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Negazioni-m e negazioni-q

Gli elementi che occupano le posizioni NegP-2 e NegP-3 derivano tutti da elementi di tipo quantificazionale che, diacronicamente, nascono come oggetti diretti del predicato, per poi subire un processo di grammaticalizzazione13. In particolare, le negazioni in NegP-2 derivano da quantificatori che esprimono una quantità minima, i cosiddetti minimizers, i quali si sviluppano da sintagmi nominali, dotati di un sintagma preposizionale come complemento. Infatti, il significato originario del piemontese/valdostano pa è ’passo’, quello del milanese minga è ’briciola’ ecc. Le negazioni in NegP-3 derivano invece dal quantificatore inanimato negativo (es. niente).

Le negazioni minimizer (negazioni-m) di cui ci si sta occupando derivano da

minimi-zer di tipo nominale, che in origine indicavano un numero o una quantità trascurabile, e

la loro distribuzione era limitata su base semantica. Nei contesti in cui occorrevano erano nomi indefiniti, i quali potevano avere come complemento un sintagma preposizionale, che conteneva a sua volta un altro DP (es. non bere una goccia d’acqua). Queste espressioni sono definibili come negazioni enfatiche, dove l’enfasi è ottenuta negando il livello minimo di una scala. Sulla base del lavoro di Roberts e Roussou (2003), la grammaticalizzazione è considerato un movimento verso sinistra nella struttura sintatti-ca: nel caso dei minimizers, la prima fase del processo consiste nella salita del nome

minimizer dalla sua posizione di base ad una superiore nella struttura del DP, NumP:

(58) miga de vin (milanese antico)

[DP [D Ø] [NumP [Num miga] [NP miga [PP de vin]]]]

La fase successiva consiste nell’interpretare la struttura come un DP unico, dove il nome all’interno del PP è la testa del NP, la preposizione è una marca di caso partitivo (K) e il minimizer è un quantificatore che costituisce la sua restrizione:

Figura 2.1

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2.5. NEGAZIONI-M E NEGAZIONI-Q 25

Il minimizer, a questo punto, è divenuto un elemento funzionale, perdendo le tipiche proprietà dei nomi: i tratti-phi, la possibilità di essere modificato, la possibilità di avere complementi preposizionali e, in generale, qualunque valore referenziale. In origine, gli elementi che occupano la posizione NegP-2, come si è visto, erano nomi in posizione di oggetto diretto e avevano valore scalare, esprimevano cioè un livello minimo sulla scala di valori fornita dal DP che li seguiva:

(59) Non mangiare una briciola = l’atto di mangiare non ha raggiunto un livello minimo per poter essere considerato come effettivamente avvenuto.

Quando la negazione-m diventa negazione standard di una varietà, perde la capacità di esprimere un livello minimo, cessando così di essere di per sé scalare. Nel caso delle negazioni-m non standard14, però, la scalarità sembra essere ancora un fattore rilevante. In particolare, nel caso delle negazioni-m usate per rinforzare la negazione standard, anche se la negazione-m non occupa la posizione di oggetto, il predicato è denotato come non soddisfatto, dal momento che non si è raggiunta una ’quantità’ minima dell’atto o proprietà che esso esprime. Per quanto riguarda le negazioni-m ’presupposzionali’, ammettendo che il contenuto proposizionale di una frase possa essere misurato secondo una scala di plausibilità, queste negazioni esprimono il fatto che il livello minimo di tale scala è stato superato.

Come si è già visto, la negazione in NegP-3 è legata etimologicamente al quantificatore negativo ’niente’. Nelle varietà ladine e in piemontese la negazione quantificazionale (negazione-q) costituisce il marcatore negativo standard utilizzato in tutti i tipi di frase, a parte le imperative. Come si è visto in Zanuttini (1997), la negazione-q occupa una posizione molto bassa in struttura, a destra di avverbi come «già», ma a sinistra di «sempre». Le varietà ladine qui considerate, cioè varietà a verbo secondo in cui l’elemento negativo di tipo quantificazionale è accompagnato da un elemento preverbale

n, corroborano questa proposta, dal momento che è possibile topicalizzare l’intero

costituente verbale includendo la negazione-q, cosa che non è possibile con negazioni più in alto in struttura:

(61) Nia desmentié ne podun-se döta chë jënt che...

’Non possiamo dimenticare tutte le persone che...’

La negazione-q è evidentemente trattata diversamente dai quantificatori negativi, i quali non possono superare il marcatore preverbale ne. Se, infatti, il quantificatore

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Le negazioni non-standard sono di tue tipi: da un lato ci sono avverbi usati per rinforzare la negazione preverbale, equivalenti all’italiano per niente, dall’altro ci sono negazioni usate per esprimere il fatto che una supposizione dell’interlocutore è ritenuta sbagliata. L’esempio in (60a) corrisponde alla negazione non-standard del primo tipo, quello in (60b) a quella del secondo:

(60) a. Mario un ha punto mangiato. (fiorentino) ’Mario non ha mangiato per niente’. b. Mario un ha mica mangiato.

negativo si trova in posizione preverbale, la negazione viene cancellata, mentre la negazione-q può essere spostata ad una posizione più alta di ne, senza che la frase risulti agrammaticale o implichi una lettura affermativa. Sulla base della distribuzione della negazione-q in veneziano, Garzonio e Poletto propongono la generalizzazione per cui la negazione-q sarebbe compatibile solo con verbi di attività. L’idea è che la negazione-q contenga un operatore scalare definito in letteratura semantica «omogeneo», dal momento che richiede che tutti i punti della scala siano dello stesso tipo, e per questo è compatibile soltanto con verbi di attività che permettono un’interpretazione di questo tipo. In questo caso, l’ipotesi è corroborata dal fatto che la negazione-q si comporta come altri elementi scalari, ad esempio ha la stessa distribuzione del quantificatore poco. I verbi di attività possono essere interpretati come una serie di eventi simili collocati in punti temporali diversi e quindi compatibili con una interpretazione scalare (Nol lavora

gnente è interpretato come una serie di eventi simili validi al momento a, b, c ecc. sulla

scala temporale. La presenza di un oggetto referenziale, invece, blocca l’interpretazione scalare omogenea del predicato: mangiare la mela non può essere visto come tanti sottoeventi identici in cui viene mangiato lo stesso pezzetto di mela). Gnente è quindi sensibile non solo alla presenza di una scala, ma anche al tipo di scala, dal momento che devono ripetersi occorrenze dello stesso evento o uno stesso evento deve essere suddiviso in intervalli di tempo. L’ipotesi avanzata da Garzonio e Poletto è quindi che gnente sia un quantificatore monotono decrescente (essendo negativo): la proprietà matematica di una funzione monotona è che va sempre nella stessa direzione (la funzione di gnente deve essere applicata al predicato, dal momento che è un avverbio). È necessario quindi poter creare un sottoinsieme di eventi simili, per ognuno dei quali si applica la funzione, cioè ognuno dei quali viene negato. Il fatto che sia l’elemento più adatto a diventare un elemento funzionale, significa che gnente ha delle proprietà semantiche o sintattiche che lo differenziano dagli altri quantificatori. A partire dalla considerazione che nelle lingue romanze in cui elementi interrogativi diventano clitici o complementatori, l’elemento selezionato è sempre il pronome interrogativo ’cosa’, il quale può essere considerato un operatore puro, dal momento che, a differenza di elementi come ’dove’ e ’chi’, ha una struttura interna priva di un restrittore lessicale, e quindi ridotta rispetto agli altri elementi interrogativi, è possibile avanzare la proposta che, siccome ’niente’ è l’elemento negativo con meno tratti lessicali al suo interno, esso può essere rianalizzato come un puro quantificatore avverbiale che ha portata su tutto l’evento, cioè che cerca una restrizione lessicale nella struttura del predicato. E questo rappresenta il primo stadio di grammaticalizzazione di gnente: il quantificatore assume cioè un uso avverbiale scalare che ha portata sul predicato stesso. Dal momento che esso si trova già in una posizione avverbiale, tant’è che la marca di negazione nelle varietà in cui il processo è stato portato a termine è quella dell’avverbio scalare, che si trova al di sotto di «già» e «più» e al di sopra di «sempre» e «tutto», la rianalisi semplicemente cancella la sua traccia in posizione di argomento. Benché Garzonio e Poletto non propongano una analisi precisa del perché la scalarità sia l’elemento chiave che permette la rianalisi sia