazioni proposte anche dalla piattaforma Moodle (capitolo 1) a risposta singola o multipla, con risultato positivo o negativo, ad esempio, si basano su teorie comportamentiste di tipo skinneriano legate al paradigma del “condizionamento operante” (Skinner 1954): la

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motivazione nella risoluzione dell’esercizio dipende dal feedback (“rinforzo”) ottenuto precedentemente, che se negativo spinge lo studente ad apprendere dall’errore e a riprovare. La causa motivante è per tale motivo esterna. Tuttavia, se dall’analisi del singolo esercizio si passa ad analizzare la situazione nella quale questo viene eseguito, si possono identificare altre motivazioni.

Per esempio, se il discente è a conoscenza del fatto che eseguendo una serie di esercizi può rafforzare determinate competenze, la sua motivazione non è solo quella di superare queste prove, ma di superarle al fine di un determinato obiettivo (goal-oriented motivation). La motivazione in questo caso ha come oggetto le aspettative e gli scopi del discente. “Motivational factors such as goal orientation, self-efficacy, and interest had a fundamental role in cognitive processing” (Hickey, 1997).

Questo approccio cognitivo alla motivazione presuppone due tipi di stimoli: estrinsechi ed intrinsechi. Uno, quello estrinseco, è legato a necessità esterne al discente quali la carriera lavorativa o il successo negli studi, l’altro, quello intrinseco, è legato alla sfera personale degli interessi e delle passioni personali (Reiss, 2012).

Dal punto di vista della fruizione dei contenuti, a seconda di come questi sono organizzati, possono esserci alla base teorie dell’apprendimento differenti. Un’organizzazione dei contenuti consequenziale simile a quella dei corsi on-line con domande di verifica finali ha alla radice teorie di tipo comportamentista, laddove al contrario, una navigazione libera dei contenuti attraverso link di approfondimento prevede un’attività di partecipazione attiva del discente nel processo di conoscere e ha alla base teorie di tipo costruttivista. Il discente nella partecipazione attiva all’apprendimento costruisce quindi la propria conoscenza, ma il presupposto per tale attività è lo stato di autonomia che il discente deve avere nel processo di costruzione della propria conoscenza e la motivazione ad apprendere autonomamente. “Through the provision of teaching activities for students to direct their own learning, the designer acknowledges the students’ need for autonomy in the learning process in order to construct their own understanding” (Duffy, Cunninghum 1997). Attraverso questo processo il discente acquisisce capacità di auto-analisi, auto-valutazione e autostima (Dover, 2018), ma se il

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processo di navigazione non è sufficientemente supportato da una guida è possibile che la confusione e la frustrazione siano maggiori della motivazione iniziale e scoraggino il discente (Linn, 1986).

Pertanto, a seconda non solo della tipologia del materiale, ma anche dall’ambito dell’analisi (analisi di esercizio dal punto di vista delle dinamiche domanda-risposta o dalle competenze che il discente spera di ottenere) le strategie per stimolare la motivazione sono differenti.

Risulta quindi fondamentale in un’applicazione web considerare l’aspetto dell’interazione utente- interfaccia, proprio della disciplina dell’Interactional Design. Il rapporto tra l’utente e l’interfaccia infatti è una rappresentazione concreta del più astratto rapporto uomo-ambiente, la cui indagine per la comprensione dei fenomeni capaci di promuovere tale interazione è anche territorio di alcune teorie psicologiche usate in ambito glottodidattico. L’analisi di alcune funzionalità del case study JaLea nel rapporto utente-interfaccia, e più genericamente utente-artefatto digitale, sarà effettuata nel capitolo 5.

Cosa motiva quindi l’uomo ad interagire con cosa lo circonda? Negli anni Cinquanta Maslow (1954) ipotizza la “piramide dei bisogni”, per la quale l’uomo sarebbe motivato a fare determinate attività in modo gerarchico, partendo da quelli che ritiene siano i propri bisogni fondamentali. Solo quando l’uomo può soddisfare il proprio nutrimento e la propria sicurezza, passerebbe quindi al

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livello successivo, cioè a soddisfare il bisogno di amore e di amicizia, per poi arrivare a soddisfare il bisogno di prestigio, di realizzazione e di attività che gli permetterebbero di sentirsi appagato.

Tuttavia, già negli anni Sessanta la teoria di Maslow ricevette le prime critiche da parte degli studi sull’alimentazione; “indubbiamente, le persone possono digiunare (ovvero, non agire in vista del soddisfacimento di un bisogno fondamentale come la fame) per comunicare agli altri la loro aderenza a un certo ideale politico o spirituale (dunque, per soddisfare un bisogno di alto livello)” (Triberti, Bivio 2016). Altrettanto critiche erano le analisi delle dipendenze in casi di uso di determinati prodotti: videogiochi, prodotti di tecnologia di punta, tali per cui si evita di mangiare o riposarsi pur di ottenerli o utilizzarli. Le file di giorni davanti ai negozi in attesa dell’ultimo smartphone ad esempio o casi di dipendenza da videogiochi che inducono a bypassare i bisogni più elementari quali nutrirsi o dormire. È emblematico a questo proposito il caso del videogioco della Epic Games FortNite che ha causato casi di dipendenza soprattutto nei più giovani (McGhee, 2018, Ishii, 2018).

Se quindi le ipotesi sulla genesi e mantenimento della motivazione formulate in passato possono essere d’aiuto nella progettazione di funzionalità, esercizi, percorsi di apprendimento, forse non sono sufficienti a spiegare nel mondo contemporaneo cosa spinge l’utente all’utilizzo di un software, sia esso un videogioco o un sistema di E-learning e la relativa interfaccia.

Per studiare i bisogni nel contesto di prodotti e tecnologie è utile quindi fare riferimento a studi più recenti sulla relazione uomo-ambiente. A tale proposito Ryan e Deci propongono nel 1985 una teoria che vede l’uomo come un organismo legato all’ambiente che lo circonda ed influenzato da esso, in grado di realizzare le sue capacità e di accrescere i diversi aspetti della sua personalità, non necessariamente in modo sequenziale, né ordinati secondo un sistema piramidale di priorità. La Self-

determination theory (Ryan, Deci, 2000) sostiene che un individuo deve soddisfare tre basilari bisogni

psicologici: competenza, autonomia e relazionalità. La competenza è la capacità di usare le proprie conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche in situazioni di lavoro o di studio

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e nello sviluppo professionale e personale (European Commission & Directorate-General for Education and Culture, 2009:11) o the “experience of behavior as effectively enacted” (Niemec, Ryan, 2009:135); l’autonomia riguarda la possibilità di poter scegliere senza risentire delle pressioni esterne, la relazionalità riguarda il fatto di sentirsi parte di un gruppo e di una comunità nella quale ci si trova a proprio agio e dove è possibile intrecciare relazioni.

Marc Hassenzahl, considerato uno dei fondatori della User Experience, ha condotto alcuni studi per analizzare il ruolo dei bisogni di auto-determinazione nell’utilizzo di prodotti e tecnologie (Hassenzahl, Diefenbach, & Göritz, 2010). Le ricerche, basate su interviste e questionari a utenti che ripensavano alle loro più significative e piacevoli esperienze d’uso, hanno rivelato importanti legami fra emozioni positive e soddisfacimento dei bisogni. “Tale risultato supporta l’idea che la qualità di un prodotto non risiede soltanto nella sua capacità di generare emozioni, ma anche in come gli utenti percepiscono il prodotto stesso come una risorsa importante a livello motivazionale ed esperienziale” (Triberti, Bivio, 2016:96).

In questo senso, il ruolo dell’emozione nella User Experience non si riduce alla risposta positiva che un utente ha verso un prodotto divertente; al contrario, costituisce anche l’elemento di un’elaborazione complessa dell’esperienza, vale a dire il fatto che le esperienze d’uso realmente “positive” sono quelle che ci consentono di sentirci realizzati come persone (Triberti, Bivio, 2016).

A tale proposito quindi è utile interrogarsi su quali siano le caratteristiche di un artefatto che permette alla persona di esprimere le proprie capacità (competenza) in modo autonomo (autonomia). Riprendendo il concetto introdotto da Gibson di affordance (paragrafo 3.1) è possibile inquadralo nel rapporto uomo-artefatto come una combinazione di variabili che permettono di percepire inconsapevolmente un oggetto come promotore di una o più azioni ancor prima di percepirne la forma o il colore.

“The affordance of an object is what infant begins by noticing. The meaning is observed before the substance and surface, the color and form, are seen as such. An affordance is an invariant

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combination of variables, and one might guess that it is easier to perceive such an invariant unit than it is to perceive all the variables separately.” (Gibson, 1979:134).

Per Norman (2013) l’affordance (‘insieme di azioni che un oggetto invita a compiere su di esso’) permette di dare informazioni immediate sull’utilizzo dell’oggetto senza il bisogno di istruzioni. Il concetto viene ripreso da Flores e Winograd in Understanding Computers and Cognition (Winograd, Flores, 1986) i quali sostengono che le interfacce per computer devono avere essere “ready to hand”, pronte all’uso immediato. Il design migliore quindi è quello estremamente intuitivo, l’interfaccia migliore non necessita di spiegazioni per essere utilizzata, e quindi non richiede particolare sforzo mentale, grazie al ricercato impiego di affordance e signifier.

Secondo questa concezione pertanto, una buona interfaccia è quella che permette all’utente di non pensare, come già indicato da Krug in Don’t make me think (2014) e sottintende l’idea che il suo utilizzo sia talmente “fluido” e “naturale” da diventare parte del corpo dell’utente fino a raggiungere un completo embodiment. A questo concetto si lega anche quello di flow, definito da Mihaly Csikszentmihalyi (2009) come uno stato psicologico soggettivo di massima positività e gratificazione che corrisponde alla massima ‘immersione’ durante lo svolgimento di un’attività. Per ottenere questo stato di ottimale concentrazione la nostra interazione con il software deve essere trasparente (Cooper, 2007) e tutti gli elementi dell’interfaccia devono lavorare coerentemente per raggiungere questo risultato.