Tanto i supplementi quanto la «terza» rivelano dunque spie di cambiamento in direzione di un più stretto rapporto tra i settori dell'attualità, della cultura e della società anche se. all'insegna di una incertezza sui nuovi possibili modelli di giornalismo: ma se si guarda ora ai protagonisti emergono interrogativi di rilevanza notevole. Qual è infatti l'identikit del giornalista che opera nei settori culturali? Attraverso quali percorsi egli vi accede? E ancora, la sua professionalità è attrezzata di fronte al compito sempre più urgente di interpreti della realtà sociale che l'esercizio della professione sembra
richiedere? Ovvero: esiste una specificità del giornalista cultu-rale rispetto ai colleghi delle altre redazioni? La risposta a queste domande prefigura altrettanti percorsi di ricerca, ma quell'autorappresentazione in termini di «intellettuali prestati al giornalismo» così diffusa tra gli operatori non sembra allo stato attuale delle cose andare molto al di là della denuncia di una esigenza non ancora soddisfatta di conoscenza; ci si rende conto di una «diversità» soprattutto in termini di professionalità culturale che né i percorsi formativi, né le modalità di accesso, né la stessa organizzazione del lavoro redazionale sembrano garantire®. Non si prevedono differenze: né dal punto di vista dei percorsi formativi, poiché risentono della più generale assenza di indirizzi universitari e di specializzazione; né da quello degli accessi, che non prevedono una destinazione del praticante in rapporto alle proprie caratteristiche culturali; né infine, da quello dell'organizzazione del lavoro, che alle prime due carenze aggiunge l'incidenza più o meno accentuata delle routines redazionali come sistemi di regole interiorizzate e di conseguenza sottratte alla necessaria verifica. Il problema non consiste allora nella pretesa di ribaltare il rapporto tra eventi contingenti e processi strutturali estesi nel tempo, di fare cioè del giornalista un ricercatore in scienze sociali, ma di arricchire la professionalità giornalistica con quel bagaglio che proviene dalle scienze sociali e che pone l'operatore dell'informazione in grado di leggere la realtà e di rintracciarne i fenomeni di cambiamento nel lungo periodo: e tanto più rilevante appare questo dato formativo riguardo al giornalista culturale, in quanto ci si trova di fronte ad una figura di frontiera che nell'interpretazione e nella divulgazione dell'evento ha molti punti di contatto con il ricercatore.
Proprio in questo senso, quelle incertezze emerse nel prodotto giornale degli inserti e della «terza» si rivelano in stretto rapporto con un identikit debole dell'operatore: anche da incontri informali avuti nelle redazioni culturali di alcuni quotidiani del Mezzogiorno emerge la percezione netta che molto è cambiato nell'esercizio della professione, senza che vi siano gli strumenti idonei né per comprendere a fondo né per attuare consapevolmente il mutamento.
In particolare vi sono due aspetti che meriterebbero ulteriori approfondimenti anche in sede di ricerca empirica: il ruolo della pubblicistica e l'impatto con le nuove tecnologie. Ad una prima lettura entrambi i fenomeni sembrano agire nella direzione di un progressivo indebolimento della figura del redattore, specialmente nei settori culturali: riguardo al primo punto, infatti, l'incidenza della pubblicistica specializzata va acquistando un peso crescente e non soltanto nel campo delle recensioni librarie. La figura del «collaboratore esperto» più che una presenza rapsodica delinea un fenomeno di punta, trasfor-mando i responsabili di settore in una sorta di committenti con un notevole potere «distributivo» nelle attribuzioni delle mansioni, ma con quali spazi per il redattore? Al di là del ruolo centrale nella confezione del giornale, il loro intervento attivo risulta più limitato ed in ogni caso costretto in tempi brevi dai turni di presenza in redazione. Ad accentuare questa «separa-tezza» del redattore interviene certo anche il clima redazionale in rapporto alla sua caratterizzazione in senso collegiale secondo la tipologia proposta da Carlo Sorrentino9. Resta comunque l'emergere di un processo che non è più la delega temporanea all'esperto sotto forma di intervista o di «parere», ma di un trasferimento di competenze da verificare tanto nella rilevanza quantitativa che negli impatti con l'organizzazione del lavoro redazionale. In questa stessa dimensione agisce anche l'ampia fenomenologia relativa alle trasformazioni tecnologiche e all'introduzione del computer in redazione. Come dimostra il brillante case study su «il Manifesto» condotto da Milly Buonanno, la figura del deskista acquista nel panorama italiano del giornalismo una connotazione problematica rispetto a quanto si è già verificato in altri contesti10: chi opera al terminale avverte infatti il limite tecnicistico assunto dalla professione rispetto al ruolo un tempo centrale della elabora-zione e della scrittura. Tra il deskista e lo scrittore sembra esserci insomma una zona d'ombra che pone in discussione la fisionomia del redattore delle pagine culturali, conferendogli una specificità tanto implicita da tradursi talora in una vaga gratificazione simbolica: quella di operare in un ambito dove
sarebbe richiesta una sensibilità diversa dal comune senso del «fiuto giornalistico», senza che ancora siano individuabili procedure e metodi per l'esercizio della professione.
A scongiurare anche in questa occasione il rischio di una tentazione generalizzante potranno intervenire successivi ap-profondimenti empirici in direzione sia delle differenze quali-tative nell'impostazione e nel taglio della «terza» sui vari quotidiani, sia dei climi redazionali riscontrabili: ciò che tuttavia emerge anche in questa prima fase di riflessione è che la portata della trasformazione coinvolge in pieno le modalità della professione e il sapere necessario a praticarla; il bagaglio enciclopedico di matrice umanistica appare poco adatto alla nuova figura del giornalista culturale, soprattutto se la tendenza complessiva segna il superamento del primato letterario che sembra aver contraddistinto la via italiana al giornalismo culturale.
Di qui la necessità di ritornare al giornalista per tracciarne un identikit al passo con una trasformazione che ne ridefinisce il ruolo: «La rivoluzione culturale nei giornali — conclude infatti Sinigaglia nel suo intervento sulla metamorfosi della «terza» — sarà in buona parte compiuta quando, finita l'acquisizione delle supertecnologie, si tornerà a concentrare ogni sforzo sul giornalista, sulla sua sempre più raffinata capacità di raccontare, di spiegare, insomma sulla sua sempre maggiore professionalità»11.