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Note sul plurilinguismo di Donato

Lo stesso Donato rivela la ricerca della sperimentazione plurilingue. Lo fa in un capitolo in friulano inviato ad Antonio Grimani in cui consiglia l’impiego poetico, accanto

28 Si rinvia al fondamentale G. Contini, Espressionismo letterario. Per una linea espressionistica in Italia, in Enciclopedia del Novecento, II, Roma, Istituto per l’enciclopedia italiana 1977, pp. 780-801 (poi in Id. Ultimi esercizi ed elzevirî, Torino, Einaudi, 1989, pp. 41-105), da affrontare almeno accanto a Id., Dialetto e poesia in Italia, in «L’approdo», III, 2, 1954, pp. 10-13 e a Id. Introduzione alla Cognizione del dolore, cit., pp. 601-619. Per una rilettura delle linee della letteratura dialettale e del canone espressionista continiano, cfr. P. Vescovo, Deviazione dalla norma linguistica: la letteratura dialettale, in Gli “irregolari” nella letteratura, cit., p. 227. D’altra parte, Stussi ha sottolineato come la categoria continiana dell’espressionismo, in cui la dialettalità rientra come uno dei fattori della «violenta sollecitazione linguistica volta a esplorare l’Io più interno» (G. Contini, Espressionismo letterario., cit., p. 792) e come uno degli ingredienti funzionali alla ricerca dell’«idioma privato» (Id., Introduzione alla Cognizione del dolore, cit., p. 610), trova la sua massima realizzazione nel Novecento e pertiene quindi a un determinato periodo storico; cfr. A. Stussi, Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana: teoria e storia, in Lingua e dialetto nella tradizione letteraria italiana, Atti del convegno (Salerno, 5-6 novembre 1993), Roma, Salerno editrice, 1996, p. 25. Sulla funzione letteraria dei dialetti, cfr., inoltre, C. Segre, Polemica linguistica ed espressionismo dialettale nella letteratura italiana, in Id., Lingua, stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 383-412.

29 Per una delimitazione delle definizioni e usi di ‘espressionismo’, ‘espressivismo’ e di ‘parodia’, cfr. I. Paccagnella, Il fasto delle lingue, cit., pp. 19-21 e Id., Plurilinguismo letterario, cit., pp. 164-167. Si rinvia, inotre, per ‘espressivismo’ a L’espressivismo linguistico nella letteratura italiana, Atti del convegno (Roma, 16-18 gennaio 1984), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985 e per ‘parodia’ a G. Gorni e S. Longhi, La parodia, in Letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, V. Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 459-487.

al toscano (che definisce lingua per poetare in sunet o in chianzon CXIII, 20), del friulano (CXIII, 13) e di altri linguaggi autorizzati dalla letteratura e dal teatro veneti («o da Vigniesia o Bergum o Pavan / chu adhoris angh chesch plaiz sunin drett boon!» CXIII, 17-18). Non è possibile quantificare il grado di consapevolezza dell’autore del reimpiego che egli opera di questi materiali e ricordi letterari, ma il «rido e sganasso» (LXVI) del sonetto inviato a Donada Donado risalta come ciò che conta sia l’efficacia espressiva raggiunta in molti degli esperimenti che vengono attuati; la scrittura viene considerata un «loco amico» in cui ritrovarsi «dove / siano burlosi poi tutti i parlari / perché la rea stagion sen vadi altrove» (LXIX, 12-14), senza la necessità di una scala di valori rispetto ai codici impiegati.30

TOSCANO. L’italiano letterario di Donato segue, nel complesso, le norme grafiche affermatesi attraverso il filtro dei tipografi; presenta, in particolare, l’assimilazione dei gruppi consonantici e il mantenimento dell’h etimologica e del nesso ti latino. A livello globale si può affermare che questi fenomeni valgono anche per le altre lingue, compresa la non distinzione tra u e v. D’altra parte, tali scelte nella metà del Cinquecento sembrano essere predominanti nei testi in volgare.31 Piuttosto frequente, e comprensibile per uno scrittore settentrionale, appare l’oscillazione nell’uso delle doppie, sia nei casi di scempiamento, sia in quelli di raddoppiamento per ipercorrezione. Si consideri, a titolo di esempio, il caso dei composti prefissali da ex-, che lungo il secolo si trascrivono prima con -ss- e poi, ma con oscillazioni -s-, per cui Donato presenta essangue, essercitata, essempii,

esserciti, essattori, essilio, essanima (prefisso che si complica, per lo meno a livello

grafico, in un contesto quasi fidenziano: egssito XV, 17). Oppure, anche se in genere in Donato prevale la grafia latineggiante ti, non mancano oscillazioni (giuditio / giudicio,

gratia / gracia, in rima con sacia, imundicia e magnificencia), che invadono anche la sede

di rima (officio : giudicio : vitio IX, 2-6, almeno dal punto di vista grafico).

30 A livello metodologico, stimoli per un’analisi del vocabolario di uno scrittore, come prima spia delle tendenze espressive che costituiscono il suo edificio linguistico, si colgono dalle pagine di Mengaldo 1963: 253-257 e G. Folena, La crisi linguistica del Quattrocento e l’“Arcadia” di I. Sannazaro, con una premessa di B. Migliorini, Firenze, Olschki, 1952. Visto il carattere panoramico di questa introduzione, si precisa che quando i prelievi dal testo di Donato hanno puro carattere catalogatorio non si dà l’indicazione del numero di componimento e di verso (o di paragrafo) da cui si cita.

31 Cfr. B. Migliorini, Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, 1957, p. 200. Per il paragrafo sull’italiano si tiene presente il quadro sul Cinquecento offerto dallo stesso Migliorini in Storia della lingua italiana, Introduzione di G. Ghinassi, Milano, Bompiani, 200411

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La poesia toscana di Donato si sottrae in larga parte dall’esempio della migliore tradizione letteraria italiana: la ricerca di riscontri porta di fatto a scarsi risultati, sintomo della distanza dal canone proposto da Bembo e soprattutto dal petrarchismo. A questo punto sembra utile, come supporto per delimitare le componenti culturali che confluiscono nell’opera, elencare alcune tracce dei modelli illustri.

A Petrarca conducono «arbor trionfale» (IX, 54) che ha memoria di «Arbor victorïosa e triumphale» (RVF 263, 1), e «morte i svelse la chioma» (XXII, 33) che rivela la suggestione di «Allor di quella bionda testa svelse / Morte co la sua mano un aureo crine» (Triumphus Mortis I, 113-114). Lo stesso accade guardando a Dante, per il quale l’indagine sulle corrispondenze individua sintagmi facilmente riconoscibili, per esempio: «non volse ma non puote» (XXVI, 5) che rinvia a Inf V 23-24, ma anche «infernal groppo» CXLVII, 8, che costituisce un’ altra allusione dantesca generica. Sporadiche sono pure le tessere che provengono da Ariosto; alcune però paiono significative, come la rara rima

uopo : Esopo (che si trova nelle Satire, di preciso all’interno della serie dopo : uopo : Esopo VI, 161-165) e la locuzione «dar all’arma» (XXXVIII, 66) che, considerato il

contesto in cui occorre, ovvero le quartine sulla battaglia di Lepanto, riprende con tutta probabilità il tecnicismo «dar all’arme» presente nel Furioso (XXXIX, ottava 35). Altri elementi, che riconducono ad Ariosto, sono i sintagmi «patrocinio preso» (XII, 15; identico in Ariosto Furioso, XXX, ottava 7) e «gavazza e salta» (XVIII, 5, in Ariosto «salta e gavazza» Furioso, XXVII, ottava 100); condizionate dall’Orlando Furioso – e, più in generale, da opere in cui si fissano i modelli della letteratura alta – sembrano poi le scelte di «odori sabei» (XXIV, 14), «dea triforme» (XLI, 7) e «fiume stigio» (LII, 15) che sono rispettivamente riconducibili a «li odori / di Gnido e di Amatunte e de’ Sabei» (Ariosto,

Rime, cap. III, 21), «O santa dea, che dagli antiqui nostri / debitamente sei detta triforme»

(Ariosto Furioso, XVIII, ottava 184), «stigio fiume» (Ariosto Rime, VI, 5). Emerge poi la presenza, in un sonetto databile agli anni ’90, della rima Cristo : acquisto, che con tutta probabilità risente della suggestione della prima ottava della Gerusalemme liberata, segno oltre che della rapida ricezione di Donato, anche dell’immediata e larga diffusione del poema di Tasso (si veda CXLV, 11-14)32. Del resto, i poemi di Ariosto e Tasso sembrano

32 Sulla risonanza della rima Cristo : acquisto – in un percorso che va dall’Orlando furioso alla sede privilegiata dell’esordio della Gerusalemme e in una posizione privilegiata che sancisce la fortuna di tali parole-rima dopo il riuso formulare che viene attuato all’interno di numerosi componimenti celebrativi per Lepanto – cfr. M. Pastore Stocchi, Sopra l’incipit della «Gerusalemme liberata» in Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in onore di Lino Lazzarini. II. Dal Cinquecento al Novecento, Padova, Antenore, 1979, pp. 211-229.

anche funzionali alle ottave narrative di Donato (distendono 12 ottave i testi XXXII e LXXXII). Altra spia che connota le letture illustri di Donato, e il suo metodo di lavoro, sembra inoltre il ricorso al metro e a parti di testo della Canzon del Trissino a papa

Clemente VII, in una poesia del 1567 inviata Al clarissimo signor Salvador Soriano, podestà in Portogruaro (XII), la cui forma metrica viene replicata in due componimenti

successivi (XLVI e CXXVII).

Si è detto che più diffusa in Donato, ma non esclusiva dei componimenti in italiano, appare la propensione a una scrittura non regolare, che accompagna per la maggior parte poesie d’occasione dedicate a temi come la sifilide (XIX e in veneziano XXXIII), il primo d’agosto (LXIX), la richiesta di quesiti paradossali (IV), la lode dell’osteria (IX). Si tratta di una scrittura che congloba stimoli diversi, riconducibili alla tradizione che dal Burchiello giunge alla poesia bernesca e, in modo distinto, alla fortuna della formularità fidenziana. Un modo di procedere che mescola istanze, di matrice sia colta sia popolare, evidenti nella molteplicità degli spunti messi in campo, che si abbina con le forme del sonetto caudato o del capitolo ternario, spesso arricchiti da rime sdrucciole. Per quel che riguarda i componimenti in italiano, sono travasi fidenziani termini quali agricola,

auricola, celicola, particola, rationabile; a questi si affiancano poi antidatami, augente, egrotante, emptorio, eshausto, estrattionarmi, ettrurinea, papiriamente, scritturamine, tumefattione. D’altra parte lo stesso Donato ostenta la pratica fidenziana e burchiellesca

nella coppia di sonetti inviati a Pietro Mestrense, i quali si candidano come fregi che si rifanno rispettivamente a stilemi polifileschi (LXVIII) e burchielleschi (LXIX). A caratterizzare questi esercizi poetici sembra concorrere lo sfruttamento di una lingua dotata di un lessico particolare e composito, che di solito accompagna contenuti imperniati sull’equivoco o sul paradosso burlesco e, a volte, su allusioni oscene suggerite dall’eufemismo. Qui pare affiorare la parodia petrarchesca, vale a dire quando Donato suggerisce a Marin Malipiero di ornarsi di «lauro / la chioma, i lombi, e con fama e con fausto / tonante e chiaro dal candido al mauro» (LXXXIX, 19-21). Nell’opera, sono ammesse le ambiguità semantiche di ambito erotico, del tipo pane, radice, becco, metafore dell’organo sessuale maschile, forno, sozza terra, figo, di quello femminile, guazzetto e

allesso, per il rapporto sessuale, fino a punti in cui l’iperbole inattesa esplicita il

riferimento, come nel sintagma «vulvanei chiostri» (LXXXVI, 7). Sulla linea della produzione letteraria coeva, le trivialità sono comunque bandite, come avviene per il

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Capitolo sopra la villa di Gruaro, inviato a Marco Balbi, non registrato nel manoscritto

«per esser alquanto lascivo» (XCV).

VENEZIANO. A livello grafico anche per le poesie veneziane numerose sono le forme con consonante scempia, a cui si accostano i casi con geminata per influsso dei modelli scritti toscani (si registrano, almeno sul piano della grafia: accasao, affanno, fillao, putte, rebuffo,

zoccoli, ecc.). In linea con il veneziano cinquecentesco è anche l’esito dei nessi di

occlusiva bilabiale più L: tutti i casi sono in linea con i corrispondenti evoluti (piase,

piombo, piova, biave). Abbondano le attestazioni di dittongo come esito da Ĕ, Ŏ (sie,

piegore, cuor, cuogo; ci sono anche casi di dittongamento in corrispondenza delle vocali

lunghe del latino, come eriedi); appare scarsa la presenza di io in corrispondenza di uo, un esito che costituisce una novità d’epoca cinquecentesca (in cui le nuove forme però non soppiantano del tutto quelle con uo): per cui, nel manoscritto, accanto a quella che pare l’unica attestazione di io (liogo ‘luogo’), si trovano esempi come duol, fuogo, muodo,

nuova e nuove (il dittongo io si produce poi in forme tutte plurali nioli, riose, zioghi e ziogari, per le quali varrà l’influsso metafonetico). Per la prima persona del futuro, stabile

la presenza della desinenza ò (cantarò, farò, sarò, scognarò mentre l’antica desinenza è

-è) e anche la desinenza -ao dei participi passati deboli della prima coniugazione (accasao, incalmao, liegrao, sbalzao, contro le forme i -à e -ado); anche questi fatti morfologici sono

in linea con il veneziano del periodo.33

La lingua che Donato usa per i suoi componimenti ha nel complesso caratteri conformi a quelli del suo dialetto nativo in età rinascimentale, senza evidenti fuoriuscite dal sistema. Il lessico si mostra sullo stesso piano di quello codificato dalla tradizione letteraria veneziana; questo vale anche quando il discorso è condizionato da procedimenti stilistici come lo sdrucciolo o dalla ricerca di un particolare gergo (e la linea di ricerca poetica corrisponde a quella già descritta per i componimenti in italiano).

33 Forma che, d’altra parte, viene considerata un «blasone del veneziano cinquecentesco» e adottata anche dai non veneziani; per queste note si è fatto riferimento alla sintesi sulla fonomorfologia del veneziano rinascimentale contenuta in L. Tomasin, Storia linguistica di Venezia, Roma, Carocci, 2010, pp. 88-90 (si cita da p. 90). Sulle caratteristiche del veneziano si veda, in particolare: A. Zamboni, Veneto, Pisa, Pacini, 1974, pp. 9-31; A. Stussi, Venezien/Veneto, in Lexicon der Romanistischen Linguistik, a c. di Günter Holtus, Michael Metzeltin, Christian Schmitt, Tübingen, Narr, vol. II/2: Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, 1995, pp. 124-134; P. Tomasoni, Il Veneto, in Storia della lingua italiana, vol. III: Le altre lingue, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, pp. 212-224; C. Marcato, Il Veneto, in I dialetti italiani. Storia, struttura, uso, Torino, UTET, 2002, pp. 296-303.

Immediatamente riconducibili alla letteratura veneziana cinquecentesca – i modelli più famosi sono quelli di Andrea Calmo e Alessandro Caravia – sembrano espressioni come: «La lengua ha fatta una velma per banda / che no ghe puol passar nianca panae» (XXIII, 9-10, utilizzate per la rappresentazione degli effetti collaterali delle terapie per la cura del mal francese), una battuta che richiama la sintomatologia del vecchio innamorato di Calmo: «Ho cinque denti, e fuzo le panàe» (Rime, son. comm. II 19; e va da sé che la condizione dell’amore in età senile ritorna più volte in Donato, e in più lingue, cfr. Pellegrini 2003: 241-259), oppure, ancora: «tiro zo ’l becho e ghe fago de cao» (CII, 10) che rivela la lettura di Calmo, Rime: «Zenso, tiré zó il beco e fé de cào» (epit., VII, 1).

Ricca e sostenuta appare la zona del lessico materiale di àmbito marinaresco e pescatorio, a cui si possono ricondurre vocaboli che spesso vengono piegati a metafora, del tipo velma, zosana, palui, trombe fiapie, (talora in direzione oscena, come peschiera CXVb); i nomi di imbarcazioni bragagna, gondola, zopolo, e ancora, con riferimento ai materiali utili per la navigazione pozza, sartia, argani, cozzoli, stanghe; ulteriori prove del prestigio di cui gode in Donato questa terminologia settoriale e, ad un tempo, della vitalità di questo campo del lessico materiale nel veneziano rinascimentale.

Spunti di grande fascino si generano poi dalla citazione di figure quali mistro Mucchio LXXXIV, 49, mistro Rigo CXVb, 42 e donna Stana CXXIV, 50, personaggi che appartengono alla cultura popolare circolante sulle piazze veneziane, la cui fortuna, diffusa dal serbatoio delle stampine in ottavo, giunge alle scene (e nelle stampe) teatrali.

FRIULANO. Nota è la fisionomia del friulano di Donato, che applica un uso pressoché forgiato sulle varietà occidentali nelle due prose (Al signoor Nastaas Carb di Siest

amalaat, XXVII e Testamint di barba Pisul Stentadizza, XXXI, ispirate alla parlata

locale), mentre in poesia preferisce forme riconducibili sia al friulano occidentale, sia al modello centrale. Basti semplicemente considerare l’alternanza, lungo il manoscritto, delle vocali in uscita -a ed -e, oppure, per cogliere il tratto che contrappone, in corrispondenza della posizione in cui si verifica la quantità vocalica, il dittongamento delle varietà occidentali e l’allungamento di quelle centrali, si veda l’opposizione di fouc e fuuch, louc e

luuch, e così via: minimi esempi che marcano rispettivamente il tipo a destra e a sinistra

del Tagliamento.34 Proprio in riferimento al friulano, Donato sembra dimostrare una sottile

34 Sul friulano di Donato, cfr. Rizzolatti-Zamboni; sulla varietà di Gruaro, cfr. G. Francescato, Dialettologia friulana, Udine, Società Filologica Friulana, 1966, pp. 239-240. Per il friulano e le sue varietà si fa

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propensione alla riflessione linguistica, che lo porta anche a qualche affermazione polemica a difesa delle parlate marginali, come accade nel madrigale (XXX) che introduce la prosa friulana del Testamint. Ma Donato è noto anche per il suo sostegno a una pratica di un friulano di koinè che implica, in poesia, l’intreccio di forme centrali (udinass), carniche (chiargniel) e paludane (paludan, da ricondurre, come annota Pellegrini 2003: 185, alle parlate della Bassa paludosa), come dimostra il noto sonetto inviato all’organista di San Vito (CX). Non è possibile stabilire quali siano le fonti dalle quali Donato impara il friulano centrale, ma si può ipotizzare che il tramite sia costituito da un lato dalla circolazione manoscritta privata, dall’altro lato non si possono escludere, anche se i testimoni noti sono rarissimi, le edizioni a stampa (in particolare, si pensi alle pubblicazioni coeve alle celebrazioni per la vittoria di Lepanto).35

Per quel che riguarda la grafia dei testi friulani, bisogna accennare almeno al fatto che Donato registra l’allungamento vocalico con la vocale doppia, in linea con gli usi grafici diffusi nel Friuli del Cinquecento. A volte però tale grafia indicante la durata vocalica si trova in posizioni in cui normalmente il fenomeno non si verifica, come davanti a nasale (been, seen, boccoon, boon, compassioon, temoon, toon, ma in alternativa a forme corrette come boccon, bon, chianzon) o davanti a sillaba finale chiusa da una coda consonantica complessa (celeent, denaant, graant con oscillazioni, ad esempio, per la stessa parola

chiaalt e chialt; sempre in concomitanza con forme non anomale quali iavant, fazzint, punzint). Accanto all’uso di chi o chy per la rappresentazione dell’occlusiva palatale sorda

(a cui corrisponde gi per la sonora), in posizione iniziale e a interno parola, si noti poi

riferimento, inoltre, a: G. Frau, I dialetti del Friuli, Udine-Pisa, Pacini,1984; R. Pellegrini, Friuli, in Storia della lingua italiana, vol. III: Le altre lingue, a cura di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, pp. 240-260, ora in Pellegrini 2003: 11-34; P. Benincà e L. Vanelli, Linguistica friulana, Padova, Unipress, 2005.

35 Le prime attestazioni di testi friulani a stampa risalgono alle seconda metà del Cinquecento. Il friulano compare nella commedia La Pace di Marin Negro (cfr. § 2), e viene utilizzato per alcuni componimenti sul tema della battaglia di Lepanto, e che circolano probabilmente sia attraverso manoscritti, sia a stampa (sui testi friulani per Lepanto cfr. R. Pellegrini, Versi friulani per Lepanto, «Metodi e ricerche», III, 2, 1984, pp. 43-68, ora in Pellegrini 2003: 143-168; P. Rizzolatti,“Sore la vitorie da l’armade”: un inedito componimento friulano per ‘Lepanto’, in Dialettologia e varia linguistica per Manlio Cortelazzo, a cura di G. L. Borgato e A. Zamboni, Padova, Unipress, 1989, pp. 293-299). Al 1584 risale, poi, l’edizione, curata da Leonardo Salviati, in appendice a Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone (Venezia, Guerra, 1584), di una traduzione in friulano della IXa novella della Ia giornata del Decameron (cfr. G. Faggin, Il testo friulano negli “Avvertimenti” del Salviati (1584), «Goriški Letnik», 28, 2001, pp. 187-191). Un’attestazione della produzione manoscritta privata appare il citato codice Vaticano 13711, di provenienza udinese (per il quale si rinvia almeno al contributo più recente: R. Pellegrini, Sonetti friulani inediti del Cinquecento, in Miscellanea di studi linguistici offerti a Laura Vanelli da amici e allievi padovani, a cura di P. Rizzolatti e R. Maschi, Udine, Forum, 2007, pp. 63-74, che in calce raccoglie tutti i riferimenti bibliografici in cui confluiscono testi tratti dal codice Vaticano 13711).

l’ampia gamma di trascrizioni della stessa occlusiva a fine parola: -gh, -ch, -g (cheesg/cheesch, dugh/duch, duquangh, tangh, grangh, infangh, vingh, dingh, paringh).

Impasti grafici diversi che non sono da valutare come scarsa padronanza linguistica, anzi, il ricorso al friulano è sicuro e disteso lungo molteplici registri (e livelli stilistici), che vanno dal pieno ossequio all’autorità (a cui, peraltro, Donato consegna le stesse formule, come si verifica nelle sottoscrizioni: «Zambattista Donaat, dut vuostri in veretaat / e d’inviarn, e d’estaat» XXVII; «Zambattista Donaat / a voo s’inchina e d’inviarn e d’estaat [...]» CXIIIa, 1-2) fino al dispiegamento di artifici retorici messi in atto nella prosa del

Testamint.

Sul piano lessicale, emerge nel friulano l’ampio ricorso al vocabolario contadino: un patrimonio che arriva a Donato direttamente dalla vita quotidiana (e dalla pratica concreta dell’agricoltura) e che si mostra un terreno fertile per strategie allusive e metaforiche riprese dai fenomeni naturali o dalle attività feriali. Per saggiare le scelte lessicali friulane, in questo caso gruarine, di Donato, si legga la versione di Tibullo (Elegie, II, I, 5-6) contenuta in una prosa (LVI), infarcita di citazioni dai classici: «Luce sacra requiescat humus, requescat arator; / et grave suspenso vomere cesset opus» volta in «la fieste polsi

l’hom, polsi ’l terren, / e si metti da un las lu zoof e ’l fren»; di preciso humus diventa hom,

con ripresa fonica, arator viene sostituito da terren (che ha accezione diversa da humus), il

vomere latino viene reso con il sintagma «zoof e fren» ‘il giogo e il freno (dell’aratro)’.

Donato riconduce la massima latina al suo quotidiano, secondo il meccanismo rinascimentale che pone l’uomo al centro del suo destino, non la terra (humus) dispensatrice di vita (cfr. Pellegrini 2008: 142). Tale versione ricompare nel Lamint alla

gruaresa (LXXVI, 35-36), con una lieve variante, ma significativa: la fieste diventa, di

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