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Nazionalsocialismo Israele

Narratori italiani

N E R O SU GIALLO. LEONARDO SCIASCIA ERETICO DEL GENERE POLIZIESCO, a cura di Marcello

D'A-lessandra e Stefano Salis, pp. 141, € 14, La Vita

Felice, Milano 2006

Questo bel libro è stato prodotto dai "Qua-derni Leonardo Sciascia", la rivista annuale che pubblica saggi e ricerche, atti di conve-gni, riflessioni, discussioni su diversi aspetti dell'opera di Sciascia. È un volume compo-sito, che raccoglie interventi critici su sei ro-manzi, dall'anno dell'esordio nel genere, il 1961, a quello della morte (Il giorno della

ci-vetta, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo, Il cavaliere e la morte, Una storia semplice). I saggi sono di Segre e Dazieri,

Paccagnini e Guicciardi, Nigro e Fois, Salis e Nicoletta Vallorani, Pischedda, Cacopar-do, Tecla Dozio.

L'introdu-zione è di D'Alessandra e Salis. Le illustrazioni ripro-ducono dimenticate coper-tine. Ne risulta un volume interessante e malinconi-co. Dovrebbe non solo pia-cere ai cultori di Sciascia e della sicilianità o ai vecchi lettori del giallo classico, l'unico che, proponendosi come ortodossia, ispirava la fioritura degli eretici. Può servire infatti a chiun-que si occupi delle forme letterarie e del mutamento culturale negli ultimi tren-t'anni. Basti dire, con la ri-lettura di Sciascia, che

al-l'epoca c'era davvero il romanzo. E romanzo d'autore. Nero l'autobiografismo di Sciascia, che sul romanzo d'inchiesta e ingiustizia ha incardinato il proprio avvicinamento alla morte. Un illuminista pentito, lo definisce Pi-schedda. Pentito ma non del tutto, se conti-nuava a scrivere gialli o neri. C'è infatti, a fondamento del genere, un presupposto po-sitivo: che nell'entropia universale, in cui tut-ti muoiono, abbia senso tuttavia scegliere una morte e raccontarla. Vedi Una storia

semplice, dove allo sfinimento dello scrittore

malato si accompagna "la permanente ca-pacità di sdegnarsi" (Cacopardo).

LIDIA D E FEDERICIS

Marco Mancassola, IL VENTISETTESIMO ANNO.

D U E RACCONTI SUL SOPRAVVIVERE, fotografie di Pierantonio Tanzola, pp. 73, € 8, minimum fax,

Roma 2005

Marco Mancassola lascia Mondadori per tornare alle dimensioni più familiari di mini-mum fax (di Pequod i suoi racconti d'esordio). Accompagnati dalle fotografie di Pierantonio Tanzola, videomaker padovano con cui Man-cassola ha prodotto nel 2003 un documenta-rio sulle arti minori della provincia veneta, i due nuovi racconti approfondiscono e subli-mano il tema a lui più caro, la morte, con i suoi riti di passaggio. Due voci si alternano, ora in presa diretta ora in forma di racconto all'im-perfetto, per raccontare la storia di tre fratelli alla fine degli anni ottanta. Il maggiore muore a ventisette anni di Aids, dopo un cammino costellato da innumerevoli incidenti, lasciando il fratello minore, Hans, alle prese con il

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Osvaldo Guerrieri, NATURA MORTA CON VIOLINO

OLTREMARE, pp. 158, € 13, Aliberti. Reggio Emilia

2005

Mettendo da parte, almeno per ora, la ten-tazione teatrale che felicemente si era espressa in L'ultimo nastro di Beckett e altri

travestimenti (Aliberti, 2004; cfr. "L'Indice",

2004, n. 10), Guerrieri torna alla forma ro-manzo ma senza rinunciare al piacere della sperimentazione e della contaminazione. In questa Natura morta, la sperimentazione si manifesta nell'esercizio di una ricerca lingui-stica allusiva e accattivante, e la contamina-zione si realizza attraverso percorsi incro-ciati tra il romanzo di genere (qui, il polizie-sco) e le forme tipiche del racconto brillan-te. I risultati corrispondono in larga parte al-l'impegno del progetto, anche se la ricerca linguistica smarrisce talvolta la continuità che l'impianto iniziale lascia immaginare e se il poliziesco si lascia prendere la mano dalla capacità d'inventare situazioni e per-sonaggi che tradiscono ambizioni di più so-fisticate pretese. La storia ruota attorno al recupero d'un antico dipinto, rubato durante . la seconda guerra mondiale e il cui

ritrova-mento potrebbe rivelarsi un autentico teso-ro, per la bella e seducente Greta, per Luca Ruppolo di Malvento nobile napoletano spiantato, e per il gallerista d'arte Riccardo Capogreco, che insegue il quadro dal titolo di Natura morta con violino oltremare fin nel-la campagne britanniche del Lincolnshire. Chiusura ovviamente a sorpresa, con qual-che delusione.

MC

tivo vano di elaborarne la perdita. Intorno un padre e una madre, messi in scacco da un più grande fallimento, e gli anni dell'adole-scenza, la scuola, l'estate. Perché il passag-gio si compia, perché Hans possa riprendere fiato dalla notte in cui il fratello era entrato in coma, è necessario imparare a "distinguere immaginazione e ricordo". Tornare indietro a scandagliare i fatti per estrarre solo ciò che non gli appartiene, per riuscire a separare se stesso, il suo nucleo originario, da quello del fratello morto. "Brucia innocenza brucia. Bru-cia ingenuità, bruBru-cia incoscienza": versi ria-dattati ripresi da quel mito di eterna giovinez-za che è stato Kurt Kobain, a cui, non a caso, nel 2002 Tommaso Pincio dedicò una biogra-fia a chiave. Ma Hans non è un ribeile, lui non "graffia la storia" perché è "incapace di quel disagio che brucia, perché si adatta a tollera-re anche quel che è peggiotollera-re". Dunque non resta che restare ancorati al proprio ruolo e al proprio nome. Anche se può capitare che venga confuso con quello di chi l'ha precedu-to. Viene il momento, al "ventisettesimo anno", di abbandonare i fratelli al proprio passato. I fratelli elettivi di Hans sono Stig Dagerman, lo scrittore svedese morto suicida a trentuno an-ni, Silvio D'Arzo, morto di leucemia a trenta-due anni e Pier Vittorio Tondelli, morto di Aids a trentasei anni. Anni da compiere e supera-re, nel tentativo di appartenere a una più va-sta comunità letteraria il cui sogno infantile era quello di "narrare sempre, un'unica, definitiva, storia a lieto fine". Anche qui, come in altre prove, la scrittura è all'altezza del compito: ricca, ripetitiva, intima, perseguita il protago-nista con l'insistenza di tante domande, e di tanto dolore, chiuso in gola.

CAMILLA VALLETTI

ce soprattutto l'esperienza della "Voce", "cal-da serra del fascismo e dell'antifascismo", co-me la ebbe a definire Malaparte. Prezzolini non è tuttavia molto amato per le cose che scrive negli anni, quelli che per intenderci -preparano la teoria delle convergenze paralle-le e giungono fino al compromesso storico. E per capirne le ragioni basta una sola occhiata al libro che Sellerio ripubblica. Il titolo richiama un libello di Jonathan Swift, ma il pamphlet è uno straordinario concentrato del pensiero del direttore della "Voce". Le quindici proposte so-no testimonianza della straordinaria ibridazio-ne concettuale di questo "anarchico conserva-tore", come lui stesso amava definirsi: fustiga-zione del popolo italiano; impegno per la libe-ralizzazione del sistema universitario e profes-sionale, intervenendo fra l'altro sull'abolizione della tesi di laurea; serrata polemica nei con-fronti del vandalismo giovanilista; insofferenza alla celebrazione e all'autocelebrazione ("sono

un mucchietto di spazzatu-ra" aveva confessato tempo prima al suo amico-nemico Papini); ma anche fortissi-mo legalisfortissi-mo (attraverso la strenua difesa delia certez-za della pena) e rigido mo-ralismo (qui basta confron-tare la sua opinione sull'ine-leggibilità di condannati per reati non politici). A metà fra la narrazione polemica e surreale e l'apologo satirico dei libelli di Swift, Modeste

proposte è il frutto

godibilis-simo di un dilettante genia-le e contraddittorio (o forse geniale perché contraddit-torio?). Benché il suo tono sia quello del divertissement intellettuale, il pamphlet di Prezzolini ha il sorriso inconfondi-bilmente umoristico e disincantato di un lucido novantenne.

FILIPPO MARIA BATTAGLIA

Giuseppe Prezzolini, MODESTE PROPOSTE SCRIT-TE PER SVAGO DI MENSCRIT-TE, SFOGO DI SENTIMENTI E TENTATIVO DI ISTRUZIONE PUBBLICA DEGLI ITA-LIANI, pp. 89, € 7, Sellerio, Palermo 2006

Quando Prezzolini scrive Modeste proposte ha superato la verde età di novant'anni, ha da poco pubblicato II manifesto dei conservatori

e si approssima a rilasciare a Quarantotto L'in-tervista sulla destra. Come ci ricorda Beppe

Benvenuto nella nota posta a chiusa del libro, Prezzolini da un quindicennio è tornato di mo-da. Le sue opere giovanili vengono rilette,

pia-Luisa Ricaldone, DODICI STUDI. MARGINI DEL SETTECENTO, pp. 200, € 17, Edizioni dell'Orso, Alessandria 2006

Luisa Ricaldone, studiosa fra le più operose della letteratura settecentesca, specie femmi-nile, ha piacevolmente raccolto saggi usciti per la maggior parte fra il 1997 e il 2004. Seb-bene siano state istituzionali e accademiche le occasioni, spesso convegni di cui si sono pubblicati gli atti, la prospettiva dei suoi inter-venti, orientata verso aspetti e figure minori, ha fatto emergere una socialità ardita, un Set-tecento sperimentale e carnale, piacevole ri-scoperta. Sono figure di letterate che ebbero un certo successo e vita difficile, come Luisa Bergalli; oppure sono gli aspetti secondari di autori canonici, come Parini e Alfieri; oppure sono le relazioni incomparabili e doppie ("Al mio caro e incomparabile amico" scriveva Eli-sabetta Contarini all'abate Aurelio de' Giorgi Bertola), di cui il termine qui impiegato,

liai-son, sottolinea il modello francese con le

im-plicite connotazioni intellettuali e trasgressive. Luisa Ricaldone ha sviluppato negli anni una coerenza di metodo e interessi che giustifica la raccolta. Un metodo storico di analitica ri-costruzione del tessuto letterario, spesso pun-teggiato da quei dettagli in cui spicca la vi-vente concretezza di un'epoca. Vi ha aggiun-to ora l'idea del margine, della "marginalità", l'idea attuale, che suggerisce una positiva di-versità, quasi una contro-condotta, evidente in certe vite di donna. Indimenticabile Anna Contarini, quando a Bertola scrive del godi-mento fisico vissuto di notte in sogno: "lo ho poi passato una delle più beate notti che dar si possa, e ancora parmi d'esser in quella beatitudine, perché sempre sempre sono sta-ta teco". Eppure, fra godimento e discrezione, entrava l'influsso esterno della cultura d'epo-ca e di ceto. Rid'epo-caldone compendia molti dei suoi temi in questa storia erotica fra la gentil-donna e il poeta, così definendola in conclu-sione: "storia assolutamente vera e incondi-zionatamente letteraria".

N. 7/8 DEI LIBRI D E L M E S E | 38

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Penelope Lively, UN'ONDATA DI CALDO, ed. orig. 1996, trad. dall'inglese di Corrado Piazzet-ta, pp. 223, € 14,50, Guanda, Milano 2006

Terzo romanzo tradotto in Italia della scrittrice, inglesissima, Penelope Lively, questo Un'ondata di caldo non smentisce il tratto di professionalità che caratterizza-va gli altri due. Perfetta è l'ambientazione (la vita di campagna nel cottage di Word's End, un luogo immaginifico immerso nel verde a poche ore da Londra) e la messa a punto del milieu culturale all'interno del quale si consuma un adulterio. Siamo dunque nel cottage che Pauline, redatto-re fredatto-reelance di buon mestieredatto-re e buona carriera, condivide con la figlia non anco-ra trentenne Teresa, con il di lei marito Maurice, autore di libri di viaggio di suc-cesso, e con ii loro figlio Luke, di poco più di un anno. È estate, una torrida estate co-me si conviene ai drammi di relazione, e Pauline e Maurice sono costretti a rifugiar-si nei loro rispettivi studi perché sommer-si dal lavoro. Teresa invece dedica tutto il proprio tempo ad accudire il piccolo Luke. L'equilibrio sembra tenere, anche se, sin dalla prima apparizione, Pauline vede la propria figlia stagliarsi lontano co-me "un'eroina di Thomas Hardy". Infatti su di loro incombe il peso della predestina-zione. Come già il padre di Teresa, Mau-rice cela una natura vanesia e sciocca. Tradiscono perché accecati da loro stes-si e sono cedevoli alle lustes-singhe. Prima di Teresa, Pauline si accorge del segreto di Maurice: finirà in tragedia. Un romanzo ben costruito - soprattutto per il gioco di simmetria tra madre e figlia - a tratti an-che spiritoso (penso alla trama del libro che Pauline deve editare) e leggibile. Niente a che fare con certa narrativa fem-minile che a tutti costi inventa modelli di donne tanto lontani dalla letteratura.

CAMILLA VALLETTI

con l'antica tribù germanica, né con lo sti-le architettonico, ma rimanda ai vampiri hollywoodiani o a narcisisti cantanti rock.

DONATELLA SASSO

Michel Faber, I CENTONOVANTANOVE

GRADI-NI, ed. orig. 2001, trad. dall'inglese di

Giovan-na GraGiovan-nato, pp. 107, €9,80, EiGiovan-naudi, Torino 2006

Dopo essere passato attraverso la rivi-sitazione di generi molto diversi, dal ro-manzo vittoriano alla fantascienza, e dopo aver conquistato una nicchia di lettori molto fedeli, Michel Faber sperimenta il gotico. Un gotico sui generis, ambientato nella più prosaica contemporaneità, con incursioni fra le rovine dell'abbazia di Whitby nello Yorkshire, risalente al dodi-cesimo secolo, intervallate dalla decifra-zione di una pergamena del 1788, conte-nente una sconvolgente confessione. Siàn, archeologa trentaquattrenne, lavora agli scavi dell'abbazia, salendo ogni gior-no i suoi centogior-novantagior-nove gradini, ed è tormentata da sogni angoscianti, visioni spettrali, un forte dolore alla gamba con cui non vuole fare i conti. In mezzo a tutto ciò l'incontro con il giovane Mack, accom-pagnato dal più scontato repertorio del-l'approccio amoroso, con tanto di sguardi allusivi, appuntamenti mancati, un bacio puntuale dopo l'ennesimo acceso litigio. Ma il gotico del XXI secolo non può trova-re soluzione agli enigmi che, generoso, offre al lettore se non nell'ambito di una ri-gorosa e rassicurante razionalità. E così gli incubi notturni si spiegano con un inci-dente stradale nella Bosnia in guerra, che costa a Siàn l'amputazione di una gamba, il dolore lancinante non è un temuto tumo-re, ma una scheggia residua dell'infortu-nio, e persino la pergamena del XVIII se-colo non nasconde un morboso episodio di vampirismo, ma un fatto di estrema

pie-tas paterna. Il gotico, dunque, se non

cancella l'elemento soprannaturale ri-schia una rovinosa caduta nel kitsch. Di questo, però, Faber pare essere consa-pevole, ovviando con l'arma dell'ironia. Ormai il termine gotico, riflette a inizio del romanzo, non ha più niente a che vedere

Philip Roth, LA LEZIONE DI ANATOMIA, ed. orig. 1983, trad. dall'inglese di Vincenzo Man-tovani, pp. 241, € 17, Einaudi, Torino 2006

L'elegante copertina cartonata non tragga in inganno il lettore meno addentro alla produzione di Philip Roth: La lezione

di anatomia non è l'ultimo romanzo del

grande scrittore americano (che, per inci-so, si intitola Everyman ed è appena usci-to negli Stati Uniti). Inutilmente, il letusci-tore cercherà indicazioni sulla data di compo-sizione o qualche benché sparuta coordi-nata bibliografica

che gli permetta di scoprire quello che invece l'ap-passionato rothia-no già sa: e cioè che La lezione di

anatomia risale al

1983 e che fu portata in Italia da Bompiani qualche anno dopo. Terza tappa del

cosid-detto ciclo di Zuckerman composto an-che da Lo scrittore fantasma e

Zucker-man scatenato (a cui si deve aggiungere,

a mo' di epilogo, il racconto lungo L'orgia

di Praga), il romanzo è incentrato su

Nathan Zuckerman (trasparente alterego dello stesso Roth): uno scrittore ebreo newyorchese assurto a folgorante suc-cesso per un libro intitolato Carnovsky (ovvero: Il lamento di Portnoy), in cui la fa-miglia ebraica viene comicamente eleva-ta a massimo crogiolo di ogni possibile mania e nevrosi, provocando il risentito ostracismo da parte della sua, di famiglia.

La lezione di anatomia prende le mosse

da una misteriosa fitta, dolorosissima, for-se psicosomatica, che dal collo scende fi-no alle spalle e la schiena, e che impedi-sce al protagonista di scrivere. Inizia così una grottesca trafila tra dottori, santoni e guaritori, nella speranza, sempre delusa, di un risanamento. Forse la causa del ma-le - arriva a congetturare uno Zuckerman particolarmente sulfureo e sarcastico - è la scrittura stessa, questo estenuato, ma-sturbatone, sterile accanimento su se stessi, e quindi l'unica guarigione si potrà raggiungere solo smettendo di scrivere. Alla soglia dei quaranta Zuckerman deci-de di mollare tutto (tra cui le quattro don-ne che si prendono cura di lui...) per iscri-versi a medicina, e guarire se stesso at-traverso la cura e l'ascolto dell'altro. Il fi-nale resta aperto, ambiguo, in un cre-scendo di tensione, come solo la grande letteratura riesce a essere.

FRANCESCO GUGLIERI

persona dei tre personaggi che il caso pone sulla sua strada: Noah, un ebreo di-ciottenne scampato ad Auschwitz, Leon Shertov, un ex agente del Kgb che ha ab-bandonato l'Urss, e Benjamin Walter, un anziano docente di storia militare. La sto-ria di Davita si dipana dunque attraverso tre nodi temporali che segnano non solo l'evoluzione della sua vicenda privata, ma anche tre tappe fondamentali della storia: il dopoguerra, gli anni cinquanta, e gli an-ni novanta. Le parole e le reticenze dei tre personaggi, le memorie storiche e quelle personali tracciano un filo della memoria che si estende sia in senso orizzontale, nella progressione della storia, sia, attra-verso lo svelarsi delle vicende personali, nella stratificazione della profondità del tempo, nel frammentarsi della "massa" in esperienza individuale. Nonostante

l'im-portanza storica dei temi trattati, il vero protagonista del testo di Potok sembra essere il concetto stesso di narrazione. Il per-sonaggio di Davita, che non assume spessore attraver-so i tre racconti, se non con un'abile e delicata composi-zione di dettagli sottili, lasciando invece spazio al progressivo e faticoso riemerge-re dei ricordi degli altri personaggi, pariemerge-re trasportare il lettore nell'antefatto della scrittura, in quella capacità di ascolto e di condivisione delle "storie" che, secondo Walter Benjamin (non a caso rievocato at-traverso il nome di uno dei personaggi), rappresenta l'essenza stessa dell'atto del narrare.

TERESA PRUDENTE

Chaim Potok, VECCHI A MEZZANOTTE, ed. orig. 2001, trad. dall'inglese di Mara Mazzarel-la pp. 255, €16, Corbaccio, MiMazzarel-lano 2006

L'ultimo romanzo pubblicato da Potok prima della morte condensa alcuni dei te-mi più cari allo scrittore, ossia l'incrociarsi del destino storico e di quello individuale, l'identità ebraica, la coscienza religiosa, l'orrore della guerra, intorno al filo sottile che unisce le storie di cui il testo si com-pone. L'anello di congiunzione dei tre rac-conti è rappresentato dalla figura centrale di liana Davita Dinn (già incontrata nei ro-manzo del 1985 L'arpa di Davita), di cui il lettore segue l'evoluzione, segnata da tre tappe temporali che la vedono prima co-me giovane insegnante privata di inglese a New York, poi nel ruolo di ricercatrice universitaria e, infine, in quello di scrittrice affermata. È infatti Davita a farsi testimone (o meglio "mezzo") del racconto in prima

Philippe Besson, I GIORNI FRAGILI DI

ARTHUR RIMBAUD, ed. orig. 2004, trad. dal

francese di Francesco Bruno, pp. 170, € 13,50, Guanda, Milano 2006

"Tornerò, con membra di ferro, pelle scura, occhi furenti...". Nonostante questi versi iniziali, il libro non narra del poeta ma del Rimbaud malato terminale. Bes-son fa parlare Isabelle, la sorella di Arthur, che lo assiste nei suoi ultimi mesi di vita alla fattoria di famiglia di Roche, nelle Ar-denne. È lei la protagonista e forse sareb-be stato più equo titolare "I giorni fragili di Isabelle Rimbaud" o, come nella versione originale, semplicemente Les jours

fragi-les. Isabelle non ha nulla della poetessa

maledetta, anzi è la sorella "benedetta". Bigotta, zitella, devota fino all'assurdo. "Nella nostra casa gli uomini non riman-gono" dice Isabelle. In effetti il padre era scappato da tempo e Arthur lo aveva imi-tato a sedici anni. Era fuggito dalle Ar-denne per Parigi, Londra, l'assenzio, la poesia visionaria, le celebri pistolettate di Verlaine. Poi era fuggito anche da quella vita per la parentesi da ramingo e com-merciante di caffè in Nordafrica. Il "diario" di Isabelle inizia dal ritorno dall'Africa. Arthur è malato di cancro e gli amputano una gamba a Marsiglia. Isabelle descrive la lenta agonia, la spola tra l'ospedale marsigliese e la fattoria di Roche dove lei e Arthur respirano i miasmi di una famiglia allo sfascio, di una "mamma flagello" in-transigente e distante fino all'ultimo. L'epi-logo si consuma in un corteo funebre clandestino e surreale. Rimbaud muore a

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