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J O H N IRVING, Il mio cinema. Un rac-conto autobiografico, ed. orig. 1999,

trad. dall'inglese di Gianfranco Petrillo, pp. 176, Lit 26.000, Rizzoli, Milano 2000

Lo scrittore americano John Irving ha scritto finora nove ro-manzi (tutti pubblicati anche in Italia, da Bompiani e da Rizzoli), e da tre di questi sono stati tratti dei film: nel 1982 II mondo

se-condo Garp di George Roy Hill,

nel 1984 Hotel New Hampshire di Tony Richardson e nel 1999

Le regole della casa del sidro di

Lasse Hallstròm, da poco uscito in Italia. Anche altri due roman-zi, Libertà per gli orsi e II figlio

del circo, sono stati trasformati

in sceneggiature, ma senza suc-cesso. In questo libro Irving rac-conta queste sue molteplici esperienze di transito tra lettera-tura e cinema, soffermandosi so-prattutto sull'ultima, la più in-tensa e complessa: più di dieci anni di lavoro con quattro diver-si registi (Phillip Borsos, Wayne Wang, Michael Winterbottom e infine Hallstròm) su Le regole

della casa del sidro.

Naturalmente non è facile per 10 scrittore abituato a creare in solitudine e in piena libertà adattarsi alle limitazioni imposte dall'industria cinematografica: tempi condensati e ritmi serrati, convenzioni linguistiche e preoccupazioni economiche, problemi caratteriali e cautele contenutistiche finiscono per obbligarlo a continui compro-messi. Ma la cosa più esasperan-te è che la sceneggiatura di un film non è affatto detto che di-venti davvero un film - "Si pos-sono contare sulle dita di una mano i romanzi autenticamente buoni che ho letto in manoscrit-to e che non sono stati pubblica-ti, ma che le buone sceneggiatu-re non si trasformino in film è normale".

Di fronte alle infedeltà alla propria scrittura cui il cinema lo costringe, Irving si sforza di rea-gire da professionista sensibile ma ragionevole. Hollywood ha le sue regole, e che piaccia o no vanno accettate; così, seppure a malincuore, lo scrittore-sceneg-giatore elimina personaggi e sfronda dialoghi, velocizza e semplifica, comprime e allegge-risce, limitandosi a insistere su pochissime cose a cui non inten-de rinunciare: che emerga chiaro 11 messaggio abortista ("se si do-vesse fare un elenco delle perso-ne che dovrebbero vedere que-sto film, in cima andrebbero messi due gruppi di persone: i politici che si autodefiniscono 'per la vita' e le bambine di do-dici anni") e che la storia si man-tenga incentrata sul rapporto fi-liale tra Homer e il dottor Larch, evitando la facile trovata di pri-vilegiare la love story tra Homer e Candy. Fa quindi un po' im-pressione leggere in conclusione di questo libro che "se sul cartel-lone pubblicitario di Le regole

del-la casa del sidro finiscono Candy

e Homer, abbiamo fallito". Irving non lo sapeva ancora, ma sul car-tellone pubblicitario sono finiti davvero Candy e Homer.

L'INDICE

^ S T R U M E N T l t

The Cambridge Guide to Women's Writing in English, a cura di Lorna

Sa-ge, pp. 696, Cambridge University Press, Cambridge 1999

Da "Abbess of Crewe, The", quattordicesimo romanzo di Mu-riel Spark, a "Zwicky, Fay", austra-liana, classe 1933, questo ampio repertorio elenca la scrittura al femminile non "inglese" ma "in in-glese", come è invalso dire d a q u a n d o il canone letterario anglo-sassone con sempre meno resi-stenza si è aperto alle letterature delle ex-colonie e a quelle etniche degli Stati Uniti. Qui trascorriamo p e r c i ò dalla scrittura chicana, cioè messicano-statunitense, a quella maori passando per nume-rose altre aree del globo. Le sin-gole voci sono firmate da trecento e più collaboratori, non esclusiva-mente donne ma anche uomini, e non solo a c c a d e m i c i ma anche drammaturghi, poeti e narratori, scrittori e studiosi agli esordi,

freelance e giornalisti letterari,

provenienti da paesi del mondo anglofono. L'intelaiatura ideologi-ca è quella dei gender studies, per cui certe distinzioni sono frut-to di elaborazione sociale, ed esi-ste una sfera testuale che si può dire "femminile", nascosta sotto il tessuto del discorso maschile, e affiorante c o m e interruzione di quel tessuto. Le 2500 e più voci non riguardano solo autrici ma an-che opere, generi letterari (fra cui troviamo "scandalous memoirs", per imbatterci in figure

secente-sche dalla fortuna in crescita co-me Aphra Behn e Delarivière Man-ley) e terminologia generale quale "modernist women", "postmoder-nismi", e "post-colonial writing" appunto. La stessa curatrice si rende conto che il repertorio, pur vastissimo, è selettivo, e candida-mente fa l'esempio dell'esclusa Anne Hunter, dama del tardo Set-tecento, le cui poesie furono mes-se in musica da Haydn (stando al gioco, potremmo ricordare anche Annette Doyle, traduttrice del Tas-so nel XIX secolo).

(C.S.)

HERMANN W . HALLER, The Other Italy. The Literary Canon in Dialect,

pp. 377, University of Toronto Press, Toronto-Buffalo-London 1999

Seppure gli studi italiani manca-no di ricordarlo, Haller, italianista al Queens College della City Uni-versity di New York, si inserì fra i primi nella ripresa dell'interesse verso la poesia dialettale durante gli anni ottanta. La sua antologia

The Hidden Italy (1986) fu

secon-da solo a quella monsecon-dadoriana di Chiesa e Tesio; e fu a lungo unica negli studi di italianistica d'oltreo-ceano. In essa il compilatore (e traduttore dialetto-inglese) con-densava il dibattito che si era avu-to sulla sponda italiana dopo Pa-solini. Oggi che in terra americana abbiamo l'antologia trilingue

Dia-lect Poetry of Southern Italy (cfr.

"L'Indice", 1998, n. 4), a breve completata dal corrispondente vo-lume per il Nord, e la versione in-glese di Via terra, l'antologia neo-dialettale contemporanea a cura di Achille Serrao (cfr. "L'Indice", 1994, n. 1), Haller raccoglie l'inte-ro filone di studi, intreccia la trama letteraria all'imprescindibile ordito linguistico - fa capolino il linguista del pidgin italo-americano di Una

lingua perduta e ritrovata (La

Nuo-va Italia, 1993) - e offre agili pa-norami dell'intera tradizione dialet-tale di poesia, teatro e prosa dal Cinquecento a oggi. Dopo aver tratteggiato lo scenario comples-sivo, egli fraziona la trattazione re-gione per rere-gione, per ciascuna offrendo un panorama specifico e una bibliografia che, se non è completa, può dirsi esauriente fino agii anni 1995-96. Con più sicu-rezza di quanta forse noi stessi

saremmo disposti a darci, Haller parla esplicitamente di un canone letterario duplice, in italiano e in dialetto, per la letteratura della Pe-nisola e dei suoi abitanti. Duplice e paritetico. Questo è il deciso fondamento della sua trattazione; la quale, se è un manuale com-plessivo per lo studente d'oltre-oceano, è a n c h e un'utilissima summa di informazione e di con-cetti, di idee e valutazioni, rispetto alle quali Haller, naturalmente ben addentro alla produzione e al cor-so degli studi in Italia, è tuttavia al-quanto autonomo, sganciato da intrecci talora condizionanti con gli autori, e del resto aperto per forza di cose alla scrittura degli italiani residenti all'estero.

(C.S.)

Standard English. The Widening De-bate, a cura di Tony Bex e Richard

J. Watts, pp. 312, Roudedge, London-New York 1999

Basti pensare che sempre più spesso si parla non di inglese,

English, ma di "inglesi", Engli-shes, quasi che, a somiglianza

del latino medievale, l'odierna lin-g u a del m o n d o lin-già accenni a frammentarsi in volgari locali; o pensare al virulento dibattito degli anni ottanta sulla varietà di lingua nazionale da insegnare nei nuovi curricoli inglesi e gallesi; o

all'al-tro dibattito sul movimento per l'inglese lingua unica negli Stati Uniti, e alla reazione che ha sca-tenato in difesa delle lingue d'ori-gine degli immigrati nei sistemi educativi e nei documenti ufficiali; oppure ancora alla controversia sull'uso del dialetto afro-america-no, o ebonics, d o p o che una scuola di Oakland, California, de-cise di adottarlo come seconda lingua di istruzione, per rendersi conto di quanto complicato e ine-ludibile sia qualunque discorso sull'inglese standard. Gli undici saggi qui collezionati affrontano gli aspetti storici, attuali e ideolo-gici della questione. Il volume si propone naturalmente agli studio-si, ma anche agli insegnanti di in-glese, che sono una categoria trasversale del globo. Anche per una situazione, c o m e quella italia-na, in cui il dibattito non assume certamente i toni accesi che può avere altrove, l'ampia panoramica contribuisce potentemente a ele-vare la c o n s a p e v o l e z z a della questione, e fornisce forse spunti risolutivi, come quello citato dal ben noto linguista e grammatico Quirk, che parla di "standard di-versi per occasioni diverse per persone diverse, ciascuno in sé corretto quanto ciascun altro"; ov-vero l'idea di uno standard "pluri-centrico", nel senso che, come a un certo punto riassumono i cura-tori, laddove si ha standardizza-zione, il modello è derivato da va-rietà locali.

(C.S.)

The Italian American Experience. An Enciclopédia, a

cu-ra di Salvatore J. LaGumina, Fcu-rank J. Cavaioli, Salva-tore Primeggia e Joseph A. Varacalli, pp. 735, Garland, New York - London 2000

Nell'indice analitico della recente Cambridge History

of American Literature. Voi. 7: Prose Writing 1940-1990 (Cambridge University Press, 1999), troviamo

nu-merosi rimandi sulle letterature a doppia aggettivazione: African, Asian, Chinese, japanese, Jewish, Native,

Filipi-no, Mexican (o "Chicano"), tutte seguite da un American, ma non esiste accenno a una "Italian American literatu-re". Non incontriamo molto miglior fortuna in altri re-pertori recenti e prestigiosi, quali la Columbia Literary

History of the United States o The Heath Anthology of American Literature.

Se tale poca visibilità dipende da mancanza di affidabi-li opere di riferimento (e non da discriminazione, come invece sostengono i diretti interessati), l'enciclopedia qui

presentata sicuramente contribuisce a colmare quest'esi-genza. È un dizionario alfabetico compilato da 166 stu-diosi coordinati da due sociologi, uno storico e un esper-to di studi etnici. La matrice di studio dei curaesper-tori dà l'impronta all'intera opera. Infatti, l'inventario abbraccia non soltanto singole personalità, ma corposi articoli qua-li (cito ad apertura di qua-libro) Agriculture, Fishing,

Edu-cation, Family Life, Radicalism, Organizations, Crime,

e trattazioni dedicate alla presenza femminile nei vari settori della vita americana. L'ottica socioculturale va an-che più in dettaglio, esaminando aspetti an-che ci giungono meno scontati: Hospitality, Saints, Traditional Songs, e perfino Passeggiata, che attestano il permanere di abitu-dini radicate.

Il pantheon delle personalità individuali comprende politici, finanzieri e sindacalisti, letterati e artisti, stel-le del cinema, astri della musica, campioni dello sport, ma anche fortunati imprenditori, i quali tutti nel com-plesso formano un mosaico o affresco variegato e

cu-rioso, nella cui disparatezza troveremo accostati il governatore Cuomo e la ristoratrice Mamma Leone, la cantante Madonna e Santa Francesca Cabrini, il Nobel Levi Montalcini e il fantino Arcaro, il banchiere Gian-nini e l'ammiraglio Trosino. Voci individuali tutte che giungono a completamento di articoli complessivi su ciascun campo di attività (letteratura, narrativa, poesia, teatro, opera, televisione, stampa, medicina, ostetricia, calcio, industria vinicola, attività militari e così via). L'opera ha respiro storico, per quanto i per-sonaggi del passato messi a fuoco non siano numerosis-simi.

Troppo facile, di fronte a un repertorio così vasto, recri-minare su esclusioni e focalizzazioni (ci sarebbero piaciu-ti, per esempio, un articolo a sé per DeLillo, o la topono-mastica dei tanti piccoli centri dal nome italiano — uno per tutti: Tasso nel Tennessee). Nulla tolgono alla necessità di quest'opera.

C O S M A SIANI

PASCAL D'ANGELO, Son of Italy, a

cura di Sonia Pendola, introd. di Luigi Fontanella, pp. 189, Lit 25.000, Il Grappolo, Sant'Eu-stachio di Mercato S. Severino (Sa) 1999

C r e d o sia debita almeno la no-tizia di questo libro d'un pioniere d e l l a scrittura i t a l o - a m e r i c a n a (cfr. "L'Indice" 1992, n. 5, e 1997, n. 9), se non per il c a s o umano di Pascal D'Angelo, per il suo signi-ficato storico in quell'ambito di studi. Da p o v e r i s s i m a famiglia abruzzese, p o c o più che alfabe-tizzato, D'Angelo a n d ò in Ameri-c a a fare il braAmeri-cAmeri-ciante; logoro e squattrinato ma pervicace, svi-luppò una passione travolgente per la poesia, imparò l'inglese c o n l'aiuto di un p i c c o l o Webster,

andò a New York a vivere in un tugurio umido, m a n g i a n d o pane duro e banane sfatte, frequentan-do la biblioteca, scrivenfrequentan-do poe-sie. Fra i molti cui le sottopose, il critico dei giornale "The Nation", Cari Van Doren, fu mosso dall'in-tensità della lettera che le ac-c o m p a g n a v a e dalla g e n u i n a densità dei versi, e gliene fece p u b b l i c a r e alcune. D'Angelo fu apprezzato, invitato a collabora-re, attinse notorietà - in una lin-gua, non dimentichiamolo, non sua ma straniera e a p p r e s a alla disperata. Tutto ciò, con l'ampio preludio della vita in Abruzzo, egli racconta in questa autobio-grafia, uscita in inglese npl 1924 con prefazione dello stesso Van Doren. Il "New York Times" ne scrisse: "Pascal D'Angelo

appar-tiene a quel genere di persone, rare in America, ii cui successo è così spirituale da essere quasi privo di materiali o r n a m e n t i " . E così descrive anche lo stile di questo racconto autobiografico, passionale ma alieno d a sofisti-c a t o m a l e d e t t i s m o , anzi tanto schietto d a suonare c a n d i d o , e diretto da apparire elementare. Morì malato e indigente nei 1932, Pascal D'Angelo. Quello stesso

establishment che per breve

tem-po si era concentrato su di lui, in breve lo rimosse. I suoi scritti non sono mai stati raccolti. Questa versione italiana dovuta a un pic-colo meritorio editore sia dun-que segno di una ripresa d'atten-zione, al di qua e al di là dell'o-ceano.

(C.S.)

SIRIO DI GIULIOMARIA, Don't Speak Macaroni English. Presentazione seria (ma non sempre) degli inglesi e della loro lingua, pp. 127, Lit 9.900,

L'Airone, Roma 1999

Un manualetto conciso e diver-tente su usi e costumi, cliché, tic e fissazioni degli inglesi d'Inghilterra, che l'autore ha scritto nella scia di libri molto divulgati (in prima linea quelli di Beppe Severgnini e il best-seller di George Mikes How to Be

ari Alien), ma anche sulla scorta

della propria lunga esperienza co-me insegnante d'inglese nelle scuole italiane, autore di popolari testi scolastici per tale materia, e persona lungamente impegnata in associazioni professionali di do-centi. Vengono messi a fuoco aspetti prevedibili (il tempo, ia

fa-miglia reale, il tè), alternati a temi meno scontati (gli acronimi, i grup-pi di pressione, il bagno e la doc-cia), ad argomenti di maggiore spendibilità sui versante linguistico

(Alcuni consigli a chi studia l'ingle-se, Le varietà regionali dell'inglel'ingle-se, Frasi che è utile imparare), e alla

trattazione di temi divenuti attuali (il politically correct), accompagnati a rapidi box di vera e propria natura grammaticale, sulle strutture della lingua e gli errori più comuni del di-scente italiano, giovane o adulto. Il tutto nell'idea che ciò che mette ai riparo dall'usare un inglese mac-cheronico è non solo la competen-za linguistica e comunicativa, ma anche la consapevolezza delle dif-ferenze culturali che si nascondo-no dietro una lingua.

Internazionale

FRANCESCO GOZZANO, Europa e America: egemonia o partnership? Cin-quantanni di d i f f i c i l i relazioni trans-atlantiche (1946-1999), pp. 192,

Lit 40.000, Angeli, Milano 1999 In questo libro Francesco Goz-zano esamina il rapporto tra gli Sta-ti UniSta-ti e i loro principali alleaSta-ti in Europa occidentale negli ultimi cin-quant'anni, un rapporto articolato e complesso, a dispetto della sua natura oggettivamente asimmetri-ca, in cui alia superiorità economi-ca e militare statunitense è non di rado corrisposta una capacità dei singoli soggetti europei di condi-zionare le scelte e le azioni del po-tente partner d'oltreoceano. La struttura del libro si divide in due corpi principali: una breve croni-storia degli eventi, piuttosto fretto-losa e superficiale in alcuni suoi passaggi, e una ricostruzione delle principali problematiche attorno al-le quali sono ruotate ie difficili rela-zioni transatlantiche dell'ultimo cin-quantennio. A queste due parti si aggiungono una breve premessa introduttiva, che mette a confronto il diverso a p p r o c c i o europeo e americano alle, tematiche interna-zionali, e una parte conclusiva che si concentra sulle vicende correnti e sui possibili sviluppi futuri dei rapporti transatlantici. Lo studio di Gozzano illustra la storia di una du-plice contraddizione. Da un lato, quella che ha contraddistinto l'at-teggiamento statunitense nei con-fronti dell'Europa occidentale du-rante tutto il secondo dopoguerra, nel quale la convinzione che un'Eu-ropa unita e integrata avrebbe po-tuto costituire un più solido bastio-ne contro l'Urss e il comunismo è stata spesso bilanciata dai timori nei confronti della possibilità che essa potesse trasformarsi in un ri-vale degli Stati Uniti, soprattutto nella sfera commerciale e finanzia-ria. Dall'altro, l'ambiguità dei paesi europei, stretti tra la volontà di ac-quisire una maggiore autonomia e indipendenza in ambito internazio-nale, l'incapacità di superare le lo-ro divergenze e la paura che un eventuale disimpegno americano dal Vecchio Continente avrebbe fatto venire meno la copertura ga-rantita dalla protezione militare

sta-tunitense. Questa reciproca dop-piezza ha condizionato (e continua a condizionare) l'approccio del-l'Europa e dell'America nei con-fronti dei loro principali oggetti di contesa: dalla regolamentazione multilaterale del commercio inter-nazionale alla distribuzione degli oneri e delle spese (burden

sha-ring) nell'Alleanza Atlantica. Anche

alla fine del secolo, e a dieci anni dalla disgregazione del blocco co-munista, lo scetticismo americano nei confronti della capacità euro-pea di promuovere una propria po-litica di sicurezza continua a intrec-ciarsi con il fastidio europeo per l'uniiateralismo di Washington e per la diffidenza con cui la potenza egemone si rapporta alle organiz-zazioni internazionali (a partire dal-le Nazioni Unite). Sullo sfondo re-sta l'incapacità europea - più volte rimarcata dall'autore - di procede-re sul piano della propria integra-zione politica e militare dando vita a un soggetto politico coeso e uni-tario in grado di costituire non tan-to un'alternativa agii Stati Uniti, quanto un loro alleato paritetico, c a p a c e di svolgere un ruolo com-plementare a Washington negli af-fari internazionali e di risolvere au-tonomamente crisi c o m e quelle scoppiate nella ex-Jugoslavia.

M A R I O D E L P E R O

LUCA CODIGNOLA, LUIGI BRUTI LIBE-RATI, Storia del Canada. Dalle origini ai giorni nostri, pp. 814, Lit 24.000,

Bompiani, Milano 1999

Per quanto possa apparire curio-so, fino a oggi l'editoria italiana non aveva ancora offerto una storia de! Canada che dalle origini condu-cesse ai nostri giorni. Quel paese, di non secondaria importanza an-che per la storia diplomatica del nostro secolo e dell'Europa, indub-biamente riscuote minor interesse del vicino statunitense e dell'Ameri-ca Latina. Questo forse in ragione della sua stabilità politica di fondo, intervallata di tanto in tanto da spinte separatiste, lette in Europa e in Italia con lenti non proprio foca-lizzate sui principali problemi. Co-me che sia, finalCo-mente si dispone oggi di una storia dei Canada. Se-c o n d o le più aggiornate tendenze

degli studi canadesi, Codignola traccia il profilo del Canada a par-tire dalle conquiste coloniali tenen-do conto dell'apporto dei nativi. I protagonisti del XVI e del XVII se-colo sono, oltre naturalmente ai francesi, le Cinque Nazioni India-ne. Dopo un'indagine sulle motiva-zioni che conducevano i coloni a recarsi in quella che allora si chia-mava Nuova Francia (e che occu-pava una parte del territorio dell'at-tuale Québec e dell'atdell'at-tuale Ontario, con punte verso il nord e verso le praterie), e dopo uno spaccato della vita sociale e culturale dell'in-sediamento colonico, si passa al momento più vivo, quello della guerra tra Francia e Inghilterra nel XVIil secolo. Essa si concluse, co-me si sa, con la vittoria degli ingle-si, e la "Nuova Francia" diventò parte delle colonie britanniche. Ma l'insediamento francofono era trop-po radicato, e da qui iniziò una sto-ria di contrasti ancora oggi non se-dati. Di fronte alle offerte dei ribelli americani di entrare a far parte del-la costituenda nazione, l'Ontario di-ventò il rifugio dei lealisti britannici (Toronto venne fondata da loro). Quando, nel 1867, Mac Donald portò alla costituzione della Confe-derazione, iniziò la storia del Cana-d a moCana-derno. Una storia la cui car-ta d'identità consiste nell'intreccio di etnie differenti. L'identità vittoria-na, anglosassone e protestante, assai forte in Ontario, si confronta con quella francofona e cattolico-romana del Québec-. La Confede-razione accoglie poi a braccia aperte i flussi migratori, necessari per riempire le vaste lande di un paese ancora poco popolato: si tratta di genti interne al Common-wealth (soprattutto indiani), ma

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