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nascita di un’amicizia nelle lettere di Gino Luzzatto e Roberto Lopez*

o, tutt’al più, speranzosamente, in un indeterminato futuro, in cerchie tuttavia sempre più ristrette e fidate.

Dall’altro capo del filo, un giovane, genovese di nascita e milanese di for-mazione, ai primi passi nel campo della storia medievale, il quale non poteva certo ignorare quanto quel suo maestro elettivo avrebbe potuto giovargli dal lato delle «opere» e quanto, invece, danneggiarlo da quello dei «giorni». Non po-teva essergli cioè ignoto che il professore di Ca’ Foscari – costretto a dimettersi dall’ufficio di direttore della Scuola superiore5, nonostante il “duce” l’avesse, con sorpresa di molti e imbarazzo dell’interessato, incluso nella «bibliografia del suo spirito»6 – fosse anche finito in carcere appena qualche anno prima, nel 1928, incagliato nella “retata” che aveva smantellato la Giovane Italia di Lelio Basso e il largamente coincidente gruppo della rivista «Pietre»7.

Forse Lopez dovette giudicare prevalente sul rischio di incappare in qualche segnalazione di polizia o “intercettazione” postale il beneficio formativo e la pro-iezione verso la storiografia internazionale che potevano venirgli da quel signore cosmopolita. «Patriota e internazionalista» lo avrebbe egli stesso in seguito defi-nito, congiungendo le sue proprie alle parole di Frederic Chapin Lane8. Luzzatto per lui certamente non era solo il maestro che «conosceva gli archivi della repub-blica come se fosse stato un cancelliere del tempo»9. Il professore di Ca’ Foscari doveva presentarglisi anche come un uomo e studioso che avendo trapiantato in laguna radici goriziane, nascita padovana, militanza socialista, fedeltà salve-miniana e qualche uscita controvento alla bora nazionalista – Fabio Cusin era stato nel novero dei suoi allievi dalle parti di san Giusto10 – anticipava, forse, inespresso o implicito, nella sua pratica di storico, come si conviene a una vita à part entière, un certo affioramento di «stati in luogo», individuali e connessi, già assai prossimi a una percezione della comunità etico-politica come scienza civile e in quanto tale propedeutica alla futura lopeziana «città come stato d’animo»11.

Non antico e nondimeno robusto era il radicamento cafoscarino di Luzzatto. Il che, entro una non formalistica o convenzionale lettura della continuità della Scuola rispetto alle scaturigini post-unitarie, indebitate, più che allo «Stato edu-catore», alla sinergia degli interessi, delle aspirazioni, come pure delle lotte e dei contrasti, della società lagunare, presuppone una zona di intersezione e scambio con la realtà cittadina che, variabile nel tempo e nelle direzioni, permase vivace fino al consolidamento del fascismo e a certi successivi interventi ordinamentali che, tra città e sua “università”, riuscirono prima a rallentare e ostruire il ritmo dell’interscambio e poi a spezzare il nesso12.

L’inizio di quest’amicizia, introvabile dal lato delle evidenze archivistiche, la cui conservazione risale a non prima del 1938-1939, ci è noto dalla pagina che Lopez scrisse in morte di Luzzatto:

Il mio primo incontro con Gino Luzzatto risale nientemeno che al 1933. Fu lui che prese l’iniziativa di scrivermi (lo dico non per vanità, ma per sottolineare l’affabilità dello storico già illustre, che spontaneamente si apriva ai giovani principianti): aveva letto il mio primo libro su Benedetto Zaccaria, lo trovava di suo gusto, mi invitava a discorrere con lui dei nostri comuni interessi quando capitassi a Venezia. Ero a Milano: presi im-mediatamente il treno, arrivai – intempestivo oltre che inesperto – all’ora di colazione, sua sorella aggiunse subito un piatto per me. […] Pochi mesi dopo, Luzzatto mi diede la prova più difficile di amicizia: la critica. Avevo in cantiere uno studio su un condottiero veneto, Bertoldo d’Este, e la guerra veneto-turca del 1463. Consentì a leggere il mano-scritto […] E mi scrisse […]: perché mai volevo guastare la buona impressione prodotta con il mio primo libro dedicato a un uomo interessante, perpetrando un secondo libro su un Bertoldo qualunque? Gli diedi retta, per quanto il consiglio fosse scomodo […] e ridussi Bertoldo a poche righe. Salvai soltanto la guerra veneto-turca, un po’ più ricupe-rabile, che Luzzatto stesso fece pubblicare nell’Archivio Veneto, e che non può aver fatto gran male, perché pochissimi lessero l’articolo allora, e oggi nessuno lo ricorda più13.

La molla formativo-proiettiva del magistero storiografico e civile di Luzzatto risulta limpidamente essenziale nella retrospettiva di Lopez: «lo consideravamo come il nostro maestro e il nostro autore, starei per dire come il nostro papà»14.

Dovesse essere “sospettata” questa ricostruzione di Lopez di eccessiva con-cessione alla circostanza commemorativa, si potrebbe far ricorso a una pagina di quasi quindici anni dopo. Partecipando, il 15 marzo 1978, alla presentazione della sua raccolta Su e giù per la storia di Genova15, Lopez disse:

Il mio maestro, per quanto riguarda la storia di Genova, è stato Vito Vitale […]. Pri-ma di lui mi sono stati Pri-maestri [George I.] Bratianu, Romolo Caggese e Gino Luzzat-to. Caggese è stato il mio professore e con lui ho fatto la tesi di laurea. Gino Luzzatto mi è stato più che maestro16.

«Più che maestro», la capacità di Luzzatto di ricoprire un ruolo plurale, sia scientifico che etico-politico, ingredienti e lieviti del “mito” della diversità cafo-scarina, che un po’ affiora, qua e là, già in un antico scritto, rimasto fuori

circo-lazione in Italia e nelle ricostruzioni sull’Istituto veneziano, venuto dalla penna di uno dei soggetti attivi del “mito” stesso, Ernesto Cesare Longobardi, napole-tano e (arturo)labrioliano, docente d’inglese alla Scuola superiore e consigliere comunale socialista a Venezia, in seguito eretico interventista e poi comunista17; come, quasi quarant’anni dopo, più emotivamente coinvolta, nell’occasione, e tautologica nella sua certezza, ma non isolata né infondata, nella testimonianza di Ferdinando Milone, un immigrato meridionale, che all’Istituto era stato per qualche anno assistente di Geografia economica: «Ca’ Foscari era, allora, un mondo universitario diverso dagli altri, che non può non essere ricordato senza commozione da chiunque vi sia passato, docente o studente non importa, e che non è facile immaginare da chi non ne abbia avuto conoscenza»18.

«A Ca’ Foscari c’era un maestro» avrebbe molti anni dopo ricordato, e rico-nosciuto, Giorgio Amendola, commemorando un eroe partigiano bruciato vivo dai nazisti, Gino Menconi, cafoscarino del primo dopoguerra, ma proveniente da fuori, «toscanaccio alla Curzio Malaparte», nelle affettuose parole di Teresa Noce. Un discorso, quello svolto da Amendola al teatro Verdi di Carrara il 18 ottobre 1964, ricco di echi, rimandi, connessioni e rimbalzi in cui il capo comunista, da par suo, non volle lasciarsi sfuggire di sottolineare la «funzione dell’università ita-liana nella formazione di una coscienza democratica» sotto il fascismo:

A Cà Foscari c’era un maestro – Gino Luzzatto – storico dell’economia italiana, il quale ha dato un’impronta di sé a quella università. Magari, poi, i suoi allievi sono andati oltre alle sue posizioni. Gino Luzzatto era un socialista, un socialista modera-to, socialdemocratico. Alcuni suoi allievi sono andati invece più avanti, e molti sono diventati comunisti. Ma questo è lo scotto che tutti i maestri devono pagare: che gli allievi vadano oltre alle posizioni cui è giunto il maestro. Tuttavia, io voglio rendere omaggio a questo uomo, e a tanti altri professori, che in quegli anni, nelle università italiane, assunsero una posizione di indipendenza, che firmarono il manifesto con-tro il fascismo: il manifesto Croce, e che rappresentarono un punto di riferimento19.

Ricorre in Italia e all’estero per decenni la dimensione magistrale di Luzzat-to: Reynolds parlando di se stesso e d’altri eminenti maestri (de Roover, Lane, Sapori) in una sorta di mise au point della storiografia economica ci terrà a dire: e poi c’è, distinto e non distante, «the master of us all, Gino Luzzatto»20.

Quanto di tutto ciò era prefigurabile, nel 1933, allorché al professore veneziano pervenne un esemplare con dedica del libro che Lopez21, con grande tempestività,

aveva tratto dalla sua tesi di laurea, discussa a Milano con Romolo Caggese appena l’anno prima?22. Ciò su cui rimarrebbe da interrogarsi è l’intreccio tra motivazione scientifica e ammirazione etico-politica che fecero nascere in Lopez il desiderio di presentarsi allo storico dell’economia che, in quegli anni, più d’altri segnava fondamente la disciplina ispirandone il rinnovamento in Italia e, al contempo, pro-iettandosi con apertura e profondità di sguardo sulla scena estera, non tanto per chissà quale immanente sua capacità d’anticipazione di temi e nodi quanto per la consapevole sintonia dei suoi progetti con un dibattito internazionale che, per vie e ispirazioni differenti, conduceva, nei primi anni Trenta, alcuni studiosi, prove-nienti d’altrove e quasi sempre altrove diretti, nei pressi delle medesime questioni. La precoce attenzione di Lopez alle «Annales» di Marc Bloch e Lucien Febvre solo in Luzzatto poteva trovare un autorevole punto di mediazione e indirizzo.

Lopez poteva non sapere che il maestro veneziano avesse colto, fin dal pri-mo numero, le potenzialità della rivista francese, nata nel 1929; ma sapeva che, prontamente, Georges Bourgin, a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione di un articolo di Luzzatto «sull’attendibilità di alcune statistiche economiche medievali», manifestante una certa diffidenza, mutuata da Werner Sombart, per la vocazione e l’attitudine medievali alle statistiche, aveva colto assai per tempo le assonanze tra quello studioso italiano e il progetto storiografico francese23. E poteva anche non sapere che Luzzatto era subito entrato in rapporti epistolari almeno con Febvre. Al quale non dovevano, quelle provenienti da Venezia, sem-brare lettere convenzionali, se, in qualche caso, del loro contenuto riteneva di dover ragguagliare prontamente Bloch.

Non era infatti ancora stato lanciato il progetto d’inchiesta collettiva – tratto originale e distintivo delle «Annales» e dell’invenzione contemporanea dei mo-nografici – sulla nobiltà24, del quale tuttavia qualche accenno si era potuto già cogliere, su tracce di Henri Pirenne, quando Luzzatto s’era indirizzato a Febvre con una lettera il 9 ottobre 1930 per proporre uno studio sull’«attività e le condi-zioni economiche della nobiltà veneziana tra XIV e XV secolo»:

Seguo con vivo interesse, fin dal primo numero, la pubblicazione degli Annales che, tra tutte le riviste di storia economica, moltiplicatesi in questi ultimi anni, mi sem-brano la migliore per la larghezza di vedute con cui è stata concepita.

La proposta era stata subito, e favorevolmente, partecipata da Febvre a Bloch25; e, se Lopez l’avesse saputo, ciò avrebbe solo confermato che nel profilo

del maestro veneziano l’intreccio etico-storiografico dello «scienziato» e della sua «alta coscienza» era costitutivo del carattere dell’uomo.

Quando Marc Bloch, nel 1934, venne a fare un suo personale voyage en Italie, che meriterebbe di essere indagato, non conosceva molti studiosi della penisola; venne tuttavia fino a Venezia a vedere Luzzatto:

Le pauvre homme n’est guère bien en cour, je crois, il ne porte pas la chemise noire, dont Solmi, parait-il, s’est paré tout au long d’un congrès de droit maritime, tenu à Amalfi, et répond par un simple “buongiorno” le bras obstinément immobile, aux saluts à la romaine26.

Le lettere che Luzzatto e Lopez si scambiano rinviano continuamente a que-sto circuito internazionale e agganciano senza sosta altri corrispondenti e altre lettere, gran parte delle quali perdute. Quelle che si pubblicano di seguito copro-no gli anni dal 1938 alla fine della guerra. Si tratta di una scelta, con tutto quanto di arbitrario e ingiustificabile essa comporta; ma è una scelta che vuole valere come invito a lavorare soprattutto sull’archivio di Luzzatto; e all’istituzione ca-foscarina a elaborare e realizzare un progetto perché la gestione dell’archivio di Gino Luzzatto aggiunga alla funzione di conservazione, tutela e divulgazione anche quella di integrazione del patrimonio promuovendo la ricerca e la ripro-duzione elettronica delle lettere di Luzzatto sparse per il mondo che a un primo e non sistematico sondaggio risultano essere diverse centinaia.

Nel segno e nella direzione del maestro di storia e di vita, laico e aperto, ge-neroso e premuroso, va la lettera più “antica” scritta da un Lopez a Luzzatto il 1º marzo 1938; che peraltro non proviene dall’allora ventottenne Roberto, ma dal padre di questi, Sabatino (1867-1951):

Milano 1º marzo 38

Caro e illustre Professore, nell’Album che mi è stato offerto trovo fra gli altri – nella pagina di Venezia – il Suo nome. Roberto mi scrive che in una lettera diretta a lui mi ricorda affettuosamente. Io La ringrazio di queste Sue prove di cordialità, e più ancora Le sono grato dell’assistenza che dà al mio figliolo che Le è devoto e parla di Lei con la deferenza e con la tenerezza che Lei, veramente Maestro, si merita. Séguiti a volermi bene, che io gliene voglio. Suo Sabatino Lopez27.

Imminenti, quasi immanente a queste premure, le durezze, le persecuzioni, il ferro e il fuoco, la Shoah, la guerra, il dissanguamento dell’Europa.

«Disoccupato come sono rileggo e riordino le vecchie carte. Ho riletto e con-servo le tue lettere dal ’903 al ’938. Non ho potuto rileggere e non potrò conser-vare quelle che tu non mi hai scritto dal ’38 al ’40 perché (lo ricordavo benissi-mo) non hai trovato occasione e pretesto per scrivermi più. Ma quelle antiche sono così belle e saporose e affettuose che ne ho sentito ora più forte il desiderio»: autunno del 1940, inverno dell’Italia risorgimentale cui è tutto sommato sempre rimasto fedele, nonostante qualche simpatia iniziale per Mussolini e la costante, schietta antipatia per Farinacci, così Sabatino scriveva, nella dolorosa condi-zione di scomunicato vitando, a un suo evidentemente ex corrispondente28. Le solidarietà scarseggiarono anche in laguna, per Gino Luzzatto. Da fuori arriva-rono quella di Luigi Einaudi, Corrado Barbagallo, Raffaele Ciasca, Gioacchino Volpe, Raffaele Mattioli, Federico Chabod e d’altri pochi; talmente poche che al professore cacciato dalla sua Ca’ Foscari dev’essere sembrata significativa – ciò che a noi retrospettivamente può sembrare assurdo, e magari lo è – la letterina di vicinanza scrittagli da Agostino Lanzillo, vile fin da quel mettere in conto l’espulsione del collega a «circostanze di ordine generale»29. Meno ancora, se possibile, furono le solidarietà locali, a parte la cerchia degli amici e compagni fedeli e l’avvicinarsi a lui di alcuni giovani, che nulla avevano a che fare con l’ac-cademia e con gli studi storici e molto con il passo e il peso umano della storia30. E dev’essere stata soprattutto quest’accidia della Venezia borghese a far provare a Luzzatto l’umiliazione più cocente, quella che poi, variamente interagendo con la sua indole, lo avrebbe costantemente tenuto lontano, dopo il 1945, dal ricor-dare e dal parlare di quanto era accaduto a lui e agli altri ebrei veneziani31.

Gli amici che non scrivono più, o che o non si fanno più vedere: tante sono le secessioni e le viltà – ma anche parecchie le fedeltà, invero – che contribuiscono a quella trama dei “vuoti” e dei “pieni”, evocata in apertura di questo articolo32. Alto e semplice, partecipe e umano, antiretorico e commovente – con sguar-do profonsguar-do e respiro aperto – il brano di Giuseppe Turcato – uno di quei gio-vani irregolari cui ho fatto cenno – che del maestro ci ha lasciato forse il più bel «ritratto di parole»:

Con le leggi razziali, lo studio del professor Luzzatto era stato disertato da non pochi. Egli non dava mostra di soffrirne più di tanto. Gli uomini si sa… La sua sofferenza riguardava principalmente ciò di cui era stato privato: l’università, nella quale aveva esercitato l’insegnamento. Il suo volto, un tempo così sereno, si era chiuso in una tri-stezza fatta di silenzio. Gli occhi gli si illuminavano solo con gli amici provati, quando,

con essi, esprimeva la speranza di un avvenire migliore. Ricordo vicino alla scrivania, sempre in piedi, Angiolo Tursi. Ogni sua parola, ogni suo atto, era di deferenza verso il maestro. Venivano Cesare ed Enrico Longobardi, Pietro Rigobon, A. Zanon Dal Bo, Enrichetta Spina, Giovanni De Piante e si parlava e i temi ricorrenti erano quelli dei fatti della storia, della politica e della cultura del nostro tempo. Con gli ultimi giorni dell’agosto del 1943 vennero notizie sempre più allarmanti e si accentuarono le pre-occupazioni. Parecchi amici dovettero cominciare a pensare alla loro salvezza. Gli in-contri si fecero più difficili e fu soltanto poco prima dell’8 settembre che potei rivedere Luzzatto. Era solo e andammo verso il molo, là dove c’è lo stazio delle gondole. Avevo con me una piccola macchina fotografica e gli feci alcune istantanee. Ricordo che egli mi disse: «Che siano le ultime mie immagini, Turcato?» e sorrideva perché, nonostante tutto, voleva sorridere. Poi scomparve dalla circolazione: senza sue notizie eravamo in apprensione. Lo incontrai per caso un giorno di primissimo pomeriggio nei pressi di calle Fiubera. Intuii che doveva aver trovato momentaneo rifugio in una di quelle case. Lo vidi venire avanti in disordine — lui così inappuntabile — l’abito impolverato, i calzoni non stirati, il collo della camicia strapazzato e stava mangiando delle arachidi. Ne aveva una manciata in una tasca e me le offrì. Sperava e attendeva di ora in ora di partire. Ci dicemmo arrivederci, ma senza molta convinzione. Nessuno di noi sapeva con certezza quale avvenire ci attendesse. Luzzatto, come ha riferito Tursi, riuscì dopo un viaggio tortuoso a entrare in Roma con l’ultimo treno che vi giunse la sera dell’8 settembre e trovò rifugio nella casa del professor Raffaele Ciasca. Passarono quasi due anni ed egli ritornò nella sua città atteso da tutti coloro che lo amavano33.

Le parole di Turcato sfiorano una quinta rimasta un po’ in ombra: le due città e i loro destini incrociati e «sentieri interrotti»; le due città di cui Luzzatto non volle mai dare il racconto, forse in nome della malinconia che aiuta la speranza e argina o debella la disperazione. Come il vecchio riformista vittoriano Charles Dickens – fatte ovviamente le debite differenze – anche il vecchio professore veneziano avrebbe potuto dire:

It was the best of times, it was the worst of times, it was the age of wisdom, it was the age of foolishness, […] it was the spring of hope, it was the winter of despair […]34.

Aveva attraversato anche lui «il tempo migliore e quello peggiore, la stagione della saggezza e quella della follia, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione»; ma aveva fatto prevalere la speranza.

Note

* Un ringraziamento cordiale a Alessandro Casellato, Giovanni Favero e Reinhold Mueller per i molti e proficui scambi nella preparazione di questo lavoro. Ringrazio la Yale University Library, depositaria dell’archivio di Roberto Sabatino Lopez, e la Biblioteca dell’Università degli studi Ca’ Foscari in Venezia (Bec), presso la quale è serbato l’archivio di Gino Luzzatto, per avere messo a disposizione, rispettivamente, le lettere di Luzzatto a Lopez e quelle di Lopez a Luzzatto. Forse è il caso di avvertire che le vicende dell’archivio di Luzzatto prima che esso pervenisse alla Bec sono assai malnote. I carteggi in esso presenti datano in linea di massima dal 1935 (con alcu-ne limitate eccezioni costituite da lettere presenti in fascicoli diversi da quelli in cui è prevalente-mente raccolta la corrispondenza), di contro a un’intensa attività storiografica e pubblicistica del soggetto produttore che inizia a dir poco dall’alba del Novecento. Almeno una delle circostanze (che dovettero essere invece secondo me almeno due o tre) in cui i vuoti furono scavati ci è nota da una lettera di Luzzatto a Ernesto Rossi. Quando, infatti, poche settimane prima di morire, Luzzatto, costrettovi da esigenze di salute, dovette lasciare la casa da lui abitata per un’altra in uno stabile fornito di ascensore, scartò gran parte del suo archivio. Il 19 febbraio 1964 scriveva infatti a Rossi del «lavoro, assai poco piacevole, di prepararsi ad uno sgombero scartando e man-dando al macero dei quintali di carta diventati inutili», riprendendo in mano anche una «ventina di pacchi» di corrispondenza per decurtarli: Ernesto Rossi, Il nostro Luzzatto, «Nuova rivista storica», XLIX (1965), nn. 1-2, p. 164. Né Luzzatto chiese, né amici e istituzioni veneziani ebbero forse neanche la possibilità, purtroppo, di trovare una destinazione a quei «pacchi». Diverso il caso delle carte di Lopez, una parte delle quali fu trattenuta in famiglia dalla vedova, assieme ai