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«Per questi cronisti, dopo la sconvolgente esperienza di Ezzelino, divenne impossibile riproporre pedissequamente lo schema annalistico tradizionale: l’eroe, positivo o negativo che fosse, aveva costretto a guardare alla storia con ottica nuova». (ANSELMI 1988, p. 97).

Sebbene sui cronisti della Marca Trevigiana siano stati svolti numerosi (e imprescindibili) studi, com’è evidente dal capitolo 1 che ha svolto la funzione di status quaestionis, è forse oggi possibile volgere loro il nostro interesse ancora una volta. Com’è emerso dall’introduzione di questo elaborato, il lato meno indagato di questi testi riguarda l’impianto narrativo su cui furono modellati. Sarà bene allora dimostrare innanzitutto che tipo di impianto narrativo usarono questi cronisti sulla base dei loro interessi, che riguardavano la politica, il concetto di città e la necessità di parlare di storia in modo nuovo, necessità messa in moto dall’imponente figura di Ezzelino da Romano. Su tali punti si snoderanno le analisi contenute nel presente capitolo: si tenterà dunque di fornire, per la prima volta in un unico studio, una riflessione su questi testi e in particolare su alcuni loro brani che narrano di Ezzelino. Sarà allora interessante ripartire dalla vera e propria lettura delle cronache; dopo il periodo dei grandi studi di Arnaldi e Raimondi ritengo che ci sia ancora spazio per poter approfondire alcune rilevanti questioni.

La nostra indagine sarà volta a stabilire fino a che punto l’impianto dato a queste cronache consentisse ai loro autori di riflettere su una rappresentazione della realtà a cavallo tra verità e verosimiglianza. Si vedranno poi i diversi modi di narrare alcuni avvenimenti, come in primis gli episodi della morte di Ezzelino, e non mancheranno le riflessioni sempre collegate al mito del grande condottiero. Si cercherà di leggere questi testi con

un’ottica moderna: un tentativo insomma di capire come si può leggere ancora oggi — epoca in cui si parla tanto di storytelling applicabile ad ogni ambito — una cronaca medievale.

In alcuni luoghi dei testi in questione emerge l’indiscutibile impegno, da parte di questi cronisti, di una scrittura strutturata nella piena consapevolezza di quanto fosse necessaria la dimensione letteraria. Nel caso di Rolandino da Padova ci si può addirittura domandare (come si evince dal titolo del capitolo dedicato all’analisi dei Cronica) se si possa parlare di un “romanzo”. Non vorremmo ora avventurarci in un discorso fuori tema riguardo ai generi letterari ma è importante ricordare che i secoli in cui questi cronisti vissero furono caratterizzati da passaggi epocali che nei loro testi si riflettono totalmente: la lingua, la scrittura, la politica, i concetti di potere e di città, il tema della memoria. Questo fece sì che fosse necessario per gli intellettuali del tempo scrivere di storia e farlo in modo nuovo. Naturalmente si tratta di testi molto differenti fra di loro ma che proprio grazie ad Ezzelino finirono con l’avere punti di contatto in comune, primo fra tutti la mescolanza di veridicità e di invenzione che è alla base del fascino di questo ambito (la cronachistica appunto) della letteratura . Per questo motivo sarà al centro 82

dell’analisi il tema del “mito di Ezzelino”, a cui verrà poi dedicato il prossimo capitolo, non solo perché c’è stato e c’è un mito storico del da Romano, ma perché quei cronisti, in parte, favoleggiarono su di lui, com’era usanza fare, in un crogiuolo di vicende storiche che contribuirono a creare una tradizione che resta un unicum nel panorama della cronachistica italiana e non solo.

Affrontare i rapporti tra la storiografia e la narrazione significa in primo luogo capire come le peculiarità dell’antica retorica si siano suddivise i gradi all’interno della narrazione e quindi come tengano con forza il campo i criteri di dispositio, la regola aurea della narrativa, dell’inventio e dell’elocutio. Sullo sfondo di questa scrittura si innesta il secolare problema della veritas e viene da domandarsi: in queste cronache la narrazione è storia o

SANSONE-CURSIETTI 2003, p. VI.

la storia è narrazione? Questi scrittori, che di mestiere facevano tutt’altro, come si è detto, seppero unire le res gestae, gli eventi, e l’historia rerum

gestarum, fra l’altro iniziando spesso ad abbandonare la struttura annalistica.

Anche un cronista come Paride da Cerea che invece mantenne nel suo

Chronicon Veronense una struttura annalistica tradizionale (si tratta infatti di

un testo totalmente diverso rispetto a quello, per esempio, di Rolandino), seppe lavorare abilmente su alcuni brani, tanto da inaugurare una vera e propria tradizione novellistica, che si rafforzò grazie ai volgarizzamenti che ne vennero fatti in seguito.

Grandi pensatori come Benedetto Croce hanno riflettuto a lungo sulla filosofia della storia e sulla storia nel rapporto con la dimensione della cronaca. Ma senza volerci addentrare in un discorso filosofico possiamo comunque ricordare che dietro a questi schemi vi è comunque una notevole riflessione teoria sul “fare storia”. Come scriveva Gabriele Pepe nell’Introduzione allo studio del Medio evo latino: «l’autore di una cronaca, per povera che sia la sua spiritualità, è sempre una coscienza che valuta, un’anima che ricorda, che odia, che ama, non è un notaio che meccanicamente si ripete» (il che appare in un certo senso un paradosso nel nostro caso visto 83

che tutti i cronisti in questione erano uomini di legge e per lo più proprio notai). Dunque nelle cronache della Marca rintracciamo la competenza giuridica di questi uomini, abbinata al radicamento nel loro tempo e nelle loro città (sempre valido a proposito di cronachistica notarile cittadina l’importante lavoro svolto da Marino Zabbia) . È inoltre bene ricordare che già i codici 84

quattrocenteschi tramandavano queste cronache in forma miscellanea, probabilmente non solo perché provenienti da una stessa area geografica ma, come si è detto con insistenza, anche perché erano tutti testi di mani di notai, vissuti durante il regime ezzeliniano o poco dopo, gravitanti attorno a Ezzelino e portatori di nuovi schemi culturali e narrativi, spesso improntati alla tradizione classica. Queste cronache furono dunque caratterizzate da un

PEPE 1942, p. 38.

83

ZABBIA 1999.

evidente contrasto fra gli schemi tradizionali su cui erano costruite e il contenuto nuovo di cui davano notizia . Non è da considerare secondario il 85

fatto che questi autori vengano tramandati per lungo tempo come in blocco: Ezio Raimondi insegna che quando studiamo un autore in realtà studiamo un sistema di relazioni di contesti . Altresì degno di nota è il fatto che gli studi di 86

queste cronache e della figura di Ezzelino in modo nuovo avverranno solo in seguito ad una moderna consapevolezza della realtà storica, dopo l’unità d’Italia.

Oggi possiamo affermare con certezza che la complessità di autori come Rolandino o Gerardo Maurisio non può passare inosservata nel campo della letteratura delle origini poiché questi cronisti non vanno rubricati semplicemente all’interno di una tradizione annalistica o di una certa cronachistica locale . Partendo dal presupposto che nel Medioevo mancava 87

una codificazione dei generi storiografici, possiamo continuare a lavorare su queste cronache “in gruppo”, nonostante le loro diversità, sfruttando gli studi moderni sul tema dell’intertestualità e senza dimenticare che, per quanto differenti, erano tutti comunque volti a una consapevole ricerca storica. Ogni nostra lettura è nata nella consapevolezza che vi sono dei punti in comune fra i cronisti che erano influenzati dalla condizione sociale e dalle proprie vicende biografiche, in ambito cittadino, e quindi dalla scelta degli argomenti di cui lasciare memoria. Per Gerardo Maurisio e Rolandino il discorso sarà senz’altro più ampio, non solo perché i loro testi sono i più innovativi e densi a livello letterario, ma anche perché sono i primi biografi di Ezzelino, quindi coloro che aprirono la strada a far sì che testi successivi diventassero un «mosaico di citazioni» (più o meno esplicite), per utilizzare l’espressione di

ARNALDI 1963, p. VIII.

85

Fra le ampie riflessioni sull’argomento che accompagnarono per tutta la vita la critica di Ezio 86

Raimondi rimando in particolare a RAIMONDI 2012 e RAIMONDI 2015.

Per la classificazione e la distinzione fra annalisti, storici e cronisti si vedano in particolare 87

Julia Kristeva, alla quale si deve l’elaborazione del concetto teorico di intertestualità . 88

A proposito dell’anonimo Chronicon Marchiae Tarvisinae et

Lombardiae, scritto da quello che a tutt’oggi è un misterioso autore, sarà

interessante soffermarsi sul rapporto fra il male e la chiesa che viene evidenziato nel testo; il primo testo, fra tutti, a vedere la stampa con un anticipo di cinquantuno anni sull’editio princeps degli altri.

L’opera invece di Paride da Cerea si contraddistinguerà per essere quella più tradotta, ovvero volgarizzata nelle diverse aree geografiche, e tramandata con un carattere novellistico che la rese godibile ai più.

Nelle pagine dedicate a Niccolò Smereglo affronteremo, fra l’altro, il rapporto che questa cronaca (ma non solo) ebbe con l’Inferno dantesco, in circolazione proprio a partire dagli anni in cui il cronista scriveva e sottolineeremo l’importanza di questo testo indipendentemente dalla sua qualità letteraria.

Un lavoro simile si proporrà per Antonio Godi, il quale organizzerà con originalità l’ordine dei contenuti della sua cronaca e, ancora una volta, ricercherà il fine della sua opera attraverso Ezzelino.

Ognuna di queste cronache porta con sé forti punti di originalità e questo lo si può verificare leggendone alcuni brani, scorgendo dei versi in poesia e dei riferimenti ad episodi salienti non attestati altrove, apprezzando la capacità che ebbero questi scrittori di saper narrare di un personaggio del calibro di Ezzelino da Romano. In generale si può dire che fu proprio Ezzelino a sconvolgere e alterare gli schemi codificati, fino a portare questi storici a narrare gli eventi in ottica mitica. Ecco perché si parlerà anche di novellistica e si citerà il Novellino, nel quale sono contenute più novelle in cui Ezzelino è protagonista. I nostri cronisti seppero andare ben oltre all’antico concetto di cronaca che dal greco χρονικά (βιβλία) aveva già il significato sì di «annali, cronache» ma al neutro plurale χρονικός significava nello specifico qualcosa

«Ogni testo si costruisce come mosaico di citazioni, ogni testo è assorbimento e trasformazione di 88

«che riguarda il tempo». Essi concentrarono con forte originalità il fulcro dei loro testi non più attraverso una tradizionale narrazione annalistica (sul modello di Livio), bensì basandosi su una temporalità più ristretta che aveva un oggetto preciso e delimitato (sul modello di Sallustio): il regime dei da Romano. Spostare il centro del discorso dalla storia generale a un personaggio specifico significava imparare ad utilizzare nuove tecniche di scrittura e abbandonare la compilativa struttura annalistica per dare voce al “raccontare”. Anche laddove i testi infatti si presentavano come pagine di storia cittadina, scorgiamo la novità della trasformazione che la storia di Ezzelino stava subendo, attraverso le forme della narrazione, in favore del mito. Anche quando nel XV secolo l’acribia filologica privilegerà gli aspetti documentari, su Ezzelino resisterà la commistione fra storia e mito: essi saranno già intrinsecamente impregnati di quella inquietante idea di male che giungerà fino ai tempi moderni. È grazie ad Ezzelino appunto se la cultura veneta medievale è stata descritta letterariamente in questo modo e la sua figura, quasi al pari di Federico II, ha saputo immortalare tale cultura e tutto ciò che vi era attorno (anche l’imperatore di Svevia, in fondo, ha avuto una vera e propria rivalutazione solo in anni relativamente moderni).

Leggere le cronache della Marca Trevigiana oggi, con nuove consapevolezze e nuovi strumenti, ci porta a concludere che una novità non trascurabile è l’embrionale consapevolezza che questi cronisti avevano di essere scrittori; prima ancora che il genio di Dante stravolgesse definitivamente i canoni di un modo di narrare che si stava radicando già da mezzo secolo. Pur trovandoci all’interno di cronache “di parte” scorgiamo in questi testi un’ansia enciclopedica e “accumulativa” di matrice aristotelica molto cara al pensiero medievale, come Umberto Eco ha illustrato magistralmente in molti suoi studi; e nello stesso tempo scorgiamo un’innovativa capacità di rielaborare la storia insieme alle tradizioni orali. Su un piano più generale, sappiamo che nell’opera dei cronisti medievali il peso del presente o del passato prossimo acquista di solito un valore incomparabilmente maggiore rispetto a quello riservato alla memoria del

passato lontano o del sentito raccontare , mentre nel caso dei nostri autori 89

diventano storia e memoria anche tutti quei racconti che andranno, lo si ripete, a costruire una vera e propria idea di Ezzelino. Come scriverà Shakespeare nel suo Macbeth, l’opera definita da Stendhal «uno dei capolavori dello spirito umano» e pubblicata solo una decina di anni prima che il corpus ezzeliniano 90

venga stampato: «Present fears | Are less than horrible imaginings» («L’orrore del reale | è nulla contro l’idea dell’orrore) . 91

COLUCCIA 2013, p. IX.

89

SHAKESPEARE 1951, p. 8.

90

Atto 1, scena 3: «Il terrore, nella realtà, è meno profondo di quello che sorge da certe orribili 91

Capitolo 2.1