Dunque un settimanale non settimanale e una «terza» sempre meno «terza» in senso classico: le tendenze di fondo che si è cercato di delineare sembrano aprire per il giornalismo culturale in Italia una complessa fase di transizione, in cui le spie di superamento dell'antico retaggio umanistico-erudito coesistono con la incertezza su nuovi modelli e con una generale incertezza acuita anche dall'introduzione delle tecno-logie informatiche che modificano assetti e ruoli tradizionali.
A fronte di queste trasformazioni al giornalista sarebbero necessari strumenti nuovi rispetto a quelli di un passato fatto
di regole tacite, acquisite ed interiorizzate sul campo, eppure raramente formalizzate come «professionalità culturale» idonea all'esercizio della professione nei suoi diversi ruoli; siamo cioè di fronte a un 'elite senza sapere?12.
L'interpretazione ci sembra particolarmente calzante ri-guardo al giornalismo culturale. Anche da queste prime note, preliminari ad un più ampio lavoro di ricerca, il dato di fondo sembra investire infatti la scarsa consapevolezza del proprio ruolo nella lettura dell'evento e nelle sue interrelazioni con i più generali processi culturali: di qui l'immagine di una professione, quella del giornalista nei settori culturali, attual-mente incerta tra la memoria di un passato illustre ma sorpassato negli approcci come nei linguaggi e la costruzione di un modello diverso, più sensibile al versante della tematizza-zione e all'approfondimento.
A verificare questa possibile chiave di lettura non potranno che intervenire rilevazioni empiriche, tanto nella direzione dell'analisi di contenuto qualitativa e quantitativa delle pagine culturali e degli inserti, quanto delle interviste in profondità nelle redazioni: e gli interrogativi, senz'altro più numerosi dei tentativi definitori, che in queste pagine si è cercato di tracciare testimoniano almeno l'ampiezza dei problemi che il muta-mento in atto determina in quest'area di frontiera della professione, rilanciando altrettanti percorsi di ricerca.
Note
1 «Società & Cultura» inserto de «La Stampa» del 27.6.1989.
2 SINIGAGLIA A . (1989), La metamorfosi della Terza, in Una svolta, una sfida, supplemento speciale al primo numero della nuova serie de «La Stampa» del 27 giugno; inoltre N. AJELLO (1980), I maestri del colore, in «Problemi dell'informa-zione», n. 1.
3 Cfr. il recentissimo Gisorn M. (1989), Storia della Terza pagina, Capone Editore, Cavallino di Lecce. Sulla «terza» in particolare il panorama bibliografico non appare molto esteso.
4 Cfr. in particolare BECHELLONI G. (1982), Il mestiere di giornalista, Liguori, Napoli.
5 BECHELLONI G. ( 1 9 8 2 ) , cit., passim. 6 SINIGAGLIA A. (1989), cit.
7 GALLINO L. (1989), Gli azzardi sociologici, in Una svolta una sfida, cit. Sullo stesso numero è interessante anche il contributo di Massimo Cacciari sul ruolo dei
filosofi che scrivono in «terza» ai fini degli identikit dei contributi esterni nella confezione della pagine culturali dei quotidiani.
Un discorso a sé merita l'intero versante della critica specialmente letteraria che delle pagine culturali ha costituito e ancora costituisce un genere fondamentale; sui problemi che essa pone e sui linguaggi utilizzati la bibliografia disponibile in Italia è sicuramente più articolata di quella riscontrabile per la terza pagina. In questa sede si è preferito tuttavia, anche per ragioni di spazio, concentrarsi su una prima lettura del prodotto culturale offerto dai quotidiani nella più generale redistribuzione di spazi, forme e funzioni tradizionalmente assegnate alle pagine e agli inserti culturali.
8 II concetto di «professionalità culturale», insieme a quelli di «professionalità tecnica» e «politica» è stato elaborato da G. BECHELLONI e a più riprese sostenuto in vari saggi. Mi limito in questa sede a segnalare di nuovo il già citato II mestiere
di giornalista che raccoglie una serie di contributi teorici e di ricerca empirica di
grande rilievo sulla professione giornalistica in Italia.
SORRENTINO C . (1987), L'immaginazione giornalistica, SEN, Napoli.
1 0 BUONANNO M . (1989), L'informatica in redazione, in G. BECHELLONI-M. BUONANNO (1989), Lavoro intellettuale e cultura informatica, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti 18, Roma.
1 1 SINIGAGLIA A. (1989), cit.
1 2 BECHELLONI G. ( 1 9 8 9 ) , Il nuovo giornalista, problemi, ruoli responsabilità,
relazione presentata al Convegno su « I mercati della notizia», ora in G. CELSI-R. FALVO ( 1 9 8 9 ) , / mercati della notizia, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti
19, Roma.
LE INIZIATIVE DEGLI ORGANI PROFESSIONALI
LA FORMAZIONE PROFESSIONALE Le delibere del Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti
1. Due date da ricordare
Il biennio 1988-1989 potrebbe restare nella memoria storico-professionale del giornalismo italiano come il momento di rottura, la soluzione di continuità, tra un vecchio modo di pensare — e di agire — e un nuovo orientamento — teorico-pratico — del corpo professionale nei confronti della vexata questio della formazione e dell'accesso al giornalismo professionale.
Due le date da ricordare: il 6 luglio 1988, giorno della approvazione, da parte del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti, della delibera «contenente il quadro di indirizzi e condizioni per le scuole di giornalismo»; e il 2 marzo 1989, quando lo stesso Consiglio nazionale approva «il regolamento con le norme di attuazione» della precedente delibera, che la rende definitivamente operativa.
Cosa significano le due delibere? La risposta è duplice. Sul piano simbolico, sanciscono la definitiva caduta dei tabù professionali nei confronti delle scuole e degli istituti finalizzati alla formazione dei giornalisti. Sul piano concreto, rappresen-tano un tentativo del corpo professionale, nelle vesti della sua massima organizzazione di rappresentanza, di farsi carico della formazione professionale e indicare le caratteristiche di un modello, ancora sperimentale nella sua definizione, verso cui orientare le iniziative per la formazione al giornalismo, sia quelle nate in questo ultimo decennio, nelle sedi più disparate, sia quelle future.
Per quanto riguarda il primo livello, quello simbolico, sarà utile ripercorrere, sia pure attraverso le tappe principali, il dibattito sviluppatosi nell'ambito del giornalismo italiano sulla necessità di adeguare la formazione del giornalista alle nuove condizioni ed esigenze del sistema informativo e della società. Al secondo livello, quello concreto, si ritiene opportuno fornire una panoramica ragionata, anche se schematica, delle 107
attuali opportunità di formazione offerte a chi intende avviarsi alla professione giornalistica. Ambedue i livelli sono necessari a definire il contesto in cui si inserisce l'iniziativa del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti. Iniziativa che verrà illustrata nei suoi tratti essenziali.
2. Le tappe del dibattito
Nel corso dell'ultimo decennio si è sviluppato un ampio dibattito intorno al tema dell'accesso e della formazione professionale. La discussione ha interessato sia la categoria degli operatori dell'informazione, sia gli accademici e gli esperti. Le fasi principali del dibattito sono sostanzialmente tre, ricondu-cibili ad alcuni momenti particolarmente significativi.
La prima fase ha inizio con il Convegno su «La formazione professionale del giornalista», organizzato dal Consiglio nazio-nale dell'Ordine dei giornalisti nel maggio 1978 a Vico del Gargano. Con quell'incontro l'Ordine legittima il dibattito sulla formazione e lo fa proprio. Il quesito principale di allora verte sull'utilità e sull'opportunità di scuole e istituti volti alla formazione dei giornalisti.
La seconda fase si concretizza in un altro Convegno, tenutosi ad Urbino nell'ottobre 1985, sul tema: «Più liberi di informare nel villaggio elettronico. Studiare da giornalista». Il Convegno viene organizzato congiuntamente dall'Ordine e dalla Federa-zione Nazionale della Stampa Italiana (FNSI). In quella sede si valutano e discutono i percorsi formativi possibili alla luce delle iniziative nel frattempo intraprese e dei risultati di ricerche e analisi scientifiche condotte da alcuni esperti, tra i quali i sociologi Giovanni Bechelloni e Milly Buonanno, che da più tempo e con maggior impegno si occupano del problema.
La terza fase culmina con un seminario svoltosi nell'ottobre 1988 a Saint Vincent, dove l'Ordine illustra e sottopone a discussione il quadro di indirizzi per le scuole di giornalismo che il Consiglio ha deliberato nel luglio precedente. A Saint Vincent giornalisti, docenti universitari, rappresentanti della FNSI e della Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG), sanciscono definitivamente la fine di una ideologia e di una
mentalità a lungo dominanti tra i giornalisti italiani. Una ideologia e una mentalità che si sono sempre alimentate di un duplice mito romantico: quello del giornalista si nasce e quello di un mestiere che non si impara sui banchi di scuola, ma sui banconi della tipografia e nelle redazioni.
A partire da Saint Vincent il discorso su formazione e accesso professionale entra in una nuova epoca. Il quadro di indirizzi e il successivo regolamento dell'Ordine indicano la direzione di una lunga strada ancora da percorrere. Infatti molte delle questioni emerse nel corso di un dibattito decennale restano sul tappeto.
Di tali questioni le principali riguardano il titolo di studio, il tipo di formazione e il collegamento tra questa, l'attività professionale e gli sbocchi occupazionali. In forma schematica, con tutti i rischi e limiti conseguenti, è possibile puntualizzare le domande che attendono una risposta.
In primo luogo ci si chiede se è opportuno rendere obbligatoria la laurea per esercitare la professione giornalistica. E, in caso affermativo, quale laurea? (Va tenuto conto che attualmente per sostenere l'esame professionale, oltre ad aver svolto un periodo di «praticantato» della durata di 18 mesi, è sufficiente essere in possesso della licenza di scuola media superiore, oppure, in alternativa, sostenere un esame di cultura generale).
A quanti sostengono la necessità di una laurea per l'iscri-zione nell'Albo dei giornalisti professionisti si oppone ancora una parte del corpo professionale che non solo ritiene eccessiva una tale condizione (e sufficiente, tutt'al più, il possesso del diploma di scuola media superiore e una formazione profes-sionale extra-universitaria), ma vede nella laurea obbligatoria una limitazione, di stampo antidemocratico e illiberale, dell'ac-cesso professionale. Anche tra i favorevoli, comunque, restano molti dubbi sul tipo di laurea. In particolare ci si chiede se la laurea debba rappresentare soltanto la garanzia di un elevato grado di istruzione formale, o debba anche certificare l'acqui-sizione di un sapere specialistico. In questo caso si fa presente
che le Università italiane, generalmente, non sono ancora attrezzate con corsi di studi finalizzati alla formazione profes-sionale dei giornalisti.
In secondo luogo, i corsi e gli istituti per la formazione al giornalismo devono essere universitari o para-universitari?
Su questo punto la tendenza tra i giornalisti è quella di privilegiare corsi para-universitari, dove sia più marcata una formazione pratic-oriented, chiamando docenti universitari a coprire le aree di formazione culturale. Dall'altra parte, si fa notare che, al di là di ogni pregiudizio anti-accademico, le Università restano i luoghi deputati alla formazione e trasmis-sione del sapere, che, nel caso specifico, può essere integrato, tramite contratti di docenza con giornalisti professionisti, con una formazione tecnico-pratica finalizzata al giornalismo.
Ammettendo, in terzo luogo, un corso di livello universita-rio, questo deve essere orientato specificamente al giornalismo o più in generale alle comunicazioni di massa?
La tendenza del corpo professionale è verso corsi di studio finalizzati al giornalismo, dove è più evidente la necessità di adeguare, o creare ex novo, le strutture formative. Ma viene fatto notare che in realtà le trasformazioni del campo delle comunicazioni di massa hanno determinato la nascita di nuove professioni, che vanno dagli uffici stampa alle relazioni pubbliche, passando per la pubblicità. Questi nuovi profili professionali pongono specifici problemi di conoscenze, con-tenuti e obiettivi professionali da una parte, e di etica e deontologia professionale dall'altra, ma condividono con il giornalismo un sapere mutuato dalle scienze umane e sociali, necessario a garantire un valido retroterra culturale. Non solo, ma una preparazione orientata alle comunicazioni di massa consentirebbe anche maggiori possibilità di sbocchi occupazio-nali, che, è prevedibile, interesseranno sempre più le nuove professioni.
Dalla precedente deriva una quarta domanda: eventuali corsi di formazione al giornalismo devono provvedere più alla formazione generale di base o a quella tecnico-specialistica?
Anche qui la tendenza dei giornalisti è a privilegiare la seconda ipotesi. Tendenza generalmente condivisa ove
tuale corso sia di livello post laurea, ma che, invece, trova pareri contrari, soprattutto tra gli esperti e i docenti univer-sitari, se di livello inferiore.
A riguardo del rapporto tra teoria e pratica, si pone il problema di quale peso attribuire alla formazione pratica, da svolgersi sia in testate-laboratorio, sia attraverso stages di apprendistato guidato presso aziende editoriali.
Il problema si pone soprattutto per gli stages formativi nelle aziende. Si tratta di stabilire non solo criteri razionali e verificabili per il loro svolgimento e la durata, ma anche se possono essere considerati sostitutivi, in parte o del tutto, dell'attuale praticantato.
Quale durata deve avere un corso di formazione al giornalismo?
Generalmente la durata va da un minimo di due anni a un massimo di quattro a secondo del tipo di formazione (para-universitaria, (para-universitaria, post-laurea) e degli obiettivi (di formazione più o meno specializzata, più o meno pratic-oriented).
Quale valore attribuire, ai fini dell'accesso professionale, ai corsi di formazione al giornalismo?
La questione è se il possesso di un titolo di studio conseguito presso strutture formative specializzate debba essere considerato di per sé sufficiente per l'accesso professionale, e quindi sostitutivo del praticantato, oppure debba essere propedeutico a quest'ultimo.
Quale grado di coinvolgimento nelle attività formative è più opportuno per le associazioni di categoria?
Il problema riguarda anche la FNSI e la FIEG, ma coinvolge in modo particolare l'Ordine dei giornalisti: se debba essere coinvolto direttamente nella gestione degli istituti volti alla formazione, come le scelte recenti e l'orientamento prevalente tra i professionisti lascia intendere, oppure debba limitarsi ad una funzione di indirizzo e di controllo, come suggeriscono esperti e docenti universitari, in modo tale da garantire il massimo di autonomia di giudizio e non determinare tendenze verso automatismi occupazionali.
Infine resta il problema degli sbocchi occupazionali se questi debbano essere garantiti o meno.
L'avversione alle scuole di giornalismo si è a lungo alimentata anche dell'opinione che queste possano trasformarsi in fabbriche di disoccupati. Superato questo pregiudizio con la proposta del numero chiuso, volto non solo a garantire la qualità della formazione, ma anche a stabilire un corretto rapporto tra numero di partecipanti ai corsi e tum over professionale, tra i giornalisti c'è chi ritiene che si dovrebbe creare una Lista nazionale di coloro che hanno seguito un corso di formazione specializzata dalla quale gli editori dovrebbero attingere per le assunzioni. A questa tesi si oppongono non solo gli editori, ma anche alcuni esperti, che invece, ritengono più opportuno che chi si è formato nelle scuole di giornalismo si presenti sul mercato del lavoro, forte non di una garanzia, ma della qualità della formazione acquisita.
Fin qui, dunque, il dibattito che ha preceduto l'iniziativa dell'Ordine volta a promuovere nuovi percorsi formativi per il giornalismo. Naturalmente le questioni che sono state esposte poco sopra non esauriscono l'ampienza della discussione, che ha lasciato ampie tracce sia nelle testate degli organi di categoria, quali «OG Informazione» (Ordine), «L'Editore» (FIEG) e «Galassia» (FNSI), sia sulle riviste specializzate, quali «Problemi dell'Informazione» o «Sociologia della Comunica-zione», sia sulla letteratura e la saggistica di settore. Si è cercato di evidenziare gli aspetti più importanti di un dibattito, il cui senso è maggiormente apprezzabile alla luce delle iniziative concrete con cui si è intrecciato nel corso di questo decennio. Iniziative che hanno contribuito a definire un sistema forma-tivo tendenzialmente flessibile che viene, più che a sostituirsi al tradizionale praticantato, ad affiancarsi ad esso e ad integrarlo, in attesa che si ridefiniscano non solo le strutture formative, ma anche le modalità di accesso al giornalismo professionale. 3. I banchi di scuola del giornalismo italiano
La professione giornalistica ha conquistato posizioni sempre più elevate nella graduatoria del prestigio sociale. Ciò ha
determinato una crescente domanda di formazione professio-nale, che il tradizionale sistema di reclutamento — basato sul circolo vizioso del dover essere assunti in un giornale come praticanti per poi poter diventare giornalisti — da tempo non è più in grado di soddisfare.
Per rispondere in modo adeguato a tale domanda di formazione e migliorare un sistema di reclutamento da più parti criticato per i criteri non meritocratici di selezione, sono nate diverse iniziative di formazione ad opera di tutte le parti coinvolte, dalle università alle associazioni di categoria dei giornalisti e degli editori, fino alle singole aziende. Sono state istituite così scuole di giornalismo, borse di studio e finanche concorsi per avviare alla professione giornalistica (la Rai, ad esempio, nel 1989 ha messo a concorso una parte delle nuove assunzioni di praticanti giornalisti).
Tra le scuole di giornalismo quattro sono, le più accreditate tra quelle operanti in Italia. Si differenziano tra loro per la maggiore o minore vicinanza alle associazioni professionali, per il grado di coinvolgimento dell'Università, per il collegamento più o meno diretto con il mercato del lavoro, per il livello di formazione impartita. Le quattro scuole sono:
1) Istituto di formazione al giornalismo (IFG): nato per iniziativa