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gli anni che seguirono il secondo decennio del Trecento. E non è arduo scorgere nella struttura compositiva di questa grande pala d’altare ulteriori motivi di fantasia creativa.
Uno di questi è senza dubbio la sorpren-dente innovazione della consueta rappre-sentazione della Madonna seduta in trono e circondata dalla “corte” degli angeli e dei santi (appunto “Maestà”).
Ambrogio non immagina un seggio li-gneo, o marmoreo, magari decorato da inserti lapidei policromi, generalmente de-finiti come “cosmateschi”, com’eran soliti dipingere i suoi colleghi contemporanei, bensì affida la seduta del trono a un cuscino sostenuto da due angeli, che, tendendo in alto le ali, dànno forma anche alla spalliera. Occorre anche notare la sistemazione dei santi che costituiscono la “corte”
ce-leste della Madre, in file orizzontali e so-vrapposte, ordinamento inaugurato - al posto delle schiere verticali della tradizione bizantina e dugentesca, che erano presenti in un suo precedente dipinto, la Madon-na “Rucellai”, ora agli Uffizî, dipinta per la chiesa di Santa Maria Novella - anche in un altro famoso dipinto del caposcuola se-nese Duccio di Buoninsegna per la catte-drale di Siena, anticipando in tal modo di quasi trent’anni la pala massetana (siamo tra il 1308 e il 1311).
Tale schema compositivo fu poi ripetuto da Simone Martini nella analoga composi-zione nel Palazzo pubblico senese (1315-21), nonché da Lippo Memmi nel Palazzo comunale di San Gimignano (1317).
Tuttavia, nella concezione lorenzettiana si riesce già ad avvertire una collocazione Ambrogio Lorenzetti, Maestà (1335-1337), Massa Marittima, Museo d’Arte Sacra
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doveva necessariamente costituire, per il suo effetto di trasparenza, una superficie di spec-chio, erano apparsi in maniera più evidente due volti, incisi su quel colore: uno barbato, dall’aspetto più giovanile; l’altro più anzia-no, caratterizzato dalla barba più lunga (e queste fisionomie erano già state individua-te dai molti critici che s’erano occupati del contenuto del dipinto),
Più evidente ancora si rivelò la figura di una colomba, sul cui capo erano stati intrav-viste linee divergenti interpretate come raggi di gloria, e che recentemente, da analisi at-tente e da riprese fotografiche effettuate con varie tecniche e accorgimenti, sono stati de-finitivamente accertati come tali.
Indiscutibile fu quindi l’identificazione delle tre figure presenti nello specchio nel-le tre persone della Trinità, ossia la divinità nella sua compiutezza, che ancora secondo quando afferma Paolo, può esser vista solo “come in uno specchio” (lo si legge nella I Lettera ai Corinzi, capitolo 13, versetto 12).
Tale interpretazione fu anticipata da chi compila queste note, nel catalogo della “Mostra di opere d’arte restaurate nelle pro-vince di Siena e Grosseto” (Genova, SAGEP, 1981, pp. 61-66), all’interno della scheda che riassumeva la vicenda storica e contenutisti-ca della pala di Massa.
Più recentemente, la suggestiva presenza dei due volti e della figura della colomba, circondata da raggi, ha portato un gruppo di appassionati e cultori d’arte massetani, gra-vitanti attorno alla società “BCP Progetti” ad approfondire in vari modi la questione, dedicando all’interpretazione della singola-re raffigurazione ricerche di contenuto teo-logico, iconografico, scritturale, scientifico, che sono state poi adeguatamente ospitate e illustrate nella pubblicazione: “La colomba ritrovata. Un viaggio inedito nella Maestà di Ambrogio Lorenzetti”, a cura di Loren-zo Bocci, Oris Carrucoli e Dino Petri, (s. l., 2014).
Questa iniziativa è stata poi seguita da un convegno e una mostra dal titolo “Le vie d’Ambrogio. Ambrogio Lorenzetti e l’arte sacra lungo le vie commerciali della Marem-ma senese”, apertasi il 1 agosto di quest’anno e conclusa il 15 settembre scorso a Roccal-dei personaggi in una sorta di accennato
se-micerchio, quale risultanza indubbia di una ricerca spaziale avanzata.
Ma giungiamo all’inserto figurativo di maggiore originalità, che risulta senza dub-bio la scala di tre gradini dai tre colori, ossia, iniziando dal basso, bianco, verde e rosso, dove siedono le tre Virtù teologali. Di egual colore sono le vesti delle figure femminili che le impersonano.
È da notare che sullo scalino superiore (colorato in rosso), quindi in posizione pri-vilegiata, è assisa la personificazione della
Carità, che secondo l’espressione paolina (I
Lettera ai Corinzi, capitolo 13, versetto 13), è indicata come “la più grande” tra le vir-tù. Essa è rappresentata mentre reca in una mano un dardo – o giavellotto – e nell’altra una fiammella, simboli entrambi dell’amore secondo una tradizione medievale, ma poi ripresa anche in epoche più tarde.
(E cito, come esempio tra i più conosciu-ti, il dardo inflitto dall’angelo a santa Te-resa d’Ávila nel famoso gruppo marmoreo del Bernini in Santa Maria della Vittoria a Roma, dove l’artista interpreta figurativa-mente le parole della mistica spagnuola: “Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco”).
Seduta sul gradino verde è poi la
Spe-ranza, che ha lo sguardo fisso verso il
tro-no della Vergine col Figlio, mentre sostiene una torre dai diversi piani, a simboleggiare l’ascesa delle aspirazioni umane verso la sal-vezza, assicurata dalla divinità.
Tra le tre Virtù, quella che tuttavia ha suscitato la maggiore curiosità interpreta-tiva è stata senz’altro la figura della Fede, che vediamo seduta sul gradino colorato in bianco, ma soprattutto l’oggetto su cui fissa intensamente lo sguardo, ossia lo specchio in cui sembra riflettersi.
In séguito all’intervento di restauro ese-guito nei primi anni ottanta del secolo scor-so nello Studio Tintori di Firenze per conto della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Siena e Grosseto, venne notato che sul fondo rosso di questo singolare oggetto, cioè la preparazione alla stesura di una fo-glia d’argento, in séguito scomparsa ma che
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te ispirata dalla committenza agostiniana, che sappiamo, grazie alla tradizione diffusa anche in àmbito popolare (chi non ricorda l’episodio del santo meditabondo sulla riva del mare, mentre un fanciullo lo ammonisce di non tentare di spiegare razionalmente un mistero così grande?), particolarmente sen-sibile alla problematica della Trinità.
La “Maestà” di Ambrogio può esser quin-di oggi osservata e compresa in tutti i suoi contenuti fondamentali, che confermano l’assunto del significato non solo figurativo, ma anche teologico e dottrinario di questo indiscutibile capolavoro dell’arte pittorica senese del Trecento, che la nobile città ma-remmana conserva orgogliosamente come una delle principali testimonianze della sua prestigiosa vicenda storica e culturale, così strettamente legata a quella di Siena.
begna, pittoresco borgo amiatino dall’antica vicenda storica legata all’egemonia senese, che conserva anch’esso nell’Arcipretura dei Santi Pietro e Paolo un grande trittico loren-zettiano.
Le varie modalità d’indagine fotografica sul particolare dello “specchio” hanno fu-gato ogni dubbio sull’oggetto della pittura e sulla colomba, ispirando anche l’artista Dino Petri a tentarne una ricostruzione pit-torica, con un risultato di inequivocabile fedeltà a quanto poteva scorgersi più agevol-mente prima della modificazione dei colori stesi sul dipinto.
Le indagini presentate nella pubblicazio-ne che si è citato, hanno confermato defi-nitivamente la sorprendente (e per quanto si conosca, davvero originale) soluzione teo-logico-figurativa di Ambrogio,
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(Dio), del Figlio (Cristo) e dello Spirito Santo (colomba), più il sole (o aureola) che sovrasta tutti i personaggi citati. • La conoscenza e 1’applicazione, nella
rico-struzione, delle tecniche di preparazione della tavola da dipingere e della stesura della componente metallica, in questo caso la foglia d’argento, con le stesse me-todiche in uso nel 1300. La preparazione prevede 1’impannatura o ammanitura, la stesura del bolo di fi nitura e infi ne la do-ratura con la tecnica della missione, che prevede 1’applicazione di una vernice col-losa su cui si fa aderire la foglia metallica. • Un’osservazione fi lologica di soggetti
simi-li dipinti sia da Lorenzetti, come le oche di San Cerbone presenti nella Maestà, o da pittori coevi, come Luca di Tommé, dai quali è stato possibile trarre elementi uti-li. Si è allargata anche a fonti fotografi che riportanti uccelli in volo e in planata, so-prattutto delle colombe, che coincidono con quanto ancora traspare dal graffi to dell’artista senese.
I criteri con cui intraprendere l’ipotesi di una ricostruzione realistica dello specchio impugnato dall’ angelo della Fede, sono senz’ altro ardui e non possono prescindere dagli elementi che seguono.
• Una presa d’atto di ciò che ancora permane dell’antico dipinto: i solchi della graffi tura (vedi fi g. 18, 19, 20), le tracce eventuali di colore, il posizionamento del “sole” che,
come un’aureola, fascia la colomba dello Spirito Santo e 1’effi gie della colomba stessa che appare come se stesse conclu-dendo il volo dal Paradiso.
• La presenza del bolo steso su tutta la super-fi cie non dipinta dello specchio che testi-monia 1’applicazione su questa superfi cie di
una foglia d’argento, per dare allo specchio una parvenza realistica.
• Le risultanze degli studi pregressi (Bruno Santi, Norman Muller, Diana Norman, Chiara Frugoni) che hanno “interpretato” le fi gure presenti nello specchio della Fede come i volti rispettivamente del Padre