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G a r y Zukav. LA DANZA DEI MAESTRI W u LI, ed. orig. 1979, trad. dall'inglese di Massimo Patti, pp. 408, € 18, Corbaccio, Milano 2004
Le scoperte della meccanica quanti-stica e della relatività hanno minato pas-so dopo paspas-so verità che parevano in-crollabili, obbligando i fisici a cambiare gran parte delle proprie idee sulla possi-bilità di una oggettività assoluta. La fisi-ca del Novecento ha rivalutato, volente o nolente, il ruolo dell'osservatore, c h e con l'atto stesso di osservare modifica i risultati dell'esperimento. Di qui all'idea-lismo il passo è breve, e l'autore sugge-risce di compierlo in maniera abbastan-za esplicita, aggiungendo di suo anche i possibili legami con le filosofie orienta-li. È probabilmente questo il nesso logi-co più debole di tutto il libro, e fa capo-lino un po' dovunque, anche se l'autore dichiara esplicitamente quando sta pas-sando dalla fisica alla metafisica e am-mette di non essere un esperto in fisica. Zukav riesce comunque a tessere un racconto interessante della fìsica teorica del Novecento, partendo da Planck per arrivare alla teorie di campo di Feyn-man, per concludersi con l'immagine della perpetua danza delle particelle su-batomiche che dà il titolo al libro. In ogni capitolo vengono sottolineate le piccole e grandi rivoluzioni concettuali che le varie scoperte hanno portato con sé. Non manca un accenno al teorema di Bell, cavallo di battaglia (oggi un po' sfiancato) di tutti coloro che sostengono interpretazioni misticheggianti della teo-ria dei quanti. Mancano purtroppo dal racconto gli ultimi venti anni del secolo: la prima edizione del libro risale infatti al 1979, il che lo rende un po' datato. La descrizione delle teorie fisiche e degli esperimenti che le hanno sostenute o confutate è comunque coinvolgente e semplice, dedicata soprattutto a un let-tore digiuno di fisica, anche se gli ultimi capitoli sono leggermente più tecnici.
LUCA ANTONELLI
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E D I T R I C E M I S S I O N A R I A I T A L I A N AVia di Corticella, 181 - 4 0 1 2 8 Bologna Tel. 0 5 1 - 3 2 6 0 2 7 Fax 0 5 1 - 3 2 7 5 5 2 e - m a i l : [email protected] - w w w . e m i . i t WKHMMHH Smith D.L. Christopher
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^ • I D E I LIBRI DEL M E S E | H 3k
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Wiel Arets. Opere e progetti, a cura di
Massi-mo Faiferri, trad. dall'olandese di Maria Cristina
Coldagelli, pp. 270, €48, Electa, Milano 2003
Di questi tempi parlare di virus mette una certa inquietudine. In qualche modo ne ap-profitta Wiel Arets che riconosce all'architet-to un ruolo da "virologo". La variazione che propone della strautilizzata metafora medi-ca si giomedi-ca sulla presupposta medi-capacità del-la buona architettura di agire come un virus.
Il tema è quello degli effetti secondari o, meglio, della capacità generativa dell'archi-tettura. La tensione non è rivolta al control-lo: Arets ribadisce con chiarezza che gli esiti dell'epidemia non sono controllabili, né verificabili. Si definiscono piuttosto come circoli virtuosi generati in prima battuta dal-l'abilità del sapere tecnico e implementati dalle circostanze. Il volume riporta le opere dell'architetto olandese, conosciuto per la capacità di costruire, nei suoi edifici, spa-zialità impreviste grazie a variazioni di sca-la e di materiali. Vi ritroviamo le opere più note, come il commissariato di Vaals dove la scommessa della trasparenza (per la quale è facile gioco il richiamo a Foucault) è sottolineata dal rapporto con il paesaggio, e quelle meno note, ben documentate nelle fotografie di Jan Bitter. I due saggi introdut-tivi giocano sulla complessità del lavoro di Arets: ii primo in modo più acerbo, il secon-do insistensecon-do sul nucleo centrale dell'auto-nomia dell'architettura, restituendo in modo più articolato il lavoro dell'architetto olande-se. Entrambi richiamando la vasta pubblici-stica costruita in questi anni attorno a esso.
CRISTINA BIANCHETTI
N E T W O R K I N G CITY. P R A T I C H E ARTISTICHE E TRASFORMAZIONE URBANA, a cura di Marco Scotini, pp. 319, s.i.p., Maschietto, Firenze
2003
Un sismografo che registrasse oscilla-zioni e variaoscilla-zioni dei linguaggi che voglio-no catturare ia città contemporanea voglio-non potrebbe non soffermarsi sull'importanza data in questi anni alle pratiche artistiche. È l'arte a triangolare soggetti, luoghi e uni-versi di senso, più di quanto non facciano altre pratiche di indagine. Così almeno in-cessantemente si ripete, mentre il ricorso alle pratiche artistiche, come momento co-noscitivo dell'abitare, diviene sempre più frequente, trovando robusti agganci nel nuovo protagonismo sociale. Lavorandoci assieme, più che rappresentandolo. Prati-che artistiPrati-che contro approcci analitici. L'opposizione è banale, ma ben evidenzia un atteggiamento che sta diventando do-minante. L'esperienza networking city, pro-mossa dalla regione Toscana e dall'asso-ciazione Tra Art, ha interessato cinque città toscane: Firenze, Livorno, Prato, Siena, Monsummano. Si è svolta in un tempo di cento giorni, con il coinvolgimento di nu-merosi artisti, giovani, più o meno noti, en-tro una molteplicità di situazioni e speri-mentazioni. Un cantiere a cielo aperto, una delie tante occasioni (più o meno istituzio-nalizzate) in cui la pratica artistica fuorie-sce dal dispositivo museale per imboccare strade urbane. Nel libro si trovano i temi dell'attuale dibattito sulla città e sulle nuo-ve forme di condivisione dell'abitare, a par-tire da pratiche quotidiane minute, quasi invisibili. Pratiche che usano io spazio ur-bano "a proprio modo" come avrebbe det-to Michel de Certeau. In quesdet-to inseguire le pratiche, le tracce lasciate dai lavoro de-gli artisti sono segni che si aggiungono, di diverso interesse e pregnanza.
(C.B.)
proponga come dispositivo di attenta let-tura della città contemporanea, i nuovi percorsi interpretativi generalmente guar-dano con sufficienza alle analisi minute e pazienti, affidandosi a modi di osservazio-ne meno sistematici. Il nuovo regolamento edilizio di Seregno - progettato da Franco Infussi e Chiara Merlini - è un esempio di quel tipo di lettura costruita sull'osservazio-ne dei particolari e sulla comparaziosull'osservazio-ne. Quasi non si riuscisse a fronteggiare altri-menti l'innegabile svantaggio cognitivo che ci pone di fronte lo spazio nei suoi rapporti con gli individui. Il territorio inda-gato è parte di quell'indifferenziato conti-nuum che è la Brianza. Due sono i temi di questo studio. Da un lato un interrogativo sui modi con i quali si esprime la specifi-cità locale. Il territorio di Seregno appare per molti aspetti simile a quello veneto o abruzzese o marchigiano. Ma osservan-done molto da vicino i materiali, ecco che si riesce a evidenziare minimi scostamenti con i quali in Brianza, nel Veneto in Abruz-zo o nelle Marche si cerca di far fronte alle medesime necessità abitative (più spazio, più comfort, più sicurezza...) con un ricor-so a elementi
diffe-renti. Forse non sulla spinta di specifiche volontà espressive, ma quasi per tra-scuratezza, per sug-gestione di un pre-cedente abitare nel suo lessico e nella sua sintassi. Il se-condo tema è nel quesito sull'operati-vità di una tale lettu-ra: una così attenta e puntuale interpre-tazione è in grado di
offrire modi e spunti per un progetto mi-gliorativo e nel contempo rispettoso dell'a-bitare per come esso si dà in quei territori disperanti della dispersione? È possibile uno spazio d'azione non appiattito su por-ticcioli e tavernette?
(C.B.)
incidere e l'ambizione di modificare il senso comune.
(C.B.)
C I T T À DI S E R E G N O , R E G O L A M E N T O EDILIZIO,
pp. 446, s.i.p., Arti grafiche Bianca&Volta, Mi-lano 2003
Non capita di frequente che uno stru-mento di regolazione degli usi dei suolo si
PROGETTI DI TERRITORI. L A RICERCA SUL PROGETTO AMBIENTALE DI G I O V A N N I M A -CIOCCO, a cura di Francesco Spanedda, pp. 252, € 30, FrancoAngeli, Milano 2003
La sindrome di Dorian Gray: ovvero la povertà del mondo riguarda i nostri oc-chiali o la sua sostanza? Siamo in mezzo a trasformazioni che quasi ci sovrastano: ogni senso di legame ai luoghi si sfilac-cia in una mobilità sempre più indifferen-te. Ma può essere che lo spaesamento, questo suggeriscono Maciocco e Taglia-gambe, dipenda dagli occhiali, cioè dal-la nostra capacità di costruire immagini. Tutto il libro, i progetti e gli scritti che contiene, può essere fatto ruotare su questo interrogativo. Sulla capacità di costruire immagini che restituiscano una nuova necessità di prendere coscienza del territorio (territorio in senso ampio, non il luogo "speciale" ove ognuno rico-nosce le proprie radici). Le immagini so-no immagini di ambiente: ritorso-no a una prospettiva ecologica che non è quella banalizzata di molti discorsi attuali, ma che ha un forte spessore sociale. Ritorno alla natura e alla storia come ritorno al-l'esperienza dell'alterità, "capacità dì progettare ii futuro di una vita organizza-ta". Il Manifesto di Bergamo (scritto da Vanni Maciocco per il cinquantenario dei Ciam nel 1999), con la durezza di ogni manifesto chiarisce e articola questa po-sizione. L'intersecarsi nella nozione di ambiente di locale e sovralocale; l'agire sul senso comune, la costruzione di un'etica di comportamenti condivisi nei confronti del territorio (cioè la sua impor-tanza come bene collettivo), le sfide di un mestiere che è a mezzo tra la consa-pevolezza della sua limitata capacità di
DALMINE DALL'IMPRESA ALLA CITTÀ. C O M -MITTENZA INDUSTRIALE E ARCHITETTURA, a cura di Carolina Lussana, pp. 336, s.i.p.,
Fon-dazione Dalmine, Dalmine (Bg) 2003
Il terzo dei Quaderni della Fondazione Dalmine ripropone un tema ricorrente nel-la ricerca storiografica urbana, quello del-le origini di città a opera di un'impresa e a mezzo della mediazione formale dell'ar-chitettura. Dalmine è accomunata a nu-merosi altri casi di città fabbrica dalle sue origini all'avvio del XX secolo e dallo svi-luppo travolgente che ne segna il primo periodo. La Faik a San Giovanni, la Cogne ad Aosta, la Lanerossi a Schio: molte so-no le situazioni che costruiscoso-no una sto-ria delle città a mezzo dell'induststo-ria. I temi sono ricorrenti: una modernizzazione che già all'inizio del secolo guarda all'Ameri-ca, che passa dentro le case quanto nelle
attrezzature che se-gnano il radicarsi della fabbrica nel locale (la scuola, la farmacia, il teatro): espressione di un anticipato welfare. Comuni sono anche le forme del ricorso alle culture tecniche e le ragioni della fi-ducia che a volte delinea legami sai-dissimi nel tempo. A Dalmine è la figura di Giovanni Greppi a dominare con grande continuità. Filippo de Pieri esorta tuttavia a cogliere una par-ticolare atipicità di questa company town
che si esprime nella mancanza di un pa-tronato stabile, per i passaggi di proprietà dell'impresa. Questo spezza la possibilità di ricondurre il racconto al paternalismo, concetto che assume troppo spesso la pretesa di una spiegazione esaustiva. An-che da questo caso si delinea un'esorta-zione a riscrivere ia storiografia urbana della prima metà del XX secolo con qual-che maggiore attenzione alla quotidianità, agli attori e alle loro logiche.
(C.B.)
T O R V I S C O S A : ESEMPLARITÀ DI UN PROGETTO, a cura di Enrico Biasin, Raffaella Canci e
Ste-fano Perulli, pp. 134, € 16,50, Forum, Udine
2003
L'uso di fotografia e riprese cinemato-grafiche è da tempo pratica comune nei cosiddetti cultural studies. In questa rico-struzione i materiali dell'archivio "Primi di Torviscosa" e un cortometraggio del 1949 di Michelangelo Antonioni (Sette canne un vestito) diventano pretesto e materiale di un'indagine sulla vicenda di Torre di Zuino. Torre di Zuino, sulla linea ferrovia-ria Venezia-Trieste, è una delle città di fondazione del periodo fascista. La "città nuova dell'autarchia" (la definizione è di Filippo Tommaso Marinetti) affianca i nuo-vi insediamenti nelle aree di bonifica (Lit-toria, Sabaudia, Pontinia), il centro aero-nautico di Guidonia e quello minerario di Carbonia. A Torre di Zuino dalla canna si produce la cellulosa. E la produzione co-struisce un paesaggio fatto di praterie, tasselli di bosco artificiale (masse geome-triche di pioppi o canna gentile), qualche casa colonica: uno spicchio d'Olanda in Friuli, dirà Cesco Tomaselli all'inizio degli anni sessanta. La città era sorta quasi dal nulla più di vent'anni prima, alla fine del 1937, a opera del capitale privato, quello della Snìa Viscosa di Franco Marinotti, che diventerà primo podestà dei nuovo comune, affidandone la progettazione a
Giuseppe De Min, suo tecnico di fiducia. Lo studio su Torviscosa, così come sulle città di fondazione non è certo nuovo nel-la storiografia del Novecento. Ciò che contraddistingue alcuni contributi raccolti in questo volume (quelli di Paolo Nicoloso e di Massimo Bortolotti, in particolare) è la lucidità circa il modo in cui l'architettura si fa materiale di un programma economico e politico.
(C.B.)
P A U R E IN CITTÀ. STRATEGIE ED ILLUSIONI DELLE POLITICHE PER LA SICUREZZA URBANA, a cura di Giandomenico Amendola, pp. 193,
€ 15, Liguori, Napoli 2003
IL GOVERNO DELLA CITTÀ SICURA. POLITICHE, ESPERIENZE E LUOGHI COMUNI, a cura di
Giandomenico Amendola, pp. 302, €19,
Li-guori, Napoli 2003
L A CITTÀ ANSIOGENA. L E CRONACHE E I LUO-GHI DELL'INSICUREZZA URBANA A TORINO, a cura di Alfredo Mela, pp.184, € 13,50,
Liguo-ri, Napoli 2003
L A VULNERABILITÀ URBANA. S E G N I , FORME E SOGGETTI DELL'INSICUREZZA NELLA SARDE-GNA SETTENTRIONALE, a cura di Antonietta Mazzette, pp. 303, €26, Liguori, Napoli 2003
Un'intera collana della quale escono contemporaneamente i primi quattro volu-mi è dedicata al tema della paura, non co-me costante di una storia di lungo periodo (il che potrebbe essere, naturalmente), ma nella forma specifica e nuova che es-sa ha preso negli ultimi anni. Sembrava ci si fosse sbarazzati di questo antico senti-mento dopo la truce metà del secolo scor-so o, perlomeno, che lo si potesse relega-re ai margini dell'esperienza quotidiana per via di una nuova fiducia che attraver-sava il mondo occidentale: nei progressi scientifici, in quelli economici e di convi-venza, nel diffondersi del welfare. Da un ventennio o poco più le cose cambiano e la paura torna a essere un connotato del-la vita urbana. Ne diventa un principio or-ganizzatore, addirittura. Nei diversi contri-buti che riempiono questi quattro libri, l'a-ria che si respira è quella che non vuol di-menticare ia lezione del post-strutturali-smo, quella per la quale i valori si costrui-scono socialmente. Così Antonio Tosi, che si sofferma sul carattere intrinseca-mente urbano del tema della sicurezza, ma anche Alfredo Mela si domanda per-ché proprio la città costituisca lo scenario privilegiato all'inquietudine. La paura, so-stiene Tosi, ha conseguenze di grande peso nell'affermazione di un modello po-vero di urbanità fatto di crisi della coabi-tazìone, di separazione e isolamento, di desertificazione dei luoghi pubblici. È co-me se si fosse scivolati da un modello di urbanità antico, che ancora qualche volta richiamiamo con qualche nostalgia (quel-lo dell'alia che rende liberi, dell'equilibrio delicato e indispensabile tra relazioni in-terpersonali e spinta all'indifferenza), a uno opaco, solipsistico. È, in altri termini, il carattere chiuso delle società urbane a segnare il passaggio al postmoderno. I contributi del primo volume sono di in-quadramento generale, p i ù specifica-mente dedicati alle politiche quelli del se-condo, che discutono problemi e caratte-ri di un'efficace governance dell'insicu-rezza, mentre il terzo e il quarto sono de-dicati a studi di caso (torinese e sardo). Nell'insieme emergono molte sfaccettatu-re del problema: la sicusfaccettatu-rezza da bene co-mune indivisibile a bene la cui disponibi-lità è funzione del potere d'acquisto; gii aspetti economici; ia comprensione dei processi sociali nei quali il problema si dà; di quelli finanziari che genera (ad esempio nella valorizzazione di alcuni mercati immobiliari); le connessioni con i circuiti mediatici; i connotati della paura legati all'imprevedibilità del crìmine più ancora che alla sua efferatezza; il suo di-sarmante carattere di senso comune.
N.5 DEI LIBRI DEL MESE | 43
A l e s s a n d r o Barbero, LA BATTAGLIA. STORIA
DI W A T E R L O O , pp. 378, € 18, Laterza, Roma-Bari 2003
Fatte salve le dovute eccezioni (da Piero Pieri a Giorgio Rochat), la storiografia ita-liana si è di rado confrontata con lo "speci-fico militare", ossia con la dimensione "fisi-ca" dello scontro, con le dottrine tattico-strategiche, o con i problemi della tecnolo-gia bellica. La situazione sta fortunatamente mutando. Barbero storico e narratore -si misura con uno dei generi portanti della storia militare: l'analisi di una battaglia. An-zi, egli sceglie di confrontarsi con quella che, per molti versi, è la battaglia per anto-nomasia, come lascia intendere chiara-mente il titolo stesso dell'opera. Waterloo, infatti, si configura come il modello idealti-pico della "giornata decisiva", del grande scontro in cui due geniali condottieri si af-frontano in una sanguinosa partita a scac-chi. Come osserva Barbero nelle pagine fi-nali, "tutte le generazioni vissute in Europa fino alla Prima Guerra Mondiale la conside-rarono come lo spartiacque che aveva im-presso una svolta decisiva alla storia del mondo". Il fatto che egli indichi nella Gran-de guerra il termine ad quem non è casua-le: con il 1914-18, infatti, la guerra assume caratteristiche radicalmente nuove, si dis-solve la stessa idea di "scontro decisivo", a favore di un lungo e sfibrante conflitto di at-trito. Avvalendosi tanto delle sue compe-tenze di storico quanto delle le sue doti di narratore, Barbero costruisce comunque un ricco e affascinante racconto, che se-gue ora per ora lo svolgersi della lotta fra l'armata di Napoleone e le forze anglo-prussiane, tenendo insieme le questioni strategiche e l'esperienza personale dei singoli combattenti, la storia dei reggimen-ti e i problemi di ordine tatreggimen-tico. L'autore si colloca così nel solco della miglior storio-grafia militare di marca anglosassone.
GIAIME A L O N G E
A n t o n i o Scurati, GUERRA. NARRAZIONI E
CULTURE NELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE,
pp. 260, €24, Donzelli, Roma 2003
Scurati si occupa da tempo di guerra, sia come saggista, sia come romanziere
(Il rumore sordo della battaglia,
Monda-dori, 2002). In questo suo ultimo lavoro ra-giona attorno alla trasformazione che il racconto di guerra ha subito nella cultura occidentale. I tre momenti nodali indivi-duati da Scurati sono rispettivamente l'e-pica classica, il romanzo "moderno" (uti-lizzando il termine nel senso più lato: si tratta di un'ampia panoramica, che parte dall"'autunno del medioevo" e arriva sino a Stendhal), e la televisione dei giorni no-stri. Il complesso e stimolante percorso costruito da Scurati è segnato
sostanzial-mente dalla progressiva perdita di senso dell'esperienza bellica. Nel mondo antico - scrive l'autore - la guerra si configurava quale "dimensione generativa di significati e valori colletsignificativi". Il guerriero omerico -l'Iliade rappresenta, infatti, il paradigma di questa concezione della guerra - riesce a imporre la propria individualità sul caos della mischia nel momento glorioso del duello.-Il mondo moderno, invece, speri-menta il dissolversi dell'aura eroica del combattente e, al contempo, l'impossibi-lità di raccontare la guerra: ia battaglia di-viene un'esperienza irrazionale, dominata dall'anonimato della morte di massa e dall'impossibilità di cogliere il senso ge-nerale dell'azione. La descrizione di Wa-terloo nelle pagine iniziali della Certosa di
Parma, in cui Fabrizio del Dongo non
comprende nulla di ciò che gli accade at-torno, rappresenta la testimonianza più lu-cida di questo scacco. La terza fase, il cui baricentro è rappresentato dalle dirette televisive della prima guerra del Golfo, re-gistra il definitivo venire meno della "visi-bilità" della battaglia. Tanto i mezzi di co-municazione di massa ci promettono di "vedere tutto", quanto in realtà essi non ci mostrano nulla, se non uno schermo ver-de attraversato dalle scie luminose ver-del fuoco contraereo: la televisione, lungi dal-l'offrirci un racconto articolato della guer-ra, non fa che portare a compimento la paradossale cecità di Fabrizio.
( G . A . )
ciata con volantini, tanto da richiamare uno stuolo di giornalisti e fotografi, ma non fu in effetti abbastanza giustificata sotto il profilo militare; se i tesori artistici del mo-nastero vennero tratti in salvo, lo si deve al tenente colonnello austriaco Julius Schle-gel, oppure al dottor Becker, oggi entram-bi dimenticati. L'oentram-biettivo dell'operazione, secondo le parole di un ufficiale alleato, si riteneva fosse il "punto chiave" della dife-sa organizzata dai nazisti, "riempito di