Accolgo con vivo piacere l’invito rivoltomi da Luca Serianni e Luigi Matt a rispondere non dirò già alla nota, ma all’invettiva nella quale Salvatore Claudio Sgroi contesta punto per punto la mia modesta scheda (e urbanissima, ché se tale non fosse mai avrebbe trovato albergo in questa rivista) sulla sua grammatica laica, benché sia la prima volta, nella mia lunga carriera di studioso, che un
auto-re – nonché (scil. ‘anziché’ [cfr. GDLI, s.v.]) limitarsi a ricevere le mie civili
os-servazioni con animo sereno e altrettanto civile – mi si scagli contro cosi brutal-mente usando espressioni non esattabrutal-mente cordiali quali « serpeggia », « irrecu-perabile », « mal trattenuto », « caso disperato », « sbotta », et sim. Tacere sarebbe il miglior partito, tuttavia accetto di controreplicare, non – beninteso – per eser-citare il mio diritto all’autodifesa (il lettore dispone di dati più che bastanti a giudicare di chi sia il braccio immotivatamente armato, di chi la nuda schiena), ma perché ritengo che il dibattito possa offrire utili spunti di riflessione tanto al grammatico che all’amateur.
Noto anzitutto con meraviglia che da un lato l’infiammato censore – facendo strame d’un sodalizio ultradecennale scandito da centinaia di mail, che ci ha visti finanche coautori – dichiara di non voler « fare granché caso ai miei giudizi »
(asserto cortese se altri mai, sul quale, in nome di detta amicizia, preferisco sor-volare), dall’altro non solo stila una replica ben più voluminosa del testo cui si riferisce (con tanto di commatizzazione e note al piede!), ma la pubblica in una sede storica e prestigiosa come gli SLI, che sarebbe miglior consiglio implicare in meno parvae questioni. Evidentemente Sgroi fa caso, oh si, ai miei giudizî.
Una logica davvero sui generis, come è stato da più parti rilevato (si veda, ad
esempio, con quale elegante acuzie Pietro Trifone – nel suo Malalingua. L’italia-no scorretto da Dante a oggi, Bologna, Il MuliL’italia-no, 2008, p. 199 – ponga in risalto la
patente contraddittorietà del linguista siciliano: « A proposito del rifiuto oppo-sto dal dizionario Zingarelli alle grafie con accento acuto anziché grave é, cioé, caffé, té, Sgroi esprime un netto dissenso, dal momento che “la distinzione
se-gnaccento acuto ~ sese-gnaccento grave può essere giustificata solo in quella va-rietà di italiano, soprattutto il toscano, che conserva l’opposizione fonologica é
~ è” […]. Secondo lo studioso, la censura dello Zingarelli è pertanto “un indizio
di conservatorismo linguistico e di purismo”. Rilevo però che ovviamente lo stesso Sgroi scrive sempre è con l’accento grave, che di solito fanno cosi tutte le
persone istruite, e che sarebbe un indizio sicuro di conservatorismo linguistico non avvertire della cosa chi si comporta in modo diverso non per libera scelta ma per semplice imperizia »).
Ma entriamo, come si dice, nel merito. Il sottoscritto è presentato nell’incipit con le qualifiche di « letterato, scrittore, polemista e neo-purista » – ma passim « neo-crusc », « vetero-purista », « (neo)purista », con attenuazione del primo
ele-mento e accentuazione dell’attributo, « purista fondamentalista » (calco, non dichiarato, d’un luogo della mia scheda), « purista disperato…, irrecuperabi-le… » (interpunzione – irrazionale – dell’A.), « cruscante impentito e teorica-mente incorreggibile » (« teoricateorica-mente incorreggibile »? che lingua sarà mai que-sta?) –, senza mai allegare uno straccio di prova. Nella chiusa, invece, diventa d’incanto « un letterato creativo, poeta e narratore, tutt’altro che scontato, che rompe (a mio giudizio, giustamente) le barriere linguistiche convenzionali »: dunque l’esatto opposto d’un muffito linguaiolo. Non sarebbe affatto male che Sgroi si decidesse tra l’uno e l’altro epiteto (a meno che non creda davvero che chi riesce nell’impresa di rompere « le barriere linguistiche convenzionali » pos-sa essere al contempo un inguaribile, flatulento purista; la metafora stevenso-niana è indubbiamente spassosa, ma non vale a camuffare la confusione del mio amico).
« Le quasi quattro pagine […] hanno senz’altro il pregio di mettere a fuoco la tesi centrale del mio testo ». Caspita! e non è questo il massimo che si possa – e deva – pretendere da una recensione (anzi, da una recensione breve, come recita la
rubrica degli SLI)? Ma al Nostro non basta: « L’A. trova tale concezione “discu-tibile” e fonte di “non pochi dubbî e perplessità” ». Ebbene? è forse un reato di lesa maestà dissentire dal verbo sgroiano? Ai sensi di quale legge ad personam i
suoi critici dovrebbero badare a quel che dicono, pena bordate di feroci impro-perî?
Ora, – prosegue il “grammatico laico” – qual è invece la concezione di norma ed errore dell’A. contrapposta a quella mia indicata in maniera esplicita? [non è chiaro quale delle due, la mia o la sua, sia « indicata in maniera esplicita », ma la chiarezza, si sa, non è il forte di Sgroi]
L’er-rore è presentato dall’A. in maniera “ovvia” [ancora « maniera », e chissà perché ovvia tra virgo-lette] come “una violazione involontaria del codice grammaticale dovuta a imperizia,
negligenza o scarsa cultura” […].
Al passo. Questo il brano incriminato:
Di contro all’opinione corrente che la reputa « un insieme di istruzioni » su quanto dev’essere privilegiato tra gli usi di una lingua « se ci si vuole conformare a un determi-nato ideale estetico o socioculturale » (p. 57), lo studioso catanese definisce norma nient’altro che l’uso reale di una data comunità linguistica; ergo l’errore consisterebbe non già, come credevamo di sapere, in una violazione involontaria del codice gramma-ticale dovuta a imperizia, negligenza o scarsa cultura, bensi in tutto ciò che rischia d’in-tralciare o vanificare il processo comunicativo-dialogico-interattivo.
Sgroi avrebbe dovuto leggermi con un briciolo d’attenzione prima di dar la stura ai suoi sacri bollori. Quale sarebbe la mia personale concezione di norma ed errore? Il « come credevamo di sapere » si riferisce forse al critico o non piut-tosto alla communis opinio? Mai e poi mai, inutile dictu, avrei osato opporre a
ché opera senza pretese reputo la grammatica laica – nientemeno che le mie
per-sonali « concezioni » circa una materia tanto delicata e controversa. Cito dal pri-mo testo a portata di mano:
Scarto rispetto alla norma riconosciuta e codificata dalla comunità linguistica. […] infra-zioni compiute inavvertitamente da parte di chi tenta di adeguarsi al codice grammati-cale, ma non riesce nel suo intento, e viene tradito dalla scarsa cultura, da abitudini ac-quisite, da un sostrato dialettale, dall’analogia con altre forme linguistiche. (Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, diretto da Gian Luigi Beccaria, Torino, Einaudi, 1995,
s.v. errore linguistico, a cura di Concetto Del Popolo).
Ecco l’« opinione corrente » contro la quale il mio ineffabile interlocutore com-batte da anni la propria guerra. Una guerra disperata, perché è certo che non esiste sul pianeta un solo linguista disposto a controfirmare le innumerevoli ingiunzioni rivolte da Sgroi ai lessicografi perché ammettano nei proprî dizio-narî retroformazioni e varianti grafiche o fonologiche quali redarre, vaquo, accelle-rare, e perfino – celeberrimo lapsus per metatesi, come i fraterni detonato/deno-tato, lavoro/valore, pento/tempo, ecc. – fedigrafo (cfr. Se la fedifraga traditrice diventa « fedi-grafa », « La Sicilia », 21 maggio 2012, su cui conto di spendere qualche
paro-la nel prossimo numero di « Osservatorio Bibliografico delparo-la Letteratura Italia-na Otto-novecentesca », probabilmente sotto il titolo Un metalapsus o la scientifi-cità degli umanisti).
Sgroi si domanda come si possa decidere « che ci si trovi dinanzi a una
“viola-zione del codice” senza cadere nell’a-priorismo ». Nessun apriorismo (senza trattino); sarà, semmai, opinabilissima la distinzione tra uso comunicativo e uso non comunicativo, perché dipende dal senso attribuito al termine comunicazione.
An-che il più irsuto sletterato percepirebbe i seguenti gioielli come violazioni invo-lontarie del codice grammaticale dovute a imperizia, negligenza o scarsa cultu-ra: « scena da mozzafiato »; « Una delle cose che mi è piaciuta di più »; « voce pianissima » per fievole; « Un’etimo incerta »; « In questa sala che lei mi ha
invita-to »; « Io sono tra coloro che vuole battere Berlusconi politicamente »; « Quesinvita-to pateracchio non è dovuto da ragioni internazionali »; « Nel scegliervi come ospi-ti »; « Sono molto emozionata di queste immagini »; « Il Parlamento avvalla que-sta tesi »; « L’Italia dei Valori appartiene a quella categoria di persone che vor-remmo chiedere »; « Il tennista Nadal ha perso da Federer »; « bulemico »; « tra-cheostomia » (detto da medico); « riempono »; « quotidianeità »; « reimpatriati »; « celebrissimo » (nella mia recensione distinguo ovviamente i casi di produzione orale da quelli di produzione scritta). Spropositi – come altro definirli? – tutti firmati, lo rimarca lo stesso Sgroi, da « autori il più delle volte di rilievo nel pa-norama nazionale italiano (letterati, politici, giornalisti, ecc.) ».
A questo punto, però, il ruolo del grammatico non può ridursi svilendosi, come vorreb-be l’A., alla semplice messa all’indice o alla gogna di questo o quell’uso, appioppando
[quale sarà il soggetto di questo gerundio? È forse « il ruolo » ad appioppare? O « la messa all’indice »? Non certo « l’A. », come s’illude il Nostro] a destra e a manca la colpa dell’ “imperizia,
negligen-za o scarsa cultura”
Indice? Gogna? Non posso fare a meno di chiedermi su cosa mai si fondasse la nostra amicizia visto il concetto che Sgroi alleva – certo non da ora – del sotto-scritto. Non ho bisogno di dire che gli esempî da me « generosamente offerti alla prelibazione del lettore » stanno semplicemente a significare che i parlanti-scriventi non popolari e « ben inseriti (‘che contano’) nella società » (p. 7 della
grammatica laica) non sono per ciò stesso campioni di cultura e di competenza
linguistica. E che, quindi, il castello teorico sgroiano (« corretti saranno ritenuti
[…] solo gli usi linguistici dei ceti/gruppi dominanti […], scorretti invece gli usi
di chi è “incolto” », ibid.) è costruito sulle sabbie mobili. Ancora:
Il criterio per identificare gli “errori” (a volte definiti con termine inevitabilmente mo-ralistico “vizio”) o “gli spropositi” affiora, in maniera quanto mai rivelatrice, là dove l’A. accenna a “le ragioni storico-etimologiche”, che invece “non trovano […] la benché minima accoglienza” per il sottoscritto [recte: presso il sottoscritto]. Ovvero per l’A. ogni uso
che non sia quello etimologico, che si allontani cioè dall’ “etimologia diacronica” della lingua-madre (e non si tratta di ridondanza terminologica) ma anche “logicisticamente” da quella “sincronica”, è semplicemente errato. Ora, una tale concezione dell’errore corrisponde a una concezione del linguaggio indifendibile: le lingue in quanto strumen-to di comunicazione (e di tante altre funzioni messe in campo dalla massa parlante) non possono costituzionalmente non cambiare. Le lingue che non cambiano sono solo le lingue morte, senza cioè parlanti nativi.
Vediamo di districarci in questa selva d’induzioni prive di qualunque fonda-mento. Il termine vizio (degli spropositi s’è già detto) sarebbe non solo «
morali-stico », ma addirittura « inevitabilmente moralimorali-stico »? Ecco il passo:
Accellerare con -l- geminata, deaggettivale da celere con scempia perché dal latino celer (ma
le ragioni storico-etimologiche non trovano in Sgroi la benché minima accoglienza), non sarebbe affatto un vizio ortografico-fonologico sia perché normale fenomeno di adeguamento della grafia a una fonia maggiormente diffusa presso parlanti non popola-ri di più aree linguistiche, sia in quanto suffragato da validi esempî letterarî a partire dal Quattrocento […].
Stento a credere che l’insigne linguista abbia di vizio una nozione
esclusiva-mente teologico-morale (‘incapacità del bene e pratica del male’). Dal Vocabola-rio Treccani, s.v.: « Errore, scorrettezza: v. di scrittura, errore ortografico o
gram-maticale; l’affettazione è v. dello stile; la petizione di principio è un v. del ragionamento ».
Quanto alla successiva intemerata, giudichi il lettore se una pura puntualiz-zazione parentetica – « (ma le ragioni storico-etimologiche non trovano in Sgroi
re Sgroi che non c’è nulla, proprio nulla di « sbagliato » in « le grafie marcate tac-quino, cospiquo, innoquo, innoquità, vaquo, vaquità, arquato, perspiquo, profiquo, profi-quità sarebbero da considerare, nonché erronee, semplicemente di bassa
fre-quenza » (salvo l’assurdità dell’ideologia ivi sottesa), e meraviglia che un docen-te ordinario di Linguistica generale pensi il contrario, trascurando per di più un dettaglio non dappoco: che un grammatico del calibro di Luca Serianni avrebbe certamente respinto un contributo recante strafalcioni cosi marchiani. La « pre-senza del precedente “considerare” » non rende « contraddittorio » un bel nien-te, e il ruolo di nonché è chiarito in modo inequivocabile dall’avverbio («
sempli-cemente »). Il senso del passo è più terso del cristallo: ‘le grafie marcate […] sa-rebbero da considerare, anziché erronee (come comunemente si crede),
sempli-cemente di bassa frequenza’. Il Devoto-Oli allega un esempio fra i tanti possibi-li, e non sancisce alcun obbligo di carattere topologico.
Quanto all’accellerare in Pizzuto, la voce narrante non giustifica affatto « dal
punto di vista di un personaggio la correttezza » della forma con doppia -l- né
tampoco « documenta […] la normalità di tale variante in un contesto burocra-tico », come prova la chiosa « l’ortografia si arricchi nell’Ispettorato di un termine nuovo »: nuovo, si badi, ossia fino allora inesistente, non certo « normale ». Più che normale invece, com’è arcinoto, la pronunzia con doppia -l- in tutti i
parlan-ti centromeridionali e la relaparlan-tiva grafia presso gli scrivenparlan-ti incólparlan-ti e semicolparlan-ti della stessa area; questo, appunto, il bersaglio della corrosiva ironia pizzutiana, fatalmente sfuggita al nostro analista. Che soggiunge:
E non mancano ulteriori esempi marcati in contesti formali, per es. (l’aggiungo ora) “la riforma della didattica universitaria […] ha accellerato il processo di adattamento alle
esigenze della società italiana contemporanea” (I. Luzza Caraci 2007).
Lampante lapsus calami della (non Luzza, ma) Luzzana Caraci (interpellarla per
credere) ovvero granchio del proto o revisore, non precisamente bellettrista e certo d’origine centromeridionale.
Altra prova non meno della lealtà che delle immani facoltà esegetiche del mio accusatore:
La categoria dei “custodi del linguaggio” (p. 314 col. 1), rivendicata dall’A. per i gramma-tici, mi sembra, nel migliore dei casi, inutile, se non presuntuosa [categoria rivendicata dall’A.? categoria presuntuosa? espressioni magnifiche, non c’è che dire].
Rileggiamo il passo sotto accusa:
Nessun dubbio, infatti, che l’ultima parola spetti alla comunità dei parlanti; che la norma debba esser ricavata dall’uso anziché dai precetti dei cosiddetti “custodi del linguaggio”, i quali « il più delle volte indicano preferenze del tutto soggettive » se non decisamente arbitrarie, proponendo analisi « scientificamente insostenibili » (p. 284).
la benché minima accoglienza) » – possa meritare un simile assalto. Risponde o non risponde al vero che il nostro “grammatico laico” – diversamente da stuoli d’altri illustri linguisti – nega recisamente ogni valore alle ragioni storico-etimo-logiche? Lo dichiara lui stesso; perché, allora, cambiare le carte in tavola? Sol-tanto un analfabeta, un idiota, un quadrupede senza speranza potrebbe sostene-re l’erroneità d’ogni uso non etimologico, e perfino l’immutabilità della lingua. Ho forse asserito che cattivo deva obbligatoriamente continuare a significare
‘prigioniero del diavolo’? Come si può anche lontanamente supporre che un letterato (tale, bontà sua, mi definisce il Catanese) ignori che solo le lingue morte non cambiano?
Si legga il seguente brano della mia recensione e si tocchi con mano la buona fede di Sgroi:
Nessun dubbio, infatti, che l’ultima parola spetti alla comunità dei parlanti; che la norma debba esser ricavata dall’uso anziché dai precetti dei cosiddetti “custodi del linguaggio”, i quali « il più delle volte indicano preferenze del tutto soggettive », se non decisamente arbitrarie, proponendo analisi « scientificamente insostenibili » (p. 284); che, insomma, il varo d’una forma o d’un costrutto si verifica – automaticamente, incontrastabilmente – quando i parlanti-scriventi cólti decidono di metterli in campo.
Questa sarebbe una « concezione del linguaggio indifendibile », e tale da giusti-ficare l’insolente titolo della replica?
Ma ecco il replicante tramutarsi d’emblée e senza alcun motivo logico
(l’ogget-to della replica non è cer(l’ogget-to la correttezza grammaticale o meno della mia recen-sione) in implacabile autovendicatore – ahilui, dai proiettili spuntati:
Al riguardo, c’è da chiedersi per es. se non sia contraddittorio (e quindi “sbagliato”, alme-no per me) l’uso di nonché in questa frase della recensione dell’A.: “le grafie marcate […]
sarebbero da considerare, nonché [‘e anche’?] erronee, semplicemente di bassa frequen-za (…)” (p. 314 col. 1). Il significato comune di nonché non si addice infatti, ed è anzi
contraddittorio, in questo contesto (data la presenza del precedente “considerare”). Il
nonché sembra valere qui infatti per ‘non’. Ma tale significato “letterario” e decisamente
raro di nonché “non solo non”, è illustrato in un dizionario come il Devoto-Oli (a cura di
L. Serianni – M. Trifone) in posizione iniziale: “nonché depredati, furono uccisi”. E quindi
l’uso nel contesto di cui sopra sembrerebbe (comunicativamente) “errato”… [virgolette e puntolini – al solito fuori luogo – dell’A.]
Sgroi mi conosce troppo bene per non sapere che è, non dico impossibile, ma assai difficile prendermi in castagna sotto questo riguardo. Lasciando stare che la reggenza di addirsi ‘confarsi, esser conveniente’ è sempre e solo dativale (non si addice a questo contesto o è improprio in questo contesto) e che la frase « tale
significa-to ‘letterario’ e decisamente raro di nonché ‘non solo non’, è illustrato in un
dizio-nario come il Devoto-Oli […] in posizione iniziale » è tutto salvo che comunica-tiva (« tale significato […] è illustrato in posizione iniziale »?), mi duole
informa-tica” del congiuntivo dipendente, per sostenere che la “perdita” de “la bellezza, l’elegan-za e la raffinatezl’elegan-za” (del cong.) rappresenta “una grave iattura per la comunità” (p. 315). Un caso, dal mio punto di vista, di un purismo disperato…, irrecuperabile…
Ho ritenuto di non controargomentare « sulla duplice valenza… » sia per motivi di spazio (Recensioni brevi) sia perché sul tema più d’una volta ho pubblicamente
incrociato le spade col mio accusatore (il quale, peraltro, illustra con larghezza di particolari la nostra disputa alle pp. 107-10 del suo libro).
Quanto alla singolare ermeneutica della mia chiusa, e cioè:
ammesso e non concesso che una frase dipendente al congiuntivo sia preferibile solo e soltanto perché « più bella, più raffinata, più elegante » (p. 108) della stessa frase col verbo all’indicativo, che cioè sciattezza e trascuraggine espressiva non incidano affatto sulla sostanza semantica e l’unica differenza tra Desidererei tu fossi buono e Desidererei che sei buono
sia esclusivamente « di registro », Sgroi vorrà forse negare che la bellezza, l’eleganza e la raffinatezza siano valori da custodire potenziare trasmettere, e che la loro perdita rappre-senti una grave iattura per la comunità?
Il gioco è ancora una volta palese: Sgroi non cita, come vuol darci a bere, parole del sottoscritto, ma le sue stesse parole:
La frase al congiuntivo è certamente più ‘bella’, più ‘raffinata’, più ‘elegante’, più ‘ricerca-ta’ ecc. dell’altra all’indicativo. Ed è questa la sola differenza d’uso dei due modi. Una differenza, si dice tecnicamente, « di registro » [sergenti – irrazionali – dell’A.] (p. 108).
Nel mio pezzo mi limito soltanto ad osservare che – « ammesso e non conces-so », ecc. – bellezza, eleganza e raffinatezza non conces-sono valori da buttar via, come lui vorrebbe (forse perché, s’è visto, incapace d’attingerli sia pur di sguincio: La volpe e l’uva). E ciò sarebbe sintomo di un purismo disperato e irrecuperabile?
Gualberto Alvino Bisogna ammettere che nel gioco delle tre carte Sgroi è insuperabile: non è chi
non veda come egli tenti con ogni destrezza di spacciare per entusiastica adesio-ne (ai precetti dei cosiddetti custodi del linguaggio) quella che è, in realtà, una
tra-sparente ridicolizzazione dei medesimi, per giunta in rotonda armonia con lo sgroipensiero (e non solo, ovviamente).
E benché la mia recensione non tocchi neppure di volo questioni di didattica linguistica, ecco cicciare dal nulla un’avvincente teoria:
È certamente necessario insegnare/dare “ai bambini” [che funzione avranno le virgolette?]
l’educazione/istruzione, ma la maniera più efficace è l’esempio (parlato e scritto) più che le prescrizioni (“devi fare o non fare cosi”). Devono poi essere “i bambini”, cresciuti educati e istruiti [ergo non più bambini], a fare scelte linguistiche e metalinguistiche
“re-sponsabili” [ancora le virgolette], autonome, senza più dipendere dagli altri.
Proviamo a seguire il curioso ragionamento (anche se lessico e sintassi cospira-no a impedirlo). Dato per concesso che i bambini pendacospira-no dalle labbra e dalla penna del maestro, nonché (scil. ‘e, e anche, e inoltre, come pure’) dalle pagine
degli autori, a tal segno da imitarne fruttuosamente l’esempio colmando con ciò solo le proprie lacune (Dio sa se nelle nostre scuole non càpiti l’esatto contra-rio), in che modo, di grazia, dovrebbe svolgersi la correzione d’una prova d’ita-liano? A un bambino che scriva, come accade di frequente, l’aradio, la ticre e il le-vone, gaiardo, negl’occhi, se sarei promosso vado almare, squdo, scuadra cosa dovrebbe
dire il docente? Che le persone cólte scrivono la radio ecc., lasciando a lui la
de-cisione se emularle o meno per non urtare la sua sensibilità e non metterlo in soggezione? E al momento della valutazione in crude cifre, sino a nuovo ordine obbligatoria, come dovrebbe regolarsi il maestro? Non scendere al disotto della sufficienza per non mortificare l’alunno, pur sapendo che questi, una volta « cre-sciuto », sarà spietatamente silurato all’esame di maturità o nei pubblici