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Diego Robotti

Il mio intervento tenterà di affrontare tre temi che, a mio pa­ rere, costituiscono nodi importanti per la storia dell’associazioni­ smo ottocentesco.

I primi due sono strettamente connessi: la nascita di elementi di organizzazione mutuali all’interno delle università di mestiere e, corrispondentemente, la continuità, sotto altre forme, del corpora­ tivismo dopo la soppressione formale di tale struttura associativa.

II terzo tema è relativo al rapporto tra lo Stato e le società di mutuo soccorso con particolare riguardo alla mancata applicazione, per la maggioranza dei sodalizi, della legge del 15 aprile 1886 sul riconoscimento giuridico delle organizzazioni mutualistiche.

1. Dalle corporazioni alle società di mutuo soccorso.

Quando un comportamento associativo può compiutamente de­ finirsi mutuo soccorso? La storia sociale è costellata di episodi di aiuto reciproco, più frequenti, di solito, in caso di comunanza di sorti o vicinanza. A quale punto, però, un tessuto di reciprocità solidaristica diventa organizzazione mutualistica? Senza voler pre­ tendere di teorizzare definizioni assolute, risponderei che le condi­ zioni essenziali sono almeno due. La prima è che non ci siano evi­ denti disparità di casta, status, patrimonio e reddito tra chi eroga i sussidi e gli eventuali assistiti (altrimenti si entra nel campo della *

beneficenza, delle elargizioni, delle gratifiche). La seconda è che il soccorso sia un obbligo giuridico che si costituisce, e persiste, quando, e fino a quando, l’eventuale futuro beneficiato si attenga a regole prestabilite. In pratica, come «cartina tornasole» per la valutazione storica, può benissimo essere assunta l’esistenza o me­ no di una «cassa di soccorso», vale a dire di un’autonoma contabi­ lizzazione delle quote pagate e dei sussidi erogati separata da altre, magari più consistenti, partite contabili. Con una precisazione: ta­ le autonomia contabile deve essere limitata agli aspetti gestionali senza mai divenire una diversa entità giuridica poiché, in quest’ul­ timo caso, non si scorgerebbe più la differenza tra essa ed un’im­ presa di assicurazioni. Nella forma associativa mutualistica, inve­ ce, sono tutti i soci che rispondono, in ultima istanza, delle obbli­ gazioni che la Società si assume nei confronti di eventuali assistiti.

Ciò premesso, vengo alla questione dei prodromi del mutuali­ smo all’interno delle università di mestiere. Uno studio sistemati­ co in tal senso è ancora tutto da fare. Si hanno, tuttavia, significa­ tive conoscenze che permettono di affermare che forme di mutua­ lità nascono già, ad esempio, in Piemonte, nel XV III secolo, si moltiplicano sotto il regime francese, si perfezionano negli anni tra la Restaurazione e la soppressione delle corporazioni nel 1844 h Quando, nel 1848 con lo Statuto, viene concessa, tra le altre, la libertà d ’associazione, il mutualismo non è un fenomeno totalmente sconosciuto, ma ha già compiuto i primi significativi passi all’interno delle organizzazioni di mestiere1 2. Semmai, ciò

1. Cfr. Ester De Fort, Mastri e lavoranti nelle Università di mestiere fra Set­ tecento e Ottocento in Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, a cura di Aldo Agosti e Gian Mario Bravo, Bari, De Dona­ to, 1979, voi. I, pp. 89-142; Diego Robotti, L a società di mutuo soccorso dei mastri falegnami di Torino nell contesto della mutualità piemontese, in Antica uni­ versità dei Minusieri di Torino, Documenti per la storia delle arti del legno, Torino, Archivio di Stato, 1986, pp. 29-46.

2. In Torino avevano sicuramente delle casse interne di mutuo soccorso la Pia unione tipografica, la Pia unione dei parrucchieri, la Pia unione di calzolai, la Società mutua dei macellai (ancor oggi operante), la Società mutua dei dotto­ ri in medicina e chirurgia, la Pia unione dei tessitori in seta (sodalizio che assoc- ciava anche le donne). In Pinerolo, la Società degli artefici (garzoni in ferro), la Società dei maestri da muro, la Società dei cardatori. In Alessandria, la Pia unione dei lavoranti capellai. L ’elenco va considerato come esemplificativo e non esaustivo, non disponendo ancora di studi sistematici sulla presenza di ele­ menti di mutualismo all’interno delle Università di mestiere piemontesi per il periodo 1814-1844. Oltre al citato saggio di Ester De Fort, cenni in merito so­ no reperibili in Emilio R. Papa, Origini delle società operaie in Piemonte da Carlo Alberto a ll’unità, Milano, Giuffré, 1976, pp. 65; Italo Mario Sacco, Professioni, arti e mestieri a Torino dal secolo X IV a l secolo X IX , Torino, Editrice Libraria

che costituisce una indiscutibile novità è la nascita di società di mutuo soccorso a base territoriale (di quartiere, di comune, di mandamento). In tali nuove forme associative il cemento non è più, rappresentato, infatti, dall’identità d ’interessi degli apparte­ nenti ad una determinata categoria professionale, bensì dall’indivi­ duazione di un bisogno (la protezione previdenziale dalle malattie e dagli infortuni) legato alla comune condizione di lavoratori che vivono unicamente del proprio lavoro.

La società di mutuo soccorso territoriale, quindi, rappresenta il vero «salto in avanti», il ribaltamento delle priorità e delle basi associative. Nelle università di mestiere il soccorso era un’attività integrativa delle protezioni che l’istituzione forniva ai suoi mem­ bri e certo non quella di maggiore importanza se solo si pensa alla sostanza ben più preponderante delle altre: controllo dell’accesso e dell’abilitazione alla professione, dei prezzi di vendita dei pro­ dotti o dei servizi, a volte dei salari dei lavoranti. Nelle società mutue territoriali la precarietà del reddito spinge al superamento delle divisioni di «classe» (col significato di «categoria professiona­ le» che, allora, aveva comunemente il termine) e convince, ad esempio, un calzolaio ed un tessitore di un medesimo luogo ad as­ sociarsi per far fronte ad una pressante necessità3. Chi insiste troppo sul taglio moderato e interclassista delle società di mutuo soccorso dovrebbe, a mio parere, riflettere sulla necessità e l’im­ portanza di quel passaggio: la corporazione di mestiere difendeva una posizione sociale acquisita contro altri (corpi sociali o indivi­ dui) che rischiavano di intaccare i privilegi conseguiti dai suoi membri, la società di mutuo soccorso nasce per il superamento (o almeno l’attenuazione) di un bisogno. Anche rispetto al recluta­ mento, l’ottica risulta esattamente contrapposta: la prima doveva limitare il numero dei membri della categoria professionale, la se­ conda chiedeva l’adesione del maggior numero di soci, in quanto

Italiana, 1940; Gian Mario Bravo, Torino operaia. Mondo del lavoro e idee socia­ li nell’età di Carlo Alberto, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1968, pp. 304. 3. Cfr. Associazione Generale degli Operaie Società Artie Mestieri

(Mutue Riunite), Mostra documentaria. 1 4 0 ° Anniversario della Fondazione del­ la Società generale per gli operai di Pinerolo [Catalogo della mostra a cura di Gio­ vanni Giolito], Pinerolo, Tipolitografia Giuseppini, 1988, pp. 5-7; Giovanni

Giolito, Sviluppo industriale e forme di associazione operaia in Pinerolo nella pri­

ma metà dell’Ottocento, «Movimento operaio», n.s., V, 1953, n. 1, pp. 5-55;

Diego Robotti, Le società di mutuo soccorso. L a solidarietà operaia da volontaria­ to privato a rete di istituzioni sociali, «Piemonte vivo», X X I, 1987, n. 4, pp. 56-65.

altrimenti non sarebbe stato possibile garantire i meccanismi pre­ videnziali regolamentati dallo statuto.

Nel processo di formazione della classe operaia il superamento delle settorialità professionali è, forse, il passaggio più arduo. Il mutualismo a base territoriale ne fu la leva determinante.

2. Persistenza del corporativismo in ambito mutualistico.

Quanto e in quale maniera il corporativismo perdurò (e si rin­ novò) nella nuova forma di società di mutuo soccorso?

Anche in questo caso è utile precisare l’oggetto di cui si tratta. Il corporativismo è la tendenza di una categoria professionale a di­ fendere il valore sociale (misurabile con diversi parametri, tra cui il corrispettivo monetario è solo uno dei tanti) della propria pecu­ liare prestazione. Per tale, generico significato del termine, non è inesatto definire corporative, ad esempio, le odierne organizzazio­ ni sindacali dei controllori di volo o dei macchinisti delle ferrovie, in quanto agenti sociali esclusivamente volti all’interesse della pro­ pria categoria. Bisogna però estendere coerentemente la definizio­ ne a tutti i comportamenti volti a mantenere alto il valore di una prestazione in un’economia che, si rammenti è, o dovrebbe essere, di libero mercato; andrebbe quindi definito corporativo anche il comportamento, ad esempio, dei commercianti quando chiedono un limite alla concessione delle licenze di esercizio, dei notai che tale limite hanno da sempre riconosciuto dalla legge, dei dottori in medicina quando invocano il numero chiuso nelle facoltà uni­ versitarie, e di tanti altri.

Il fatto è che, se si sgombra il campo da giudizi troppo condi­ zionati dalle contingenze presenti, l’essere «corporativi» è una propensione abbastanza ovvia dei gruppi sociali anche (e, forse, soprattutto) in un’economia liberista. Tra le manifestazioni di tale tendenza si possono trovare, in parte, spinte ultra-particolaristiche (più o meno rifiutate dal restante consesso civile), ma di frequente c’è anche una componente che vuole difendere il ruolo «sociale» del gruppo che rappresenta, richiamando l’attenzione sull’interesse di tutta la società civile a che i compiti e le mansioni assolte da quella professione siano svolti nel miglior modo possibile. Solita­ mente la componente «sociale» di una organizzazione professiona­ le si manifesta con l’affermazione di peculiari abilità tecniche e con la richiesta rivolta allo Stato o ad altre pubbliche istituzioni

di modi e criteri per garantirle, perfezionarle, incentivarle, valoriz­ zarle.

Il trauma provocato, nel 1844, dalla legge di soppressione e proibizione delle organizzazioni corporative ed i successivi atteg­ giamenti dei gruppi professionali (che, da quel momento in poi, potevano continuare ad esistere soltanto come pie congregazioni) sono un campo d ’indagine di estremo interesse.

La ricostruzione di tali vicende non è facile. Si tratta infatti di ricondurre ad una relativa omogeneità tante storie associative, tutte specifiche, e, scarsamente documentate4. Vorrei tentare di accennare a uno schema evolutivo, con la precisazione, abbastanza ovvia, che si tratta soltanto, allo stato attuale degli studi storici, di una proposta. Lo schema si compone di tre periodi.

Il primo (che inizia con la legge di soppressione del 1844 e si conclude, nella generalità dei casi, entro il 1870) è caratterizzato dalla testarda resistenza alla dissoluzione.

Il secondo è quello del riassetto istituzionale delle ex­ corporazioni sotto forma di società di mutuo soccorso di mestiere; i primi episodi si verificano a partire dal 1850 e quasi tutti i soda­ lizi mutualistici a base professionale si estinguono prima del 1920.

Il terzo periodo, il cui inizio si può far risalire al penultimo de­ cennio dell’800, è caratterizzato dalla formazione di associazioni di mestiere ormai esclusivamente dedite alla difesa degli interessi diretti (tariffe, condizioni di lavoro) o indiretti (formazione pro­ fessionale, valorizzazione dei prodotti) dei suoi aderenti.

Come si può notare la periodizzazione proposta è tutt’altro che

4. Le fonti per la storia delle associazioni di mestiere in epoca «mutualisti­ ca» (post 1848) coincidono, per lo più, con quelle relative alle società di mutuo soccorso. Cfr. Bianca Gera - Diego Ro bo tti, Cent'anni di solidarietà. Le società di mutuo soccorso piemontesi dalle origini, censimento storico e rilevazione delle associazioni esistenti, Torino, Cooperativa di consumo e mutua assistenza Borgo Po e decoratori, 1989. In particolare merita attenzione la «tavola fonti» che correda ognuno dei sei volumi di censimento. Fonti utilissime, anche se piutto­ sto rare, sono gli archivi storici delle associazioni di mestiere che dimostrano, quando disponibili nella loro completezza, un’eloquente continuità documenta­ ria, a partire dai secoli XVII-XVIII fino ai giorni nostri. Al momento si posso­ no annoverare solo tre archivi del genere, tutti conservati presso l’Archivio di stato di Torino: Archivio dei minusieri, Archivio dell’Associazione tappezzieri e Archivio della Società dei calzolai. Di particolare interesse per l’area torinese è la documentazione dell’Archivio Storico della Città di Torino (A.S.C.T.) so­ prattutto le serie Affari Gabinetto del Sindaco (A.G.S.) e Istruzione e Beneficien-za (I.B.). Per un esempio della ricchezza d’informazioni che si possono trarre dall’archivio comunale, a condizione di operare uno spoglio sistematico, si veda più avanti la nota 7.

rigida. Ciò deriva, oltre che da un’ovvia cautela nel fissare limiti cronologici rigidi, dai tempi differenti in cui i passaggi sopra ri­ chiamati si compirono, legati com’erano al grado di forza associati­ va via via raggiunto dalle singole organizzazioni, consentendo a ta­ lune di compiere ristrutturazioni che per altre erano ancora da ve­ nire. E tuttavia, a fronte di una indiscutibile asincronia, l’unifor­ mità del percorso è pressoché sempre riscontrabile5.

La resistenza opposta all’estinzione — stabilita dalla legge e voluta dalla società civile — da parte delle corporazioni si esplicò essenzialmente in due campi: la conservazione dei beni patrimo­ niali ed il mantenimento delle pratiche devozionali. Patrimonio e religione, nella tradizione corporativa, non erano ambiti tanto lon­ tani. Il patrimonio di un’ex-università risultava costituito sostan­ zialmente da arredi sacri, edifici di culto o parti di essi, reliquie del santo patrono, lasciti testamentari (che, nei casi più significati­ vi, avevano dato luogo all’erezione di pie fondazioni controllate dall’ex-corporazione in quanto gestite od annesse alla pia congre­ gazione di mestiere). I riti devozionali — gravitanti intorno alle feste religiose per le ricorrenze dei santi protettori — erano, per parte loro, intrecciati con gli interessi patrimoniali delle università poiché, oltre a costituire una pratica associativa consentita dalla legge di soppressione, permettevano concretamente di tenere in vi­ ta un sia pur minimale, tessuto di contatti per la raccolta dei fondi necessari allo svolgimento delle funzioni religiose6.

Le azioni perseguite per riottenere la proprietà dei lasciti già appartenuti alle università di mestiere comportarono sempre una

5. Cfr. Bianca Gera - Diego Robotti, Cent'anni di solidarietà cit., voi. II,

L e Società della provincia di Torino. Un primo elenco di mestieri, pur se limitato alla città di Torino, desunto da quel censimento storico è utile ad esemplificare tale omogeneità di percorso (l’asterisco segnala i casi di arresto dell’evoluzione alla seconda fase, vale a dire l’estinzione della società mutua senza che si gene­ rasse un’altra associazione professionale): cuochi e camerieri; calzolai*; guantai; tintori e conciatori*; minusieri; intagliatori; fabbri-ferrai; serraglieri; orefici; medici e chirurghi; veterinari; ostetrici; farmacisti; tipografi; legatori di libri; sarti; tessitori in seta; cappellai; cappellai in seta- nastrai*; calzettai*; cocchieri e palafrenieri; macellai; materassai*; maniscalchi*; parrucchieri, tappezzieri; caffettieri, liquoristi e distillatori*; sellai e carrozzai*.

6. L ’analisi dei tre archivi di associazioni di mestiere già citati nella nota 4 evidenzia come, per gli anni immediatamente successivi al 1844, la continuità associativa si restringe pressoché alla sola attività devozionale. Si veda a tale proposito Maria Teresa Maiullari, L ’Università dei tappezzieri torinesi e Diego

Robotti, L a Società di mutuo soccorso dei tappezzieri di Torino (1858-1921), in

L ’Archivio dei tappezzieri di Torino, tre secoli di tradizione del mestiere, Torino, Archivio di Stato di Torino, 1988, pp. 41-63.

prima, importante presa di coscienza della precarietà della forma societaria «pia congregazione di mestiere».

Le istanze presentate dai rappresentanti delle ex-università alle autorità dello stato per il riconoscimento della proprietà delle fon­ dazioni assistenziali represse, infatti, venivano regolarmente re­ spinte con la motivazione non tanto di una discontinuità associati­ va con l’antica corporazione quanto, piuttosto, con quella di un’insufficiente stabilità del sodalizio richiedente. Alle nuove con­ gregazioni di mestiere, insomma, si rimproverava un difetto di af­ fidabilità istituzionale, di aver perso, cioè, quella qualità di «corpi morali» necessaria per poter riottenere la gestione di un’opera pia7. Ogni sodalizio era, quindi, costretto ad affrontare il proble­ ma di una nuova istituzionalizzazione e, conseguentemente, della scelta di un modello formale di associazione.

Il modello che venne scelto fu, in massima parte, la società di mutuo soccorso. Quali le ragioni di tale massiccia preferenza? E inutile cercarle in una qualche contiguità di principi e scopi statu­ tari come quella che, ad esempio, collegava le cooperative di con­ sumo alle società mutue, facendo generare le une dalle altre. Le università di mestiere (come anche il termine indica) avevano una tradizione totalizzante di netta contrapposizione alla libera con­ correnza e rimasero, anche dopo la loro formale soppressione, con­ trollate dai mastri; le società di mutuo soccorso erano, invece, na­ te come sodalizi di «cittadini lavoratori» (nel linguaggio corrente dell’epoca si dicevano «società operaie di mutuo soccorso») e ave­ vano per scopo la tutela dalle conseguenze del libero mercato della manodopera (la precarietà del salario), senza mai neppure sognarsi

7. Cito solo i casi d ’istanza meglio documentati. La Società dei sarti, altri­ menti detta Unione sarti o ex-Università dei sarti, per la riappropriazione del lascito testamentario della vedova Ansaldi-Macesi (A.S.C.T., A .G .S., 334, b. 4/XVIII, fase. 3, 1851-1853; A.S.C.T., I.B ., XVI, b. 1, fase. 29, 1853; idem, 24, b. 6, fase. 5, 1855-1856; idem, 31, b. 6, fase. 12, 1857; idem, 58, b. 7, fase. 5, 1860-1863; idem, 156, b. 22, fase. 9, 1864-1866; idem, 166, b. 22, fase. 19, 1867; idem, 185, b. 23, fase. 8, 1870; idem, 175, b. 22, fase. 28, 1869; idem, 1430, b. 85, fase. 4, 1874-1880). La Società degli orefici, gioiellieri e bijottieri per l’Opera Pia Gaja (A.S.C.T., I.B ., 14, b. 1, fase. 19, 1851-1852. idem, 47, b. 6, fase. 28, 1858-1859; idem, 68, b. 7, fase. 15, 1860-1863; idem, 150, b. 22, fase. 3, 1864-1866; idem, 170, b. 22, fase. 23, 1869; idem, 161, b. 22, fase. 14, 1867-1868; idem, 180, b. 23, fase. 3, 1870-1871; idem, 191, b. 23, fase. 14, 1872-1873; idem, 201, b. 24, fase. 3, 1875-1876; idem, 210, b. 24, fase. 12, 1877-1888; idem, 221, b. 24, fase. 23, 1879; idem, 1423, b. 82, fase. 3, 1884; idem, 1635, b. 119, fase. 3, 1889-1897). La Società dei caf­ fettieri, confettieri e distillatori (A.S.C.T., A .G .S ., 479, b. 4/XXIII, fase. 13, 17, 30, 1852-1858).

di metterne in discussione il fondamento liberistico. Pur tuttavia, per più di un trentennio fu il modello mutualistico a prevalere tra le associazioni di mestiere e non ad esempio, la società per la tute­ la di un’arte o il sindacato degli esercenti la medesima.

Ciò induce, a mio parere, a due considerazioni. In primo luogo quello mutualistico era un modello forte, legittimato, agevole, imi­ tabile. D ’altro canto, la scarsità di vincoli solidali spontanei fra gli esercenti una medesima professione indusse a orientarsi verso una forma associativa che, di per se stessa, contribuiva a ricementare quei vincoli. Costituire subito (e soltanto) dei sindacati professio­ nali che intervenissero sui prezzi e le tariffe delle prestazioni ri­ chiedeva una coesione che, all’epoca, evidentemente mancava. La solidarietà di categoria era, inoltre, ancor più indebolita da un al­ tro processo: si stava modificando la struttura sociale interna delle singole categorie professionali, mentre le dinamiche messe in moto dalla fine dell’antico sistema corporativo non avevano ancora par­ torito una nuova, stabile situazione. La «bottega» come centro or­ dinatore dell’accesso ai vari gradi dell’arte (apprendista, lavorante, maestro) era moribonda, ma ad essa non si era ancora sostituita la grande manifattura con la conseguenza di una netta polarizza­ zione tra proprietari di azienda e dipendenti. Oltretutto la situa­ zione era complicata dal fatto che la domanda dei diversi manufat­ ti e/o servizi veniva spesso soddisfatta da figure professionali «im­ proprie»: ai profili «netti» dei lavoranti o maestri di un dato me­ stiere spesso si affiancavano, in concorrenza, gli esercenti i mestieri similari, o peggio ancora, i commercianti di generi affini che aprivano laboratori artigiani all’interno dei loro esercizi8.

Ogni categoria professionale era quindi, nella seconda metà del secolo, un universo estremamente fluido in cui interessi diversi, e spesso conflittuali, si aggregavano e scomponevano continuamen­ te. Si pensi, per rendere l’idea di quali contrasti potevano presen­ tarsi in una medesima «arte», che di uno stesso mestiere facevano parte figure come il giovane garzone sottopagato e l’imprenditore «emergente», magari figlio o nipote di artigiani, il quale ormai conservava della manualità dei suoi avi soltanto un affettuoso ri­ cordo.

La trasformazione in società di mutuo soccorso contribuì a far

8. Cfr. Antica Università dei minusieri di Torino cit. e L ’Archivio dei tappez­ zieri di Torino cit., in particolare, per quest’ultimo, Claudio Daprà - Caterina

Thellung De Courtelary, L a nascita della scuola professionale per tappezzieri da stoffe, pp. 81-83.

emergere tali contraddizioni interne. Gli statuti costitutivi (che solitamente, per le associazioni territoriali, tendevano innanzitutto a precisare i requisiti d ’età e di buona condizione fisica per l’am­ missione alla società) per i sodalizi di mestiere contengono sempre la definizione dei «confini» della categoria professionale (criteri di appartenenza e di esclusione) e spesso regolano la particolare pre­ ponderanza di un ceto (mastri) o di un più specifico gruppo pro­ fessionale (artigiani «propri» distinti dagli «affini»). Tale differen­ ziazione interna aveva, poi, concreti effetti sulle norme che regola­ vano l’elezione alle cariche sociali. Se si analizza, poi, l’evoluzione delle regole statutarie delle singole associazioni di mestiere, si ri­

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